Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 33198 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 33198 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 18/12/2024
Oggetto: Compensi al difensore
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 27135/2019 R.G. proposto da
COGNOME NOMECOGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME
-ricorrente –
contro
COMUNE DI TARANTO, rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME
-controricorrente –
Avverso la sentenza n. 324/2019, della Corte d’Appello di Lecce, depositata il 13/6/2019 e non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12 dicembre 2024 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
Il Comune di Taranto propose opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 632/2013, emesso da Tribunale di Taranto in data 22/5/2013, col quale era stato condannato al pagamento, in favore dell’avv. NOME COGNOME della somma di € 112.798,23 a titolo di compensi professionali, ottenendo, all’esito del giudizio, la riduzione dell’importo a € 31.465,00, disposta con la sentenza n. 2969/15 del 29/9/2015.
Il giudizio di gravame, instaurato dal medesimo Comune, si concluse, nella resistenza dell’avv. NOME COGNOME che propose, a sua volta, appello incidentale, con la sentenza n. 324/2019, pubblicata il 13/6/2019, con la quale la Corte d’Appello di Lecce -Sezione distaccata di Taranto accolse l’appello principale, condannando il Comune di Taranto al pagamento della somma di € 14.405,00 e l’appellante incidentale al pagamento delle spese del grado.
Contro la predetta sentenza, COGNOME NOME propone ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, illustrati anche con memoria. Il Comune di Taranto si difende con controricorso.
Considerato che :
1.1 Con il primo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in riferimento all’art. 342 cod. proc. civ., nonché all’art. 1 d.m. n. 127 del 2004, tabella B, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici di merito, a fronte della doglianza del Comune che lamentava la non debenza dei diritti perché non richiesti o comunque non dovuti nei giudizi patrocinati davanti al Consiglio Stato, avevano accolto il gravame su un fatto del tutto diverso, in quanto avevano ritenuto, per un verso, che il difensore, una volta chiesta col ricorso per decreto ingiuntivo la condanna al pagamento di una somma di denaro, non potesse poi ottenere somme superiori
rispetto alla richiesta iniziale, e in quanto le somme in questione erano state richieste in aggiunta a quelle domandate originariamente.
Ad avviso della ricorrente, i giudici non avevamo considerato che la somma originariamente richiesta era pari a euro 112.798,23 e che la pronuncia finale del giudice di primo grado era stata quella di riconoscere la minor somma di euro 31.465,00 (parte per onorari, parte per diritti e parte per spese), con la conseguenza che la voce sui diritti costituiva una parte delle somme complessivamente dovute e non il riconoscimento di maggiori somme rispetto a quelle richieste, oltre a rientrare nell’ambito della complessiva pretesa creditoria originariamente avanzata.
1.2 Il primo motivo è inammissibile, anche se non per le ragioni evidenziate dal controricorrente e fondate sul presupposto che la censura non contenga la sussunzione del vizio lamentato in una delle ipotesi tassative di cui all’art. 360 cod. proc. civ..
Infatti, il giudizio di cassazione, pur essendo un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito, e pur dovendo il motivo di ricorso, di conseguenza, possedere necessariamente i caratteri della tassatività e della specificità e contenere una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 cod. proc. civ. (Cass., Sez. 6-2, 14/5/2018, n. 11603), non richiede l’adozione di formule sacramentali e neppure l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (in questi termini, Cass., Sez. U, 12/7/2013, n. 1793), sicché poco rileva che la censura in esame non contenga espressamente il corretto richiamo ad una di dette ipotesi, essendo chiara la doglianza in essa esplicata.
L’inammissibilità deriva piuttosto dal fatto che la censura non attinge la ratio decidendi della sentenza, in contrasto col principio secondo cui i motivi di ricorso per cassazione devono connotarsi, a pena di inammissibilità, in conformità non solo ai requisiti della specificità e completezza, ma anche della riferibilità alla decisione impugnata (Cass., Sez. 3, 2/8/2002, n. 11530; Cass., Sez. 2, 17/7/2007, n. 15952), dovendo essere a tal fine contestata specificamente la ratio decidendi posta a fondamento della pronuncia impugnata (cfr. Cass., Sez. 6-1, 10/8/2017, n. 19989; Cass., Sez. 6-1, 24/2/2020, n. 4905).
