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Comunione legale: dichiarazione del coniuge non basta

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 20332/2025, chiarisce la valenza della dichiarazione resa dal coniuge non acquirente in un atto di compravendita in regime di comunione legale. La Corte ha stabilito che tale dichiarazione, pur essendo una condizione necessaria per escludere un bene dalla comunione, non è sufficiente. Non opera come rinuncia né crea una presunzione assoluta, potendo essere considerata un ‘generico asserto qualificatorio’ senza valore di confessione se non descrive fatti specifici. Di conseguenza, la prova dell’effettiva provenienza personale dei fondi utilizzati per l’acquisto rimane a carico del coniuge acquirente.

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Comunione legale: la dichiarazione del coniuge non è una rinuncia

Quando una coppia è sposata in regime di comunione legale, la regola generale è che ogni acquisto effettuato da uno dei due coniugi dopo il matrimonio cade automaticamente in comunione. Esistono però delle eccezioni, come nel caso di acquisti con denaro ‘personale’. Ma cosa succede se il coniuge non acquirente partecipa all’atto e dichiara che il bene è di proprietà esclusiva dell’altro? La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 20332/2025, torna su questo tema cruciale, stabilendo che tale dichiarazione non è sufficiente a escludere il bene dalla comunione e non ha valore di rinuncia.

I Fatti di Causa: Dall’Acquisto alla Controversia

La vicenda nasce dalla domanda di una donna, separata dal marito, di veder riconosciuta la comproprietà di un immobile acquistato da quest’ultimo durante il matrimonio. All’atto del rogito, la moglie era intervenuta dichiarando che il bene, essendo stato pagato con proventi personali del marito, non rientrava nella comunione legale.

Inizialmente, il Tribunale di primo grado aveva respinto la sua domanda, ritenendo che quella dichiarazione avesse valore di confessione stragiudiziale, revocabile solo in caso di errore di fatto o violenza, circostanze non provate. La Corte d’Appello, tuttavia, ribaltava la decisione. I giudici di secondo grado sostenevano che la dichiarazione della moglie non fosse una vera e propria confessione, ma un ‘generico asserto qualificatorio’ privo di effetto vincolante. In assenza di prove concrete da parte del marito sulla natura personale dei fondi, l’immobile doveva considerarsi in comunione.

Il Motivo del Ricorso: La Presunta Domanda Nuova in Appello

L’uomo ha quindi presentato ricorso in Cassazione, lamentando che la moglie, in appello, avesse modificato la sua domanda originale. A suo dire, la donna aveva di fatto rinunciato a chiedere la revoca della confessione, introducendo una domanda nuova e quindi inammissibile (mutatio libelli). La questione centrale per la Suprema Corte era quindi stabilire se questo cambiamento di strategia processuale avesse alterato l’oggetto del contendere.

La Decisione della Cassazione sulla comunione legale

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la sentenza d’appello. I giudici hanno chiarito un principio fondamentale riguardante la comunione legale e la dichiarazione ex art. 179 c.c.

La partecipazione del coniuge non acquirente all’atto è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per escludere un bene dalla comunione. Occorre sempre la prova effettiva della sussistenza di una delle cause di esclusione previste dalla legge (ad esempio, che il prezzo sia stato pagato con il ricavato della vendita di beni personali).

La dichiarazione resa non ha natura di atto negoziale di rinuncia alla comunione, ma opera solo sul piano probatorio. Assume valore di confessione solo quando descrive una situazione di fatto specifica e già esistente (es. ‘dichiaro che i soldi provengono dalla vendita della casa ereditata da suo padre’). Al contrario, se si limita a una valutazione generica sulla natura dei fondi, come nel caso di specie, è un mero ‘asserto qualificatorio’ che non vincola il giudice e non crea una presunzione di esclusione del bene.

Le Motivazioni della Corte

La Cassazione ha spiegato che non c’è stata alcuna mutatio libelli. La domanda centrale della moglie è sempre stata la stessa: accertare la sua comproprietà sull’immobile. Il fatto di aver ritenuto irrilevante, in appello, la richiesta di revoca della confessione non ha cambiato la sostanza della pretesa. Anzi, ha semplicemente ‘sottratto al dibattito processuale un tema d’indagine inutile’. La Corte d’Appello sarebbe giunta alla stessa conclusione anche se la domanda fosse stata riproposta negli stessi termini, poiché, una volta accertato che la dichiarazione non aveva valore confessorio, la sua revoca diventava irrilevante ai fini della decisione sul merito.

Conclusioni

Questa ordinanza rafforza un orientamento giurisprudenziale consolidato. Per i coniugi in comunione legale, essa implica che le dichiarazioni formali rese negli atti di acquisto non sono decisive. Per escludere un bene dalla comunione, non basta l’assenso dell’altro coniuge, ma è indispensabile poter dimostrare, con prove concrete, che l’acquisto è stato effettuato con beni personali secondo le ipotesi tassativamente previste dall’art. 179 del codice civile. La semplice dichiarazione di intenti o una qualificazione generica non è sufficiente a superare la presunzione di comunione.

La dichiarazione del coniuge non acquirente che un bene è ‘personale’ è sufficiente a escluderlo dalla comunione legale?
No, non è sufficiente. È una condizione necessaria, ma per l’esclusione deve essere anche provata l’effettiva sussistenza di una delle cause previste dalla legge, come l’acquisto con denaro derivante dalla vendita di beni pre-matrimoniali o ereditati.

Che valore ha la dichiarazione del coniuge non acquirente resa nell’atto di acquisto?
Può avere valore di confessione vincolante solo se descrive una situazione di fatto specifica e verificabile. Se, invece, è un ‘generico asserto qualificatorio’ sulla natura dei beni, non ha l’effetto vincolante di una confessione e non crea una presunzione di esclusione dalla comunione.

Rinunciare in appello a una parte della domanda iniziale costituisce una ‘mutatio libelli’ (domanda nuova) inammissibile?
No. La Cassazione ha chiarito che se la richiesta di fondo rimane la stessa (in questo caso, l’accertamento della comproprietà del bene), la rinuncia a un aspetto della domanda divenuto irrilevante (come la revoca di una dichiarazione non confessoria) non costituisce una domanda nuova, ma una semplice e lecita limitazione della domanda originaria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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