Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 22145 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 22145 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 31/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 13543/2022 R.G. proposto da : COGNOME, COGNOME difesi dagli avvocati COGNOME e COGNOME
-ricorrenti- contro
COGNOME difeso dagli avvocati COGNOME e COGNOME
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO BRESCIA n. 295/2022 depositata il 07/03/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/07/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La controversia trae origine dalla successione di NOME COGNOME deceduto il 15 marzo 1990. Con testamento olografo, il de cuius attribuiva alla figlia NOME l’usufrutto su un compendio immobiliare, costituito da una villa padronale con pertinenze, e la
nuda proprietà ai figli di lei, NOME e NOME COGNOME. Il fratello di NOME, NOME, occupava il compendio.
NOME COGNOME conveniva il fratello NOME dinanzi al Tribunale di Brescia, per la condanna al rilascio degli immobili e al risarcimento del danno da occupazione illegittima. Il convenuto eccepiva l’esistenza di un contratto di comodato stipulato con il padre e la pendenza di un’altra causa concernente la validità delle disposizioni testamentarie. Il giudizio veniva sospeso in attesa della definizione di quello pregiudiziale. Dopo la conferma della validità del testamento e il decesso dell’attrice, NOME e NOME COGNOME riassumevano il giudizio. Il Tribunale di Brescia, con sentenza n. 49/2020, accoglieva la domanda, escludendo la sussistenza di un rapporto di comodato e qualificando l’occupazione come priva di titolo sin dall’apertura della successione paterna. Condannava quindi NOME COGNOME all’immediato rilascio e al risarcimento del danno, liquidato in € 233.000 , per il periodo dal 15 marzo 1990 al 23 ottobre 2017, oltre a un importo mensile per il periodo successivo fino al rilascio effettivo.
Il soccombente ha proposto appello avverso tale decisione, insistendo sull’esistenza di un comodato e contestando la condanna al risarcimento. I COGNOME si sono costituiti resistendo al gravame e proponendo appello incidentale per ottenere tra l’altro un aumento del risarcimento. La Corte di appello di Brescia, con la sentenza n. 295/2022 qui impugnata, ha parzialmente riformato la pronuncia di primo grado. La Corte territoriale ha ritenuto provata la conclusione di un contratto di comodato tra il de cuius e il figlio NOME Ha individuato in una lettera paterna del 1966 la proposta di concessione in godimento gratuito, per la durata di un anno, di una parte del compendio, specificamente il piano superiore della villa e metà del solaio, con uso promiscuo di giardino e veranda (comodato a termine perfezionatasi con l’occupazione della parte del compendio da parte del figlio). La Corte ha accertato che il comodato a termine
si è trasformato in un comodato precario, poiché il comodante non aveva mai richiesto la restituzione del bene prima della sua morte. Tale rapporto, secondo la Corte, non si è estinto con la morte del comodante, ma è proseguito in capo agli eredi. La prima richiesta di restituzione è stata individuata in un atto del 24 gennaio 2002 (da parte della sorella NOME. Pertanto, la Corte di appello ha dichiarato cessato il comodato a quella data, ritenendo che solo da quel momento l’occupazione fosse divenuta senza titolo. Sulla base di tale ricostruzione, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno. Ha motivato tale rigetto affermando che il danno da occupazione illegittima non è in re ipsa ma deve essere provato, anche per presunzioni, dal danneggiato, il quale deve allegare l’intenzione concreta di mettere a frutto l’immobile. La Corte ha ritenuto che nel caso di specie né l’usufruttuaria né i proprietari avessero dedotto circostanze idonee a provare, in via presuntiva, la loro volontà di locare gli immobili. Ha inoltre aggiunto che il cattivo stato manutentivo del bene, accertato dal c.t.u., lo rendeva poco appetibile per il mercato delle locazioni. Di conseguenza, ha respinto la domanda risarcitoria, ha rigettato l’appello incidentale e ha compensato integralmente le spese di entrambi i gradi di giudizio.
Ricorrono in cassazione NOME e NOME COGNOME con cinque motivi, illustrati da memoria. Resiste NOME COGNOME con controricorso e memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Conviene esporre dapprima tutti i motivi di ricorso, poiché sono interrelati.
2.1. – Con il primo motivo si denuncia la violazione degli artt. 1226, 1591, 2043, 2056, 2727, 2729 e 2697 c.c., nonché dell’art. 115 co. 2 c.p.c. Si contesta alla Corte di appello di aver negato il risarcimento del danno come conseguenza naturale dell’occupazione senza titolo. Secondo i ricorrenti, la perdita della disponibilità di un bene fruttifero costituisce di per sé un danno, la cui esistenza è
presunta iuris tantum, salvo prova contraria a carico dell’occupante. Tale presunzione, definibile come danno normale o danno presunto, non configurerebbe un’ipotesi di danno punitivo, ma un criterio di ristoro basato sull’id quod plerumque accidit.
