Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 14022 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 14022 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 26/05/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 20360/2019 R.G. proposto da:
NOME COGNOME NOMECOGNOME rappresentati e difesi dagli avvocati NOME COGNOME e COGNOME NOMECOGNOME con domicilio digitale in atti.
-RICORRENTI- contro
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME con domicilio digitale in atti.
–
CONTRORICORRENTE- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di GENOVA n. 891/2018, depositata il 31/05/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/05/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Uditi gli avv.ti COGNOME E NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 891/2018 , la Corte d’Appello di Genova ha confermato la pronuncia con cui il Tribunale aveva accolto
parzialmente la domanda proposta dall’architetto NOME COGNOME ed aveva condannato NOME COGNOME e NOME COGNOME al pagamento del saldo del compenso della direzione dei lavori e il coordinamento della sicurezza, per il completamento di due edifici di proprietà dei committenti.
L’esecuzione dei manufatti era stata inizialmente affidata all’im presa artigiana NOME COGNOME conferendo la progettazione e direzione dei lavori all ‘ arch. NOME COGNOME e la responsabilità per la sicurezza al geometra NOME COGNOME che avevano completato l’80% dei lavori .
In data 2.1.2023 era stata effettuata una ricognizione delle opere eseguite e, di seguito, in data 13.4.2024, i committenti avevano sottoscritto con l’impresa RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME un nuovo preventivo, conferendo la direzione dei lavori a NOME COGNOME. Nel dicembre dello stesso anno i lavori erano stati interrotti e il direttore dei lavori aveva sospeso ogni attività ed esercitato il recesso. Nell ‘ aprile 2006, effettuato un sopralluogo sui cantieri, i committenti si erano impegnati a riconoscere al professionista un saldo di € 7000,00 da versare in due rate, la seconda delle quali entro il 31.8.2006, importo, che non era stato corrisposto e di cui NOME COGNOME ha chiesto il pagamento in giudizio.
Nella resistenza dei convenuti, il Tribunale di Chiavari ha accolto la domanda per il minor importo di €. 3359,85 , detraendo dalle spettanze il costo degli interventi per l’eliminazione di taluni difetti minori, imputabili al resistente.
La Corte appello, adita dai committenti, ha confermato integralmente la prima decisione , affermando che l’appellato era stato incaricato unicamente del completamento dei lavori, già eseguiti nella percentuale dell’80% , e che successivamente i committenti avevano riconosciuto di dover versare il saldo di € 7000,00 senza alcuna condizione o ulteriore controprestazione, evidenziando che dal dicembre 2004 (data in cui il professionista
aveva rinunciato all’incarico ) al giugno 2006, data in cui era stato effettuato il sopralluogo sui cantieri, le costruzioni erano state completate dall’impresa RAGIONE_SOCIALE con l ‘ausilio di un diverso professionista.
La cassazione della sentenza è chiesta da NOME COGNOME e NOME COGNOME con ricorso in otto motivi, cui ha resistito con controricorso NOME COGNOME.
In prossimità dell’udienza pubblica i ricorrenti hanno depositato una duplice memoria illustrativa, anche per replicare alle conclusioni scritte fatte pervenire dal Procuratore generale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo deduce l’omesso esame di fatti decisivi ai sensi dell’art . 360 n. 5 c.p.c..
Sostengono i ricorrenti che la percentuale di lavori completata allorquando la direzione dei lavori era stata affidata al resistente non si riferiva alla quantità di opere eseguite, ma al loro valore rispetto all ‘intero importo previsto nell’iniziale atto di affidamento alla precedente impresa, e che era pacifico che NOME COGNOME dovesse curare la direzione dei lavori e svolgere i compiti di sicurezza per la realizzazione di opere aggiuntive rispetto alla percentuale già realizzata, oltre che per quelle volte ad eliminare i difetti preesistenti.
Il motivo è inammissibile.
La sentenza è confermativa di quella di primo grado, occorrendo che il ricorso chiarisse, riguardo al tema dibattuto, sotto quale profilo le due pronunce siano difformi, restando ferma la preclusione prevista da ll’art. 348 ter, comm i I IV e V c.p.c. (Cass. 5528/2014; Cass. 26774/2016; Cass. 5947/2023).