Infatti, i giudici di merito non hanno affatto motivato su questioni non sollevate con la censura, come evidenziato dalla ricorrente, ma hanno accolto il motivo col quale il Comune aveva lamentato che la liquidazione operata dal giudice di primo grado avesse avuto riguardo anche alla voce ‘ diritti di procuratore ‘ che non era stata però chiesta espressamente col ricorso per ingiunzione, citando al riguardo un precedente di questa Corte, ossia la sentenza n. 6155 del 30/5/2016, nel quale si è affermato che « nell’ordinario giudizio di cognizione instaurato in seguito all’opposizione a decreto ingiuntivo, l’opposto, rivestendo la posizione sostanziale di attore, non può avanzare domande diverse da quelle fatte valere con l’ingiunzione, potendo a tale principio derogarsi solo quando, per effetto di una riconvenzionale formulata dall’opponente, la parte opposta si venga a trovare a sua volta in una posiziono processuale di convenuto cui non può essere negato il diritto di difesa, rispetto alla nuova o più ampia pretesa della controparte, mediante la proposizione di una “reconventio reconventionis”, che però, per non essere tardiva, può essere introdotta solo nella domanda di risposta e non nel corso del giudizio di primo grado ».
Benché la fattispecie analizzata in quell’occasione non si attagli affatto alla questione esaminata dalla Corte d’Appello, in quanto
riguarda la diversa ipotesi dell’ammissibilità della richiesta, in via di reconventio reconventionis , di compensi professionali per rapporti diversi da quelli originariamente dedotti, come correttamente osservato dalla ricorrente, è tuttavia al principio da essa estrapolato che occorre aver riguardo, col quale si afferma che il ricorrente in monitorio non può ampliare, in sede di opposizione, il titolo della pretesa rispetto a quello originariamente proposto, titolo che, nella specie, si riferisce ai ‘diritti di procuratore’, che non erano stati richiesti col il ricorso monitorio, nel quale era stata chiesta la sola liquidazione dei compensi e degli interessi.
Deve allora escludersi la sussistenza del vizio dedotto, il quale è stato sostanzialmente ricondotto alla violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nella specie insussistente per i motivi testé evidenziati.
2.1 Col secondo motivo, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 342 cod. proc. civ. e dell’art. 5, comma 3, d.m. 127/2004, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito omesso di pronunciarsi sull’eccezione di inammissibilità, sollevata dalla parte ricorrente, in ordine al motivo di appello proposto dal Comune relativamente al riconoscimento degli onorari nella misura massima. Infatti, a fronte di una decisione di primo grado che aveva ritenuto applicabile lo scaglione di valore indeterminabile di particolare importanza, riconoscendo gli onorari in misura massima rispetto ai criteri di cui all’art. 5 d.m. n. 127/2004, la Corte d’Appello aveva ritenuto congrua una liquidazione degli onorari spettanti in misura media, senza considerare che l’appellante non aveva contestato i criteri riconosciuti in primo grado, con la conseguenza che la pronuncia era avvenuta extra-petita, oltreché in assenza di motivazione in senso contrario rispetto a quei criteri.
2.2 Il secondo motivo è infondato.
Va sul punto premesso che il potere-dovere del giudice di inquadrare nell’esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti che formano oggetto della contestazione incontra il limite del rispetto del petitum e della causa petendi , il quale si sostanzia nel divieto di introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, sicché il vizio di ultra o extra petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione ( petitum o causa petendi ), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto ( petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso ( petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (Cass., Sez. 2, 21/3/2019, n. 8048; Cass., Sez. 1, 11/4/2018, n. 9002; Cass., Sez. 3, 24/9(2015, n. 18868).
Tale principio va, peraltro, posto in immediata correlazione con il principio iura novit curia di cui all’art. 113, primo comma, cod. proc. civ., in virtù del quale rimane sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonché all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti (Cass., Sez. L, 13/12/2010, n. 25140).