In relazione al primo motivo di ricorso, la sentenza impugnata afferma a p. 14 esplicitamente che «Il danno subito dal proprietario di un immobile nel caso di occupazione illegittima non è in re ipsa, ma necessita di essere provato, sia pure per presunzioni, da parte del danneggiato che deve allegare l’intenzione concreta di mettere l’immobile a frutto».
2.2. – Con il secondo motivo si denuncia la violazione degli artt. 2727, 2729 e 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. Anche a voler seguire la tesi più restrittiva adottata dalla Corte d’appello, che richiede la prova di una concreta intenzione di mettere a frutto il bene, la decisione è errata. Si sostiene che tale onere probatorio, specie in caso di occupazione protratta per decenni, si tradurrebbe in una probatio diabolica. I ricorrenti affermano di aver comunque fornito plurimi elementi presuntivi, quali la loro propensione e quella della loro dante causa a locare altri immobili di proprietà, il fatto che lo stesso occupante avesse concesso in locazione a terzi porzioni del compendio e la circostanza che la locazione rappresentasse l’utilizzo più logico data la residenza dei proprietari in altra città. La Corte territoriale avrebbe ignorato tali elementi, valorizzando in modo erroneo il cattivo stato manutentivo come ostativo alla locazione, nonostante la c.t.u. avesse comunque determinato un valore locativo, seppur ridotto.
La Corte di appello afferma che né l’usufruttuaria né i proprietari del compendio occupato da NOME COGNOME COGNOME hanno dedotto alcuna circostanza dalla quale trarre la prova, per presunzione, che se avessero ottenuto la restituzione degli immobili li avrebbero locati. Aggiunge poi, come argomento contrario a tale presunzione, che il cattivo stato manutentivo dell’immobile induce a ritenere che
sia poco appetibile per essere locato, come ha accertato il CTU. La sentenza, pertanto, non nega in astratto la possibilità di una prova per presunzioni, ma ritiene che nel caso di specie non siano stati forniti elementi sufficienti e che, anzi, ve ne fossero di segno contrario. Il provvedimento impugnato rimane silente sulla specifica rilevanza degli elementi indicati dai ricorrenti, come la locazione di altri beni o il fatto che l’occupante stesso locasse parti dell’immobile.
In risposta al primo e al secondo motivo di ricorso, il controricorrente sostiene che la sentenza impugnata si è correttamente uniformata alla più recente e motivata giurisprudenza di legittimità che esclude ogni automatismo tra occupazione senza titolo e danno risarcibile.
2.3. – Con il terzo motivo si denuncia una motivazione meramente apparente, e quindi una nullità della sentenza, in punto di mancata prova della volontà di locare. La Corte di appello si sarebbe limitata a un’affermazione apodittica e laconica, senza confrontarsi con le specifiche circostanze presuntive allegate dai danneggiati, rendendo incomprensibile l’iter logico seguito.
Il controricorrente nega la sussistenza del vizio, ritenendo la ratio decidendi della Corte d’appello chiara e percepibile: il rigetto della domanda si fonda sul mancato assolvimento dell’onere di allegazione da parte degli attori e sulle risultanze della c.t.u.
2.4. – Con il quarto motivo si denuncia la nullità della sentenza per contrasto insanabile tra la motivazione e il dispositivo. La motivazione accerta che il comodato era parziale, limitato al piano superiore e alla metà del solaio, con uso promiscuo di giardino e veranda a piano terra, e che non aveva per oggetto la disponibilità dell’intero immobile. Il dispositivo, invece, dichiara cessato alla data del 24 gennaio 2002 il comodato avente ad oggetto il compendio immobiliare nella sua interezza.
Il controricorrente sostiene che la nullità si configura solo in caso di contrasto insanabile che impedisca di individuare il comando giudiziale, ciò che non si verificherebbe nel caso concreto.
2.5. – Con il quinto motivo si denuncia la violazione degli artt. 1809 e 1810 c.c. Si contesta la tesi della Corte d’appello secondo cui il comodato a termine si sarebbe automaticamente trasformato in comodato precario per il solo fatto del mancato rilascio alla scadenza. L’art. 1809 c.c. prevede un obbligo di restituzione automatico alla scadenza del termine. La permanenza del detentore nell’immobile, in un contesto di rapporti familiari, andava qualificata come mera tolleranza del proprietario e non come manifestazione di una volontà di costituire un nuovo rapporto a tempo indeterminato. Inoltre, la stessa volontà testamentaria del de cuius, che destinava l’usufrutto dell’intero compendio alla figlia, sarebbe incompatibile con la prosecuzione di un qualsiasi rapporto di godimento in favore del figlio.