Anche nel merito va osservato che il fatto che con la transazione del marzo 2004 la committenza, i precedenti tecnici e l’impresa avessero quantificato il valore delle opere eseguite in misura pari all’80% dell’intero valore è esplicitamente affermato alle pag. 5 e 6
della pronuncia, questione cui la Corte di merito non ha ritenuto decisiva, non avendo affatto negato che l’arch. COGNOME fosse stato incaricato di eseguire opere ulteriori o di eliminare i vizi preesistenti.
Dalla sentenza è invece esclusa la responsabilità del professionista per i vizi dei lavori eseguiti prima del conferimento dell’incari co nell’aprile 2004, essendogli stati addebitati difetti ed omissioni minori, confermando la quantificazione dei costi operata in primo grado, il cui importo è stato detratto dal saldo riconosciuto al professionista all’esito del sopralluogo dell’agosto 2006.
Richiamando le conclusioni del Tribunale, che aveva condiviso le risultanze della c.t.u., la Corte di merito ha ritenuto che i più gravi difetti originari, imputabili alla precedente impresa, erano ineliminabili a causa del notevole avanzamento delle opere, riguardando elementi strutturali (muri in cemento armato, il tetto, solai), non potendone rispondere l’arch. COGNOME
E’ poi spiegato dal giudice distrettuale che il saldo (€ 700 0,00) da versare in due rate era il compenso per i lavori già eseguiti e non per attività ancora da svolgere; dopo la rinuncia all’incarico il resistente non aveva prestato alcuna ulteriore attività e le opere erano state completate dalla Geometrica, a vvalendosi dell’opera di altri professionisti, rilevando che le costruzioni si presentavano di buona fattura salvo i vizi ineliminabili non cagionati dal resistente.
Il secondo motivo denuncia la violazione degli artt. 1460, 1988 c.c. e 345 c.p.c., per aver la Corte d’Appello ritenuto che i ricorrenti avessero riconosciuto il debito con la dichiarazione di aver raggiunto una soluzione transattiva che prevedeva, a fronte del pagamento del saldo, l’esecuzione di ulteriori lavori. Il Giudice distrettuale avrebbe omesso di vagliare la legittimità del recesso del resistente e l’inadempimento del professionista, consistito nella mancata riconsegna della documentazione necessaria alla prosecuzione dei lavori, dando rilievo ad un preteso riconoscimento
del debito mai dedotto. Assumono i ricorrenti che l’incontro del 2006 si era concluso con l’impegno del professionista a completare i lavori dietro il pagamento del saldo e che l’arch. COGNOME , dopo averla ripresa, aveva nuovamente sospeso ogni attività in violazione degli accordi, come puntualmente eccepito in giudizio ai sensi dell’art. 1460 c.c..
Il terzo motivo deduce la violazione degli artt. 1176, 1218, 2226, 2236 e 2797 c.c.. La Corte di appello, nel ricostruire i fatti di causa, avrebbe indebitamente valorizzato l’interrogatorio libero de gli attori senza considerare le dichiarazioni rese dal convenuto, trascurando che il compenso richiesto includeva le attività di coordinamento per la sicurezza e la presentazione di condoni, della cui effettuazione non vi era alcuna prova. Sarebbe errata anche l’individuazione degli obblighi del direttore dei lavori, tenuto ad assicurare il risultato dovuto e il completamento dell’opera a regola d’arte, e a restituire la documentazione tecnica, la contabilità di cantiere, i calcoli in cemento armato.
Il quarto motivo denuncia la violazione dell’art. 1727 c.c. , contestando alla Corte d’Appello di aver affermato che il rapporto era cessato alla data della rinuncia all’incarico , sebbene il COGNOME non avesse mai formalizzato il recesso, esercitato senza giusta causa e senza concedere un congruo termine alla committenza.
