Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 27183 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 27183 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 10/10/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 7863/2020 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, DELLA RAGIONE_SOCIALE EVA, DELLA RAGIONE_SOCIALE, DELLA RAGIONE_SOCIALE e DELLA RAGIONE_SOCIALE, rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE);
-ricorrenti- contro
NOME COGNOME;
-intimato- avverso la SENTENZA della RAGIONE_SOCIALE D’APPELLO di NAPOLI n. 235/2019, depositata il 21/01/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del l’ 8/04/2025 dal Consigliere NOME COGNOME.
Sentito il Pubblico Ministero, il sostituto procuratore generale NOME COGNOME, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Sentito il difensore dei ricorrenti, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
FATTI DI CAUSA
Nel 2005 NOME COGNOME ha chiamato in causa NOME COGNOME COGNOME ed NOME, NOME, NOME e NOME COGNOME, deducendo che i convenuti avevano promesso con contratto preliminare, stipulato il 3 marzo 2004, di trasferirgli la proprietà di un immobile sito in Napoli, garantendo che era stata rilasciata concessione edilizia in sanatoria e che, al contrario, tale concessione si era rivelata inesistente, così che non era stato stipulato il contratto definitivo. L’attore ha chiesto quindi di accertare l’inadempimento dei convenuti e di condannarli al pagamento in suo favore del doppio della caparra. A seguito della cancellazione della causa dal ruolo, il processo è stato riassunto da COGNOME. I convenuti, costituendosi in udienza, hanno anzitutto eccepito l’irritualità della riassunzione, avendo l’attore incardinato un altro, autonomo processo in mancanza di procura, invece di proseguire quello pendente, e hanno comunque chiesto il rigetto nel merito della domanda.
Il Tribunale di Napoli, con la sentenza n. 10897/2012, ha accolto la domanda e ha condannato i convenuti al pagamento di euro 20.000, pari al doppio della caparra, in favore dell’attore.
La sentenza è stata impugnata in via principale dagli originari convenuti, che hanno chiesto di riformare la sentenza impugnata nel senso di accertare la nullità dell’intero giudizio di primo grado e in ogni caso di rigettare la domanda di COGNOME. L’originario attore ha impugnato in via incidentale, domandando la riforma
parziale della sentenza di primo grado nella parte in cui non aveva pronunciato condanna al pagamento dell’importo di euro 22.000. Con la sentenza n. 235/2019, la COGNOME d’appello di Napoli ha rigettato il gravame principale e ha dichiarato inammissibile quello incidentale.
Avverso la sentenza ricorrono per cassazione NOME COGNOME COGNOME ed NOME, NOME, NOME e NOME COGNOME.
L’intimato NOME COGNOME non ha proposto difese.
Memoria è stata depositata dai ricorrenti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso è articolato in cinque motivi.
Il primo motivo denuncia nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360, n. 4 c.p.c., per violazione o falsa applicazione dell’art. 307 c.p.c. e degli artt. 125, 126 disp. att. c.p.c., 111 Cost.: il giudice d’appello ha commesso un grave errore, ritenendo che la procura rilasciata nel primo processo potesse essere utiliter data anche per ulteriori processi instaurati entro un anno aventi lo stesso oggetto; in primo grado non è infatti intervenuta una riassunzione del giudizio, ma ne è stato instaurato uno completamente nuovo per il quale non è stata rilasciata alcuna specifica procura; la riassunzione va effettuata mediante atto diretto al giudice già designato all’atto di instaurazione del processo, inoltre la procura speciale doveva contenere apposito richiamo alla facoltà di riassumere il processo; nel caso di specie è invece stato notificato un atto di citazione con cui i convenuti venivano invitati a comparire a un’udienza e veniva apposta la formula ‘giudice a designarsi’, formula dalla quale non può che ricavarsi la manifestazione della volontà di incardinare un nuovo processo, cosicché la procura rilasciata per quello precedente non poteva essere riutilizzata per instaurarne uno nuovo.
Il motivo è infondato. La COGNOME d’appello ha evidenziato come nell’atto di riassunzione del giudizio di primo grado risulti
richiamato non solo il contenuto dell’originario atto di citazione, ricalcante a margine la procura difensiva conferita dall’attore al proprio difensore, ma anche il numero di ruolo del processo già cancellato, sicché non vi è alcuna carenza o indeterminatezza dell’atto di riassunzione tale da determinare la sua nullità per difetto dei requisiti essenziali o anche per difetto di una valida procura ad litem , dato che questa risulta ritualmente conferita in occasione dell’atto di citazione e non può che conservare la sua vigenza anche con riferimento all’atto di riassunzione intervenuto entro un anno dalla cancellazione.