Trasponendo detti principi nell’ambito di un giudizio volto alla liquidazione delle spettanze di avvocato, deve affermarsi come ogni contestazione, anche generica, in ordine all’espletamento e alla consistenza dell’attività investe il giudice del potere -dovere di verificare il quantum debeatur senza incorrere nella violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. (Cass., Sez. 2, 11/1/2016, n. 230), atteso che la determinazione giudiziale di liquidazione del compenso spettante al professionista, previo parere (non vincolante) dell’Associazione professionale, che nella gerarchia di
carattere preferenziale di cui all’art. 2233 cod. civ. è postergata rispetto alla convenzione intervenuta tra le parti e, in difetto, alle tariffe o agli usi (Cass. 25/1/2017, n. 1900; Cass. 04/06/2018, n. 14293), attribuisce al giudice un potere discrezionale, insindacabile in cassazione ove congruamente motivato ed esercitato in conformità alle tariffe professionali (Cass. 30/10/1996, n. 9514; Cass. 18/04/1998, n. 3982; Cass. 31/01/2017, n. 2386), che può esplicarsi anche nell’aumento o nella riduzione dei compensi (Cass. 2/8/2005, n. 16132; nello stesso senso, Cass. 18/04/2005, n. 8084; Cass. 03/07/2003, n. 10532; Cass. 21/7/2011, n. 16040; Cass. 10/1/2017, n. 269), purché non al di sotto dei minimi tariffari (Cass. 03/09/2003, n. 12840; Cass. 23/03/2004, n. 5802), e ciò a prescindere dall’istanza del professionista o, correlativamente, dalla richiesta del cliente (Cass., Sez., 2, 30/10/1996, n. 9514).
Ciò significa che il ricorrente non può lamentare di avere ottenuto un importo diverso, in aumento o riduzione, rispetto a quello chiesto da ciascuna delle parti del giudizio e lamentare, in ragione di ciò, l’avvenuta violazione del principio della domanda, non potendo il professionista pretendere di indicare unilateralmente il compenso dovuto al cliente sia pure nei limiti della tariffa, senza sconfinare nei poteri discrezionali attribuiti al giudice in sede di determinazione giudiziale della stessa, i cui unici limiti sono dati, quanto agli onorari, nelle articolazioni per scaglioni della tariffa, in rapporto alla natura e al valore della causa (vedi, quanto ai poteri discrezionali del giudice, Cass., Sez. 3, 28/2/2019, n. 5798).
Nella specie, i giudici di merito, dopo avere preso atto dell’avvenuta liquidazione degli onorari secondo i valori massimi previsti dalla tabella applicabile, hanno ritenuto di rideterminare l’importo applicando la misura media degli onorari, in quanto l’attività difensiva svolta dall’avv. COGNOME assieme al collega NOME COGNOME aveva avuto ad oggetto ‘la difesa della sentenza TAR che già aveva
dato ragione al Comune, sicché la professionista’ aveva ‘potuto rifarsi agli argomenti già vittoriosamente utilizzati in prime cure da altro difensore (avv. COGNOME, aggiungendovi le eccezioni difensive opportune per il secondo grado, quale quella della inammissibilità delle domande nuove’.
Le argomentazioni sopra riportate escludono allora la fondatezza della censura, dovendosi le stesse ritenere al di sopra del c.d. ‘minimo costituzionale’ per la motivazione, sancito dall’art. 111 Cost., non essendo necessario che la valutazione dei criteri di cui all’art. 5, d.m. n. 127/2004 implichi un onere motivazionale su ciascuna delle voci (natura e valore della controversia, importanza e numero delle questioni trattate, grado dell’autorità adita, con speciale riguardo all’attività svolta dall’avvocato davanti al giudice) contenute nella norma.
3.1 Con il terzo motivo, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 92 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici di merito avevano compensato le spese di lite del giudizio di primo grado sul presupposto che vi fosse grande differenza tra quanto chiesto e quanto riconosciuto, con sostanziale soccombenza reciproca, senza considerare che il Comune aveva chiesto nel giudizio di primo grado il rigetto della domanda di pagamento dei compensi, adducendo l’applicabilità alla vicenda in esame del d.m. 140/2012 in luogo del d.m. 127/2004, e che la decisione di applicare quest’ultimo d.m. non era stata impugnata, sicché il Comune era rimasto, sotto questo profilo, soccombente. Ad avviso della ricorrente, i giudici avrebbero dovuto considerare che il Comune aveva determinato l’insorgenza della lite, in quanto non aveva provveduto al pagamento e poi aveva proposto il pagamento di un onorario sulla base di un d.m. non applicabile alla specie, sicché la
valutazione sulla soccombenza avrebbe dovuto tener conto del principio di causalità.