Il quinto motivo deduce la violazione dell’art. 2697 c.c., degli artt. 115, 116 e 117 e dell’art. 183 c.p.c. , per aver la Corte di merito sostenuto che l’arch. COGNOME avesse diretto solo opere di completamento, il che non comportava che questi dovesse curare la realizzazione restante 20% dei lavori, posto che le opere a farsi erano previste nel preventivo con la ditta RAGIONE_SOCIALE in aggiunta alle opere ulteriori.
Il sesto motivo deduce la violazione degli artt. 1727 e 1724 e 2697 c.c., censurando l’erronea ripartizione dell’onere della prova in ordine alle modalità con le quali sarebbe cessato il rapporto con il
COGNOME e riguardo al mancato espletamento delle attività, avendo egli abbandonato il cantiere senza svolgere la direzione dei lavori e il coordinamento della sicurezza e senza predisporre i condoni.
Il settimo motivo deduce la violazione degli artt. 1965, 1372 e 2702 c.c. dell’art. 214 c.p.c. , per aver la Corte d’Appello errato nel porre a fondamento della decisione la scrittura privata del 18.03.2004, di cui non era stato parte il COGNOME il quale, per poterla adoperare come fatto storico, ne avrebbe dovuto esporre correttamente il contenuto; in ogni caso la transazione non era elemento utile per valutare l’inadempimento del professionista , riferendosi ai lavori eseguiti in precedenza e non a quelli aggiuntivi, di notevolissima consistenza, svolti dopo il suo perfezionamento.
L’ottavo motivo deduce la violazione degli artt. 115, 116 e 195 c.p.c., per avere la Corte di merito condiviso gli accertamenti del CTU che, sul presupposto dell’avvenuto completamento dell’80%, non aveva considerato che il COGNOME si era impegnato a curare la direzione di lavori ulteriori, oltre a quelli ancora da eseguire, rilevando la sussistenza di difetti di esecuzione solo relativamente ad uno dei due edifici da completare. I vizi denunciati riguarderebbero proprio i rivestimenti e gli impianti non oggetto di transazione con la precedente appaltatrice.
I motivi sono in parte inammissibili e, sotto altro profili, infondati. La censure si basano su uno sviluppo della vicenda fattuale diversa da quella accertata in giudizio, assumendo che nell ‘ incontro del 2006 l’arch. COGNOME che pure aveva rinunciato all’incarico nel dicembre 2004, si fosse impegnato a completare le opere e a eliminare i vizi già esistenti, oltre a dirigere l’esecuzione di ulteriori interventi, per un compenso di € 7000,00.
La sentenza ha invece stabilito che, nulla avendo ricevuto il professionista per l’opera prestata in passato , nel 2006 le parti si erano incontrate per definire ogni pendenza, non per concordare ulteriori prestazioni.
Di tanto è conferma il fatto che dopo la rinuncia, le opere erano state completate dalla impresa RAGIONE_SOCIALE con l’ausilio di altri professionisti.
L ‘aver dato rilievo, ritenendole credibili, alle dichiarazioni rese dai ricorrenti nel corso dell’interrogatorio libero non è sindacabile, competendo al giudice di merito selezionare le risultanze processuali ed individuare quelle munite di maggior valenza probatoria; le dichiarazioni rese nel corso dell’int errogatorio libero, che non hanno valore di confessione, costituiscono elementi di convincimento liberamente valutabili dal giudice, che possono costituire anche l’unica fonte del convincimento del giudice di merito, al quale è riservata la valutazione, non censurabile in sede di legittimità, se congruamente e ragionevolmente motivata, della loro concludenza ed attendibilità (Cass. 7644/1998; Cass. 7002/2000; Cass. 6510/2004; Cass. 27407/2014).
Non occorreva, quindi, procedere alla verifica delle opere eseguite dopo l’aprile 2006, avendo la sentenza stabilito che in quella data le parti avevano provveduto ad una ricognizione dei lavori già eseguiti e a quantificare il saldo senza che NOME COGNOME avesse ricevuto l’incarico di svolgere ulteriori attività. La somma pretesa in giudizio è stata liquidata all’esito della verifica in contraddittorio dello stato di fatto e riconosciuta a saldo per le attività già svolte.