I ricorrenti contestano la ricostruzione della COGNOME, valorizzando il fatto che la citazione era fatta davanti a ‘giudice a designarsi’, mentre la riassunzione presuppone che la citazione sia fatta davanti al giudice del processo riassunto. A fronte degli altri elementi sottolineati dalla COGNOME d’appello, rivelatori della volontà di proseguire l’originario processo, l’indicazione del ‘giudice a designarsi’ non è come evidenzia il pubblico ministero nelle sue conclusioni scritte -decisiva. Questa COGNOME sottolinea infatti come il processo nel quale vi sia stato un provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo sia validamente riassunto, oltre che con comparsa o ricorso al giudice per la fissazione di un’udienza di prosecuzione, anche con citazione a udienza fissa, purché tale atto sia dotato di tutti i requisiti formali necessari per riattivare il rapporto processuale quiescente; la nullità dell’atto di riassunzione non deriva infatti dalla mancanza di uno degli elementi indicati dall’art. 125 disp. att. c.p.c., ma dall’impossibilità di raggiungimento dello scopo derivante dalla mancanza di elementi essenziali; ove questi ultimi ricorrano il cancelliere ha l’obbligo di riattivare il processo quiescente davanti all’originario giudice senza procedere a una nuova iscrizione al ruolo in quanto la riassunzione non introduce un nuovo procedimento (in tal senso Cass. n. 21071/2009, richiamata dagli stessi ricorrenti, che ha appunto
cassato una sentenza che aveva negato la riassunzione, ritenendo di essere in presenza dell’introduzione di un nuovo giudizio solo perché l’atto recava l’invito a comparire davanti a un giudice ‘da designare’).
Il secondo, il terzo e il quarto motivo sono tra loro strettamente connessi.
Il secondo motivo contesta, ai sensi dell’art. 360, n. 3 c.p.c., ‘violazione e falsa applicazione dell’art. 24 del d.P.R. 380/2001 e del relativo filone giurisprudenziale applicato dal giudice a sostegno della sua decisione’: il giudice non avrebbe dovuto applicare l’art. 24 del d.P.R. 380/2001, che stabilisce che a partire dalla sua entrata in vigore, il 30 giugno 2003, il certificato di agibilità debba essere richiesto dal venditore e consegnato all’acquirente necessariamente per i nuovi edifici; per le vecchie costruzioni come nel caso di specie – non sussiste nessun obbligo di richiedere e consegnare il certificato di agibilità, e quindi il giudice non avrebbe dovuto automaticamente ritenere grave l’inadempimento per la mancata consegna del provvedimento di concessione in sanatoria, ma avrebbe dovuto verificare in concreto l’importanza e la gravità della presunta omissione, anche solo visionando la documentazione depositata dai venditori, tra cui i titoli di provenienza dell’immobile, la domanda di concessione in sanatoria con i relativi bollettini di pagamento dell’oblazione nonché il provvedimento di concessione in sanatoria depositato nei termini, da cui avrebbe potuto evincere che l’immobile era esente da vizi e privo di abusi edilizi e che la domanda di risoluzione non poteva quindi essere accolta.
Il terzo motivo lamenta, ai sensi dell’art. 360, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 35, comma 7, legge 47/1985, 21novies legge 241/1990 e della legge 124/2015: i giudici di merito hanno accolto la domanda dell’attore nell’errato convincimento che alla data del rogito l’immobile non fosse ancora
condonato essendoci una domanda su cui la pubblica amministrazione non si era ancora pronunziata e quindi sul falso presupposto che vi fosse un’istruttoria in corso; è stato così disapplicato il comma 2 dell’art. 35 della legge 47/1985, per il quale, decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, questa si intende accolta ove l’interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio; l’immobile promesso in vendita era quindi a tutti gli effetti condonato anche in assenza di un espresso provvedimento di accoglimento, applicandosi nella fattispecie il principio del silenzioassenso ai sensi dell’art. 40 della medesima legge.
C) Il quarto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360, n. 3 c.p.c., ‘violazione e falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c., 2729 c.c., erronea, illogica, contraddittoria motivazione’: la mancata consegna della domanda di condono e dei bollettini di versamento della relativa oblazione avrebbe comportato secondo la COGNOME d’appello un grave inadempimento da parte dei promittenti venditori e quindi il legittimo recesso del promissario acquirente. La COGNOME d’appello ha trascurato un fatto importante e decisivo per il giudizio, ossia che il AVV_NOTAIO conosceva esattamente gli elementi identificativi della domanda e dei bollettini di pagamento dell’oblazione, il che significa che ne aveva la materiale disponibilità, in quanto non si vede chi gli avrebbe potuto consegnare la documentazione se non l’acquirente che lo aveva scelto per la redazione del contratto definitivo; il AVV_NOTAIO ha d’altro canto dichiarato nella sua testimonianza di potere ‘altresì confermare di avere predisposto una bozza dell’atto di compravendita’ e quindi di potere ‘affermare di avere visionato i documenti e gli atti ivi menzionati’, dichiarazione che il giudice ha ritenuto generica, ma non si vede che cosa dovesse mai dichiarare il AVV_NOTAIO affinché la sua testimonianza venisse considerata non
generica. Il giudice ha poi con argomentazione contraddittoria e incomprensibile valutato come generica e inverosimile la dichiarazione resa dal titolare dello studio legale nel quale era stato stipulato il preliminare.