3.2 Il terzo motivo è fondato.
Come riportato nella censura, i giudici di merito hanno ritenuto che vi fosse soccombenza reciproca in ragione dell’importante divario esistente tra il compenso chiesto e quello liquidato.
Le argomentazioni addotte dai giudici di merito contrastano, però, col principio, recentemente affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui, in tema di spese processuali, l’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. (Cass., Sez. U, 31/10/2022, n. 32061; Cass., Sez. 2, 17/5/2024, n. 13827).
Tale principio deve essere ribadito in questa sede e ad esso dovrà uniformarsi la Corte d’Appello nella liquidazione delle spese del giudizio.
4.1 Con il quarto motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e dell’art. 3, d.lgs. n. 231 del 2002, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici d’appello, a fronte del motivo col quale la ricorrente contestava il mancato riconoscimento, da parte del Tribunale, degli interessi di mora al tasso di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 231 del 2002, come liquidato col decreto ingiuntivo opposto, avevano affermato che il ritardo nel pagamento fosse dovuto a
causa non imputabile al Comune, stante la sproporzione esistente tra l’attività svolta dal professionista e i compensi richiesti. La ricorrente ha, sul punto, obiettato che i giudici si erano pronunciati ultra petita, in quanto la sua controparte non aveva contestato il tasso di mora richiesto, tant’è che, proprio in ragione di ciò, avevano fatto riferimento ad una formula generica e di stile contenuta nella domanda proposta dal creditore ( rectius debitore) nell’atto di opposizione che non riguardava questa questione. In realtà, il mancato adempimento da parte del Comune, che pretendeva di applicare un d.m. diverso da quello corretto, non poteva considerarsi ‘impossibilità della prestazione’, né consentiva di giustificare il ritardo nel pagamento.
4.2 Il quarto motivo è fondato.
I giudici di merito, dopo avere affermato che gli interessi di mora avrebbero dovuto essere determinati con riferimento all’art. 3 del d.lgs. n. 231 del 2002, hanno ritenuto che, nella specie, il ritardo nel pagamento da parte del Comune fosse dipeso da causa allo stesso non imputabile, siccome riconducibile alla sproporzione esistente tra l’attività professionale svolta e i compensi richiesti, e ha, quindi, liquidato, in dispositivo, i soli interessi legali a decorrere dalla emanazione del decreto ingiuntivo.
Orbene, il quarto comma dell’art. 1284 cod. civ., nello stabilire che ‘ se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta la domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali ‘, richiama il d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, il quale recepisce la Direttiva 2000/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 giugno 2000 relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, che è chiamato appunto ad attuare, prevedendo all’art. 3, rubricato ‘ responsabilità del debitore ‘, che ‘ il creditore ha diritto alla
corresponsione degli interessi moratori sull’importo dovuto, ai sensi degli artt. 4 e 5, salvo che il debitore dimostri che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato dall’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile ‘.
Come affermato da questa Corte, in base alla formulazione letterale degli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 231 del 2002, la disciplina contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali si applica anche ai contratti d’opera professionale tra il professionista e l’ente pubblico territoriale, sebbene la spettanza degli interessi moratori non sia automatica, dovendosi verificare, ai fini del relativo riconoscimento, che, come prescritto dall’art. 3 del menzionato d.lgs., il ritardo nel pagamento non sia stato determinato dalla impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile al debitore (Cass., Sez. 6-2, 31/10/2019, n. 28151).
Detta impossibilità, perché sia idonea ad esonerare il debitore da responsabilità da ritardo (quando temporanea), deve essere assoluta, obiettiva e riferibile al contratto e alla prestazione ivi contemplata, nel senso che deve consistere non in una mera difficoltà, ma in un impedimento, del pari obiettivo e assoluto, tale da non poter essere rimosso (da ultimo Cass., Sez. 3, 20/4/2023, n. 10683; Cass., Sez. 3, 6/10/2022, n. 29057; Cass. 22/06/2022, n. 20152), e deve altresì essere non imputabile, situazione, questa che non può ricondursi alla mera condizione psicologica (di buona fede) del debitore, ma deve essere rapportata all’impegno di cooperazione che, tenuto conto della natura del rapporto e delle circostanze del caso concreto (nonché delle qualità soggettive del debitore), l’obbligato stesso è tenuto ad esplicare in assenza di situazioni non prevedibili, né prevenibili (Cass., Sez. 3, 25/5/2017, n. 13142; Cass., Sez. 2, 30/4/2012, n. 6594; Cass., Sez. 1, 3/9/1999, n. 9278; Cass., Sez. 2, 13/7/1996, n. 6354).
