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Condizione mista e buona fede nel preliminare

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 243/2025, interviene su un caso di contratto preliminare di compravendita immobiliare la cui efficacia era legata a una condizione mista, ovvero l’ottenimento di un finanziamento da parte del promissario acquirente. Annullando la decisione della Corte d’Appello, la Suprema Corte stabilisce che in presenza di una condizione posta nell’interesse di entrambe le parti, la controversia non può essere risolta applicando il principio generale sull’onere della prova. Il giudice deve invece accertare, in base al principio di buona fede, quale delle due parti abbia tenuto un comportamento che ha impedito l’avveramento della condizione.

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Contratto Preliminare e Condizione Mista: La Buona Fede Decide

Quando si stipula un contratto preliminare di compravendita, è comune inserire clausole che ne subordinano l’efficacia a eventi futuri e incerti. Una di queste è la condizione mista, come l’ottenimento di un mutuo o di un finanziamento. Ma cosa succede se la condizione non si avvera? Di chi è la colpa? La recente ordinanza della Corte di Cassazione n. 243/2025 offre un chiarimento fondamentale: non basta guardare all’onere della prova, ma è necessario valutare la condotta delle parti secondo il principio di buona fede.

Il Caso: Un Preliminare Immobiliare Sotto Condizione

Una società immobiliare (promissaria acquirente) stipulava un contratto preliminare per l’acquisto di un immobile da un’altra società (promittente alienante). L’accordo era subordinato a due condizioni: l’approvazione di una variante urbanistica da parte del Comune e l’ottenimento, da parte dell’acquirente, di un finanziamento in leasing.

Mentre la variante urbanistica veniva concessa, il leasing non veniva stipulato entro i termini. La società acquirente chiedeva quindi la risoluzione del contratto e la restituzione della cospicua caparra versata. La società venditrice, invece, si opponeva, sostenendo che il mancato ottenimento del leasing fosse imputabile all’inerzia dell’acquirente e chiedeva al giudice una sentenza che trasferisse la proprietà dell’immobile, previo pagamento del saldo.

Il Percorso Giudiziario: Decisioni Contrastanti

Il Tribunale: La parola alla promittente alienante

In primo grado, il Tribunale dava ragione alla società acquirente. I giudici ritenevano che il contratto fosse sottoposto a una condizione risolutiva e che la società venditrice non avesse fornito la prova che il mancato ottenimento del leasing fosse dovuto a una condotta colpevole della controparte. Di conseguenza, il contratto veniva risolto e la venditrice condannata a restituire la caparra.

La Corte d’Appello: L’onere della prova si inverte

La Corte d’Appello ribaltava completamente la decisione. Affermava che, trattandosi di una condizione mista, l’onere di provare di aver agito correttamente e con diligenza per ottenere il finanziamento gravava sulla società acquirente. Poiché quest’ultima non aveva dimostrato di essersi attivata adeguatamente, la Corte riteneva che la condizione fosse mancata per sua colpa e disponeva il trasferimento dell’immobile, condizionandolo al pagamento del prezzo residuo.

La Decisione della Cassazione sulla Condizione Mista

La Suprema Corte ha cassato la sentenza d’appello, enunciando un principio di diritto dirimente. I giudici hanno stabilito che l’approccio della Corte d’Appello era errato. In una controversia riguardante il mancato avveramento di una condizione mista apposta nell’interesse di entrambe le parti (condizione bilaterale), non si può risolvere il caso applicando semplicemente le regole generali sull’onere della prova tipiche dei contratti sinallagmatici.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Natura della Condizione Mista Bilaterale

La Corte ha sottolineato che la condizione legata all’ottenimento di un finanziamento è “mista” perché dipende sia dalla volontà dell’acquirente (che deve attivarsi per richiederlo) sia da quella di un terzo (la banca o la società di leasing). Inoltre, era una condizione “bilaterale”, poiché entrambe le parti avevano interesse al suo avveramento per concludere l’affare.

In questi casi, non si può applicare la cosiddetta “finzione di avveramento” dell’art. 1359 c.c. Questa norma prevede che una condizione si consideri avverata se a impedirla è stata la parte che aveva un interesse contrario. Qui, entrambe le parti avevano un interesse concorde.

Il Principio di Buona Fede vs. l’Onere della Prova nella condizione mista

Il vero fulcro della decisione risiede nell’art. 1358 c.c., che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede durante la pendenza della condizione per conservare integre le ragioni dell’altra parte. La Corte d’Appello ha sbagliato a trasformare questo dovere di buona fede in un onere probatorio a carico esclusivo dell’acquirente.

La Cassazione ha chiarito che il giudice di merito non deve limitarsi a verificare chi doveva provare cosa. Deve, invece, condurre un’indagine concreta sui fatti, basata sulle prove disponibili, per accertare se una delle parti, o entrambe, abbia violato il dovere di correttezza e lealtà. L’analisi deve mirare a individuare la parte il cui comportamento, contrario a buona fede, sia stato la causa (o la causa prevalente) del mancato avveramento della condizione.

Le Conclusioni: Cosa Cambia in Pratica?

Questa ordinanza è di grande importanza per chi opera nel settore immobiliare e, più in generale, per la contrattualistica. La Corte di Cassazione sposta l’attenzione dal formalismo dell’onere della prova alla sostanza dei comportamenti. In caso di mancato avveramento di una condizione mista bilaterale, non vince automaticamente chi riesce a scaricare l’onere probatorio sulla controparte. Il giudice dovrà invece effettuare una valutazione complessiva della condotta di entrambi i contraenti alla luce del principio di buona fede. La vittoria andrà a chi potrà dimostrare di aver agito lealmente e diligentemente, a prescindere da chi, formalmente, avrebbe dovuto provare cosa.

In un contratto con una “condizione mista”, su chi ricade l’onere di provare di aver agito correttamente?
Secondo la Corte di Cassazione, in caso di condizione mista posta nell’interesse di entrambe le parti, non si applica il principio generale sull’onere della prova. Il giudice deve invece valutare la condotta concreta di entrambi i contraenti secondo il principio di buona fede per determinare chi abbia causato il mancato avveramento della condizione.

Cos’è la “finzione di avveramento” (art. 1359 c.c.) e perché non si applica in questo caso?
È un meccanismo legale per cui una condizione si considera avvenuta se è stata impedita dalla parte che aveva un interesse contrario al suo verificarsi. In questo caso non si applica perché la condizione (ottenere un finanziamento) era nell’interesse di entrambe le parti (condizione bilaterale), quindi nessuna aveva un interesse contrario al suo avveramento.

Quale principio deve applicare il giudice per risolvere una controversia su una condizione mista bilaterale non avverata?
Il giudice deve applicare il principio di buona fede sancito dall’art. 1358 c.c. Deve accertare, sulla base delle prove emerse in giudizio, se una delle parti (o quale in misura prevalente) abbia tenuto un comportamento sleale o negligente che ha impedito alla condizione di realizzarsi.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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