I motivi non possono essere accolti. Quanto al secondo motivo, l’argomentazione svolta dai ricorrenti non è pertinente. Nella causa in esame non è in questione la consegna del certificato di agibilità, ma la garanzia da parte dei promittenti venditori del rilascio della concessione edilizia in sanatoria in relazione agli abusi edilizi presenti nell’immobile promesso in vendita. Quanto al terzo e al quarto motivo, va rilevato che la sentenza impugnata ha accertato che all’art. 9 del preliminare di vendita i promittenti venditori avevano garantito ‘che l’immobile è stato oggetto di concessione edilizia in sanatoria’ e che gli estremi di numero e di anno indicati nel preliminare si riferiscono non ad un provvedimento concessorio, ma alla domanda di condono presentata dal dante causa dei ricorrenti nell’anno 1986 e che né alla data di stipulazione del preliminare e neppure alla data in cui era stato programmato l’atto definitivo (entro il 30 maggio 2004) era intervenuta l’emanazione da parte del Comune del richiesto provvedimento concessorio, avvenuta solo a distanza di alcuni anni in seguito a una disposizione dirigenziale del 28 luglio 2008.
L’accertamento della COGNOME d’appello è contestato dai ricorrenti invocando l’applicazione dell’art. 35 della legge 47/1985. Al riguardo la COGNOME d’appello ha sottolineato che la fattispecie non opera in sé con modalità del tutto automatiche e svincolate dai presupposti normativamente richiesti, atteso che la formazione del cosiddetto silenzio-assenso presuppone in ogni caso la completezza della domanda di sanatoria, accompagnata in particolare dall’integrale pagamento di quanto dovuto a titolo di oblazione. Solo la ritualità e regolarità della documentazione correlata all’istanza di condono, in relazione alla cui consegna all’acquirente
non vi è ad avviso della COGNOME d’appello idonea prova, avrebbe potuto garantire la realizzazione degli effetti di cui al richiamato art. 35.
Va rilevato al riguardo che la COGNOME d’appello ha basato la propria decisione sulla specifica garanzia, prevista dall’art. 9 del preliminare, della sussistenza di un vero e proprio provvedimento di concessione in sanatoria e non di una mera istanza volta al suo ottenimento e sulla incontroversa insussistenza del predetto provvedimento concessorio al momento del preliminare come al momento della programmata stipulazione del definitivo, concessione in sanatoria che è stata rilasciata soltanto diversi anni dopo. Sulla base di tali argomentazioni la COGNOME d’appello ha ritenuto sussistente l’inadempimento dei promittenti venditori e il legittimo esercizio da parte del promissario acquirente della facoltà di recesso. La COGNOME d’appello ha poi rafforzato la propria conclusione rimarcando ad abundantiam che manca la prova circa l’effettiva consegna al promissario acquirente della stessa documentazione correlata all’istanza di condono e al relativo iter istruttorio non ancora concluso. Le considerazioni svolte alle pagg. 7 e 8, in relazione all’argomento dei ricorrenti relativo alla fattispecie di cui all’art. 35 della legge 47/1985, concernenti l’integrale pagamento di quanto dovuto per quanto attiene la formazione del silenzio-accoglimento, sono quindi meramente rafforzative, essendo – come si è appena detto – la decisione della COGNOME d’appello basata sulla mancanza del provvedimento di concessione in sanatoria.
3. Il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 345, comma 3, e 116 c.p.c.: la COGNOME d’appello ha sostenuto che la concessione edilizia in sanatoria è stata depositata solo in occasione del deposito in data 27 luglio 2012 della comparsa conclusionale quando invece la definizione della pratica di condono era stata comunicata dal
Comune di Napoli prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni; il Comune di Napoli, invece, ha rilasciato il provvedimento di condono edilizio solo il 17 luglio 2012; in ogni caso la concessione in sanatoria è stata depositata in appello e si tratta di documento indispensabile per la decisione che quindi doveva essere ammesso nel giudizio di secondo grado.
Il motivo è inammissibile per mancanza di interesse. Come si è supra sottolineato, la ratio decidendi della sentenza impugnata è basata sulla mancanza, al momento della stipulazione del contratto preliminare e al momento della programmata stipulazione del contratto definitivo di vendita, della concessione in sanatoria promessa dai ricorrenti, cosicché non assume rilevanza nel presente processo l’effettiva data della avvenuta concessione del provvedimento e la possibilità o meno per i ricorrenti di depositare il relativo documento nel giudizio di secondo grado.
II. Il ricorso va pertanto rigettato.
Non vi è pronuncia sulle spese, non essendosi l’intimato difeso nel presente giudizio.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/ 2002, si d à atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La COGNOME rigetta il ricorso.
Sussistono, ex art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio tenutasi dopo la pubblica udienza, l’8 aprile 2025.
Il Giudice estensore Il Presidente
NOME COGNOME COGNOME NOME COGNOME