2.1 Quanto alla circostanza che il giudice non abbia indagato sull’assenza di giusta causa, deve osservarsi quanto segue.
Le dimissioni del professionista, che non richiedono l’osservanza di forme vincolanti, producono in ogni caso l’estinzione del rapporto anche in assenza di giusta causa, legittimando pretese risarcitorie della committenza (Cass. 6170/2011).
Il recesso operato ai sensi dell’art. 2237 c.c. non fa perdere al prestatore d’opera il diritto al compenso per le prestazioni eseguite, che va determinato in applicazione dei criteri previsti dall’art. 2225 c.c., che dà prevalenza alle convenzioni tra le parti; in caso di
pattuizione forfettaria del corrispettivo, la parte di esso spettante per le prestazioni rese alla data del recesso viene determinata in misura proporzionale rispetto all’intero compenso (Cass. 10444/1998; Cass. 13573/2005). Il compenso va comunque parametrato sulle prestazioni svolte al momento dello scioglimento del contratto, prestazioni di cui l’int eressato è tenuto a dar prova (Cass. 2342/1981).
L’effetto immediatamente estintivo che si ricollega all’ esercizio del recesso, anche in assenza di giusta causa, esonera il prestatore dal dovere di compiere quelle ulteriori attività cui si era inizialmente impegnato o quelle necessarie ad ultimare l’opera .
Ciò posto, occorre precisare che invece l’esercizio, in assenza di giusta causa, del diritto di recesso da parte del professionista, se non incide sull’effetto risolutorio del vincolo sinallagmatico, si ripercuote sulla possibilità, per il cliente, di richiedere il risarcimento del danno e sul diritto di rifiutare il pagamento del compenso sino a quel momento maturato a causa dell’illegittima cessazione del rapporto contrattuale, sicché la deduzione del recesso privo di giusta causa e la conseguente pretesa di esonero dal pagamento del compenso, è equivalen te all’eccezione di inadempimento e va fatta valere nel rispetto delle preclusioni processuali (Cass. 36531/2021; cfr. Cass. 23077/2022 secondo cui solo nel rapporto di patrocinio il professionista ha diritto al compenso anche in caso di recesso per giusta causa).
2.2 In conclusione, l’eccezione volta a paralizzare il pagamento per il recesso senza giusta causa andava dedotta tempestivamente ed il ricorrente era tenuto ad indicare dove fosse stata sollevata. Sul punto il ricorso non offre alcuna indicazione, limitandosi a sostenere che il giudice avrebbe dovuto tener conto delle ragioni del recesso e che comunque ritenere che il rapporto non fosse stato sciolto anticipatamente, in violazione dei requisiti di specificità dell’impugnazione richiesto dall’art. 366 c.p.c. e in contrasto con il
principio di immediata efficacia estintiva del rapporto professionale a seguito del recesso, anche in assenza di giusta causa.
Analoga genericità inficia la contestazione di inadempimenti ulteriori rispetto a quelli che il giudice di merito ha ritenuto imputabili al resistente, essendo oggetto di eccezioni in senso stretto della cui tempestiva proposizione nel giudizio di merito i committenti avrebbero dovuto dar conto in ricorso (che invece non ne fa menzione).
Mancando la stessa deduzione di un recesso ingiustificato, il professionista aveva titolo al compenso per le prestazioni rese, non avendo rilievo, per quanto detto, che non fossero stati completati i lavori, o che persistessero i vizi causati dal precedente direttore dei lavori e dall’ impresa, vizi che la sentenza ha giudicato ineliminabili a causa della realizzazione dell’80% delle opere al momento del conferimento dell’incarico all’arc h. NOME COGNOME.
Le censure sollevano, in definitiva, questioni in fatto sottratti al controllo di legittimità sotto i profili dedotti in ricorso.
Il ricorso è pertanto respinto, con aggravio delle spese processuali. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale/ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali, liquidate in €. 3000,00 per compenso ed € 200,00 per esborsi, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei
ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale/ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda