Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 2586 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 2586 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 29/01/2024
Oggetto: concorrenza
sleale
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 27803/2021 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa da ll’ AVV_NOTAIO, con domicilio eletto presso il suo studio, sito in Roma, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, con domicilio eletto presso lo studio del primo, sito in Teramo, INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di L’Aquila n. 669/2021, depositata il 3 maggio 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del l’11 gennaio 2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
RILEVATO CHE:
RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di L’Aquila , depositata il 3 maggio 2021, di reiezione del l’ appello per la riforma della sentenza del Tribunale di Teramo, sezione distaccata di Atri, che aveva respinto la sua domanda di condanna della RAGIONE_SOCIALE al risarcimento dei danni per concorrenza sleale;
la Corte di appello ha riferito che la domanda si fondava sullo storno di dipendenti e sullo sviamento di clientela posto in essere da alcuni suoi ex dipendenti che, accordandosi con altri soggetti, avevano costituito la società convenuta e iniziato l’esercizio di un’attività in concorrenza con quella dell’attrice, nonché sull ‘ indebito approfittamento di una triste notizia che aveva colpito quest’ultima (il decesso del suo fondatore), anche mediante propalazione di false notizie;
dopo aver dato atto che, con sentenza non definitiva, aveva dichiarato la nullità della sentenza impugnata, ha disatteso il gravame evidenziando che le emergenze probatorie, in particolare le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio disposta in appello, non consentivano di ritenere dimostrat o l’illecito allegato ;
-per l’esattezza, ha evidenziato che: le condotte dei dipendenti che avevano dato vita alla nuova compagine sociale non erano violative del divieto di non agire in concorrenza con il datore di lavoro; il passaggio di tali dipendenti alla nuova società era avvenuta in modo lecito, atteso che gli stessi erano liberi sul mercato per aver sciolto il loro rapporto di lavoro con l’attrice ; quest’ultima non aveva dedotto specifiche condotte illecite ascrivibili alla convenuta, né la violazione di suoi diritti di proprietà intellettuale; in ogni caso, il danno risarcibile sarebbe «particolarmente evanescente»;
il ricorso è affidato a sette motivi;
resiste con controricorso la RAGIONE_SOCIALE;
ciascuna delle parti deposita memoria ai sen si dell’art. 380 -bis .1 cod.
proc. civ.;
CONSIDERATO CHE:
con il primo motivo la ricorrente denuncia la nullità della sentenza per motivazione apparente, in relazione agli artt. 24 e 111, sesto comma, Cost., 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., nella parte in cui è pervenuta a conclusioni immotivatamente diverse rispetto a quelle della consulenza tecnica d’ufficio;
-sottolinea, in particolare, che la consulenza tecnica d’ufficio aveva accertato che si era avuto un «trasferimento di clientela» e aveva stimato il relativo danno con riferimento agli anni 1999 e 2000;
il motivo è inammissibile;
-il prospettato vizio motivazionale investe, in primo luogo, la circostanza -di cui il consulente tecnico avrebbe dato atto e che il giudice di appello avrebbe trascurato -relativa al «trasferimento di clientela», che , tuttavia, non è concludente ai fini dell’accertamento della allegata condotta illecita, atteso che il «trasferimento» di clientela, ossia l’acquisizione di clientela originariamente legata a un imprenditore concorrente non costituisce, di per sé, una condotta anticoncorrenziale;
infatti, la concorrenza che si svolge mediante la distrazione di clienti da un altro imprenditore non è illecita, per cui non può essere preclusa al nuovo imprenditore, in assenza di un patto di non concorrenza, pena una menomazione della sua iniziativa imprenditoriale priva di fondamento normativo;
ciò che è illecito è l ‘ acquisizione sistematica di clientela di altro concorrente realizzata mediante l’uso diretto o indiretto di mezz i non conforme alla correttezza professionale , quale, ad esempio, l’utilizzo di notizie sui rapporti con i clienti di altro imprenditore, acquisite nel corso di una pregressa attività lavorativa svolta alle dipendenze di quest’ultimo, ove trattasi di notizie non destinate ad essere divulgate al di fuori dell’azienda, quando dal loro impiego consegua un vantaggio
competitivo (cfr. Cass. 31 marzo 2016, n. 6274; Cass. 30 maggio 2007, n. 12681; Cass. 20 marzo 1991, n. 3011);
orbene, né nella sentenza, né nel ricorso sono presenti riferimenti a elementi espressivi di un siffatto carattere;
in ordine alla mancata valorizzazione della stima dei danni effettuata dal consulente tecnico d’ufficio, il giudice di appello ha ritenuto di non poter prendere in considerazione tale elemento, giacché elaborato sulla base di documenti tardivamente depositati in giudizio e, in quanto tali, non utilizzabili;
su tale punto, dunque, non può ritenersi che la Corte di appello non abbia illustrato le ragioni per cui la conclusione del consulente non poteva essere recepita;
con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2598, n. 3, e 2600 cod. civ., per aver la sentenza impugnata escluso la sussistenza del denunciato illecito per concorrenza sleale pur avendo accertato che «alcuni dipendenti ‘chiave’ … hanno cospirato contro il datore di lavoro per creare una realtà parallela … », con conseguente storno di dipendenti e sviamento di clientela, nonché utilizzo del know-how della società;
il motivo è inammissibile;
con riferimento al ruolo e alle conoscenze dei dipendenti trasferiti alla RAGIONE_SOCIALE, la censura muove da un presupposto fattuale, relativo al fatto che gli stessi svolgessero funzioni «chiave» all’interno della RAGIONE_SOCIALE e fosse possessori di un know-how aziendale, di cui non vi è riscontro nella sentenza di appello, la quale, sul punto, ha evidenziato che « di tali dipendenti l’appellante ha fornito i nominativi, ma non le qualifiche», per cui non era possibile desumere lo specifico ruolo da questi rivestito nella predetta RAGIONE_SOCIALE;
-del pari, non vi è riscontro nella sentenza impugnata dell’assunto relativo alla sottrazione e trasferimento di know-how, atteso che, in proposito, la Corte di appello ha rilevato la generica deduzione
dell ‘illecito, priva dell’indicazione delle violazioni perpetrate, oltre che l’insussistenza di privative relative all’attività produttiv a;
orbene, il vizio di violazione o falsa applicazione di legge non può che essere formulato se non assumendo l’accertamento di fatto, così come operato dal giudice del merito, in guisa di termine obbligato, indefettibile e non modificabile del sillogismo tipico del paradigma dell’operazione giuridica di sussunzione, là dove, diversamente (ossia ponendo in discussione detto accertamento), si verrebbe a trasmodare nella revisione della quaestio facti e, dunque, ad esercitarsi poteri di cognizione esclusivamente riservati al giudice del merito (cfr. Cass. 13 marzo 2018, n. 6035; Cass., 23 settembre 2016, n. 18715);
-il mancato rispetto dell’accertamento del giudice di merito sul punto osta, dunque, alla possibilità di esaminare tale doglianza;
-con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione dell’art. 2105 cod. civ., per aver la sentenza impugnata escluso la sussistenza della violazione dell’obbligo di fedeltà pur in presenza di una situazione in cui i dipendenti avevano «tramato» nel corso del proprio rapporto di lavoro per mettere in crisi il datore di lavoro, cessando in epoca coeva il rapporto medesimo e trasferendo il know-how, la forza lavoro e la clientela a un’ impresa concorrente;
pone in evidenzia, sul punto, le risultanze delle prove testimoniali assunte, da cui emergeva l’attività di alcuni dipendenti «infedeli» di procacciamento di dipendenti e di acquisizione di clientela per conto della costituenda RAGIONE_SOCIALE con l’espresso scopo di danneggiare la RAGIONE_SOCIALE e determinarne la espulsione dal mercato;
il motivo è inammissibile;
anche in questo caso la doglianza muove da un presupposto fattuale, consistente nel fatto che l’attività concorrenziale d i alcuni dipendenti della RAGIONE_SOCIALE, sfociata nella costituzione della RAGIONE_SOCIALE, sia stata realizzata in costanza del rapporto di lavoro -e, conseguentemente, in violazione del divieto di cui all’art. 2105 cod. civ.
-, espressamente smentito dalla Corte di appello, la quale ha affermato che tale attività è stata realizzata successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro;
-la mancata considerazione dell’accertamento operato dal giudice di merito non consente di poter esaminare la censura;
con il quinto motivo, esaminabile prioritariamente rispetto ai motivi residui in quanto vertente sulla ratio decidendi comune ai primi tre motivi rappresentata dall’insussistenza di atti di concorrenza sleale, la ricorrente critica la sentenza impugnata per omesso esame di un fatto decisivo e controverso del giudizio, nella parte relativa alla indicazione della qualifica dei dipendenti stornati;
afferma, in proposito, che tali qualifiche erano state indicate nella «comparsa conclusionale di replica» depositata nel giudizio di primo grado;
il motivo è inammissibile, poiché, secondo quanto affermato dalla stessa ricorrente, la indicazione delle qualifiche è avvenuta successivamente alla scadenza del termine perentorio per l’attività di allegazione previsto dall’art. 183, sesto comma, cod. proc. civ. , per cui correttamente delle stesse la Corte di appello non ne ha tenuto conto; – con il quarto motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 88 e 116 cod. proc. civ., per aver il giudice di merito omesso di considerare, quale argomento di prova, la distruzione da parte della RAGIONE_SOCIALE delle scritture contabili antecedenti al 1998, benché interessate da una richiesta di esibizione ex art. 210 cod. proc. civ.;
con il sesto motivo censura la sentenza impugnata per omesso esame di un fatto decisivo e controverso del giudizio, nella parte in cui non ha fatto proprie le valutazioni espresse nella consulenza tecnica d’ufficio relativamente agli anni 1999 e 2000 in quanto fondate su documentazione ritenuta tardivamente prodotta in giudizio, benché la stessa fosse già presente agli atti del giudizio siccome depositata dalla
RAGIONE_SOCIALE;
-con l’ultimo motivo deduce l’ omesso esame di un fatto decisivo e controverso del giudizio, per aver la Corte di appello ritenuto che non fosse stata offerta la prova della clientela persa dopo l’avvio dell’attività concorrenziale della RAGIONE_SOCIALE, pur essendo stato prodotto in giudizio il relativo elenco;
tali motivi possono essere esaminati congiuntamente, investendo tutti la ratio decidendi rappresentata dalla mancata dimostrazione del danno conseguente all’esercizio dell’attività concorrenziale della RAGIONE_SOCIALE, e si presentano inammissibili;
infatti, la resistenza della ratio decidendi costituita dalla insussistenza di atti di concorrenza sleale rende prive di interesse le doglianze avanzate nei confronti della diversa ratio relative alla insussistenza (anche) di un danno, atteso che in nessun caso potrebbe condurre all’annullamento della sentenza impugnata, risultando consolidata l’autonoma motivazione oggetto dell e censure dichiarate inammissibili (cfr. Cass. 13 giugno 2018, n. 15399; Cass. 11 maggio 2018, n. 11493; Cass. 27 luglio 2017, n. 18641);
pertanto, per le suesposte considerazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile;
le spese processuali seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in dispositivo
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 14.000,00, oltre rimborso forfettario nella misura del 15%, euro 200,00 per esborsi e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , t.u. spese giust., dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello
stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Rom a, nell’adunanza camerale dell’11 gennaio 2024 .