La sentenza impugnata motiva la ritenuta trasformazione del comodato. Essa afferma che, non avendo il comodante mai richiesto la restituzione del bene dopo la scadenza annuale, il comodato, che aveva in origine il termine di un anno, si è trasformato in un comodato precario. La Corte fonda la prosecuzione del rapporto dopo la morte del comodante sul disposto dell’art. 1811 c.c. e su una pronuncia di legittimità, sostenendo che gli eredi subentrano nel rapporto e devono richiedere la restituzione per porvi fine. Affronta poi l’argomento della volontà testamentaria, sostenendo che non vi sia incompatibilità poiché il testatore avrebbe inteso trasmettere all’usufruttuaria solo il godimento della parte di bene che si era riservato per sé, offrendo così una specifica interpretazione per superare l’apparente conflitto.
Il controricorrente sostiene che la volontà di costituire un comodato precario, destinato a soddisfare le esigenze abitative del figlio e della sua famiglia, emerge dai comportamenti concludenti
delle parti, in particolare dal godimento ultraventennale dell’immobile, mai contestato dal padre. La volontà testamentaria del de cuius non sarebbe incompatibile con la prosecuzione del rapporto, in quanto l’erede usufruttuaria è semplicemente subentrata nella posizione di comodante, con la facoltà di recedere dal contratto, facoltà che ha esercitato solo nel 2002.
– Va esaminato in via prioritaria il quinto motivo di ricorso, in quanto, investendo la qualificazione giuridica del titolo della detenzione e la sua decorrenza, riveste carattere di pregiudizialità rispetto alle altre censure.
Il quinto motivo è accolto.
La Corte di appello ha errato nel ritenere che il contratto di comodato a termine, concesso dal defunto NOME COGNOME al figlio NOME, si sia trasformato, alla sua scadenza, in un comodato precario per il solo fatto che il comodatario non ha restituito il bene e il comodante non ne ha sollecitato la restituzione. Tale costruzione giuridica viola gli artt. 1809 e 1810 c.c. Nel comodato con determinazione di durata, l’obbligo di restituzione sorge automaticamente alla scadenza del termine, senza necessità di una richiesta del comodante. Da quel momento decorre infatti il termine di prescrizione del diritto alla restituzione (cfr. Cass. 357/1968).
La successiva inerzia del comodante, specie in un contesto di rapporti familiari, non può essere interpretata come una tacita manifestazione di volontà volta a instaurare un nuovo e diverso rapporto contrattuale a tempo indeterminato. Essa va, al contrario, qualificata come mera tolleranza, che si concretizza in questo caso in un atteggiamento di cortesia basato sull’affectio familiaris, inidoneo a creare un titolo di detenzione qualificato e giuridicamente tutelabile. La tolleranza, infatti, si distingue dal contratto proprio per l’assenza di un consenso, anche solo tacito, a vincolarsi giuridicamente.
Ne consegue che l’argomentazione della Corte territoriale, secondo cui la tolleranza paterna sarebbe proseguita in capo agli eredi, è infondata. La tolleranza è un atteggiamento personale che cessa con la morte del soggetto che la manifesta. Inoltre, con l’apertura della successione, il 15 marzo 1990, il diritto di usufrutto sull’intero compendio immobiliare si è consolidato in capo alla legataria NOME COGNOME la quale ha acquisito il pieno diritto di godere del bene. Da quella data, qualsiasi precedente situazione di tolleranza è venuta meno e la detenzione dell’immobile da parte di NOME COGNOME è divenuta senza titolo. Infondata è, altresì, la forzatura interpretativa con cui la Corte di appello ha tentato di limitare l’estensione dell’usufrutto, il quale, in assenza di diverse specificazioni testamentarie, riguardava inequivocabilmente l’intero compendio.
L’accoglimento del quinto motivo, che definisce il titolo e la decorrenza dell’occupazione senza titolo a far data dal 15 marzo 1990, assorbe l’esame dei restanti motivi. Tuttavia, ai fini del giudizio di rinvio, al quale si demanda la liquidazione del danno, non è inopportuno osservare, quanto alle censure di cui ai primi due motivi, che le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. SU 33645/22), pur escludendo che il danno possa qualificarsi in re ipsa, hanno confermato che il danno da occupazione sine titulo può essere provato anche tramite presunzioni e parametrato al valore locativo del bene. Tale pronuncia pone in capo alla parte occupante un onere di contestazione specifica dell’allegazione della controparte circa la concreta possibilità di godimento perduta.
– In sintesi, la Corte accoglie il quinto motivo del ricorso, dichiara l’assorbimento dei restanti motivi, cassa il provvedimento impugnato in relazione al motivo accolto, rinvia alla Corte di appello di Brescia, in diversa composizione, cui si demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quinto motivo del ricorso, dichiara l’assorbimento dei restanti motivi, cassa il provvedimento impugnato in relazione al motivo accolto, rinvia alla Corte di appello di Brescia, in diversa composizione, cui si demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 09/07/2025.