E queste due condizioni non possono certo essere ricondotte, in caso di compensi per prestazioni professionali rese dall’esercente la professione forense, alla contestazione sul quantum debeatur , come invece sostenuto dai giudici di merito.
Non soltanto, infatti, opera il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui l’impossibilità, alla stregua del principio genus numquam perit , può verificarsi soltanto quando la prestazione abbia per oggetto la consegna di una cosa determinata o di un genere limitato, e non già quando si tratti di una somma di denaro (da ultimo Cass., Sez. 3, 20/4/2023, n. 10683; Cass., Sez. 3, 6/10/2022, n. 29057; Cass. 22/06/2022, n. 20152), ma la stessa liquidazione giudiziale delle spettanze in misura inferiore rispetto a quanto richiesto impedisce di escludere la sussistenza della mora, come recentemente affermato da Cass., Sez. 2, 19/8/2022, n. 24973 (e ribadito da Sez. 6-2, 16/3/2022, n. 8611), sia pure al diverso fine di stabilire che gli interessi ex art. 1224 cod. civ. competono a far data dalla messa in mora, coincidente con la data della proposizione della domanda giudiziale ovvero con la richiesta stragiudiziale di adempimento, e non anche dalla successiva data in cui intervenga la liquidazione da parte del giudice, eventualmente all’esito del procedimento sommario di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011.
Quest’ultima pronuncia, infatti, discostandosi dagli arresti precedenti che ancoravano il decorso degli interessi di mora dalla liquidazione delle somme dovute con l’ordinanza conclusiva del procedimento ex art. 28 l. n. 794 del 1942 (vedi, tra le tante, Cass., Sez. 2, 5/7/2002, n. 17655; Cass., Sez. 2, 16/2/2016, n. 2954; Cass., Sez. 2, 10/10/2011, n. 20806), ha aderito a quell’orientamento secondo cui la liquidità del debito non è condizione necessaria della costituzione in mora, con la conseguenza che, in caso di contestazione dell’entità del credito,
l’atto di costituzione in mora produce i suoi effetti tipici, con riguardo agli interessi moratori, limitatamente alla parte del credito riconosciuta (Cass., Sez.1, 15/4/1959, n. 1105; Cass. n. 1813/1976; Cass. n. 4413/1980).
In sostanza, posto che nel nostro ordinamento non opera il principio romanistico in illiquidis non fit mora , anche quando oggetto della domanda sia un’obbligazione di valuta, la mora del debitore va esclusa solo quando questi si sia trovato nell’assoluta impossibilità, alla stregua dell’ordinaria diligenza, di quantificare la prestazione dovuta, ma non anche quando, pur a fronte di un credito ancora illiquido, sia data al debitore la possibilità di compierne una stima, anche sulla scorta, nel caso di crediti professionali, delle tariffe ed in relazione ad attività certe nell’avvenuto espletamento e nella qualificazione, con la conseguenza che va ravvisata la colpa del debitore in presenza di una condotta ingiustificatamente dilatoria, come ad esempio, nel caso in cui la contestazione giudiziale del credito sia radicale ovvero riguardi elementi essenziali del rapporto, ancorché le prove confortino la loro esistenza. Ciò comporta che, sussistendo in siffatte situazioni il ritardo colpevole ad adempiere, siccome derivante dalla condotta ingiustificatamente dilatoria del debitore, devono essere riconosciuti gli interessi moratori a decorrere dalla domanda, sia pure limitatamente alla parte di credito non contestata ovvero a quella che risulterà all’esito dell’accertamento giudiziale (Cass., Sez. 2, 19/8/2022, n. 24973 cit.).
Alla stregua di tali principi, deve allora affermarsi la fondatezza della censura.
In conclusione, dichiarata l’inammissibilità del primo motivo, l’infondatezza del secondo e la fondatezza del terzo e del quarto, il ricorso deve essere accolto e la sentenza cassata, con rinvio alla
Corte d’Appello di Lecce -Sezione distaccata di Taranto, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie i motivi terzo e quarto del ricorso, inammissibile il primo motivo e infondato il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’Appello di Lecce -Sezione distaccata di Taranto, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 12 dicembre