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Comodato familiare: quando non puoi riavere la casa

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di due proprietari che chiedevano la restituzione di un immobile concesso in comodato. La Corte ha stabilito che, anche in assenza di contratto scritto, la destinazione a casa familiare (cd. comodato familiare) si può provare tramite presunzioni, come la lunga durata dell’utilizzo, il matrimonio degli occupanti e le spese di ristrutturazione sostenute. Tale destinazione impedisce al proprietario di recedere liberamente dal contratto, se persistono le esigenze abitative della famiglia.

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Comodato Familiare: la Cassazione chiarisce quando la casa non si può riavere

Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su un tema tanto comune quanto delicato: il comodato familiare. La vicenda riguarda la concessione gratuita di un immobile a un familiare per destinarlo a residenza della sua famiglia. L’ordinanza chiarisce i criteri per provare l’esistenza di questo vincolo di destinazione e le sue importanti conseguenze sulla facoltà del proprietario di richiederne la restituzione.

I Fatti di Causa

La controversia nasce quando due proprietari chiedono in giudizio la risoluzione di un contratto di comodato e la restituzione di un immobile, concesso anni prima a una parente.

In primo grado, il Tribunale accoglie la domanda dei proprietari, ritenendo non provata la destinazione dell’immobile a casa familiare e condannando l’utilizzatrice al rilascio. La situazione si capovolge in appello: la Corte d’Appello riforma la sentenza, respingendo le richieste dei proprietari e riconoscendo la natura di comodato familiare del rapporto contrattuale.

I proprietari, non soddisfatti, ricorrono quindi in Cassazione, sollevando diverse questioni, principalmente di natura processuale, relative all’ammissione e valutazione delle prove che avevano portato la Corte d’Appello a riconoscere l’esistenza del vincolo familiare.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la decisione della Corte d’Appello. Gli Ermellini hanno esaminato e respinto uno per uno i quattro motivi di ricorso, ritenendoli in parte inammissibili e in parte infondati.

La Cassazione ha ribadito alcuni principi fondamentali sia in materia processuale che sostanziale. In particolare, ha sottolineato che la valutazione delle prove, incluse quelle testimoniali e presuntive, è un’attività riservata al giudice di merito e non può essere oggetto di un nuovo esame in sede di legittimità, se non per vizi logici o giuridici che, nel caso di specie, non sono stati riscontrati.

Le motivazioni e la prova del comodato familiare

Il cuore della decisione risiede nel modo in cui è stata provata la destinazione dell’immobile a casa familiare. I giudici di merito, con una decisione avallata dalla Cassazione, hanno ritenuto che tale vincolo potesse essere desunto da una serie di elementi indiziari, gravi, precisi e concordanti.

Nello specifico, sono state considerate decisive le seguenti circostanze:
1. Lavori di ristrutturazione: L’utilizzatrice aveva effettuato, a proprie spese, importanti lavori di manutenzione straordinaria sull’immobile nel 1995.
2. Tempistica: Tali lavori erano stati eseguiti pochi mesi dopo la celebrazione del suo matrimonio, avvenuta nel maggio dello stesso anno.
3. Stabile occupazione: Subito dopo la fine dei lavori, il nuovo nucleo familiare si era trasferito stabilmente nell’appartamento.
4. Lunga durata: L’occupazione si era protratta per un periodo di tempo molto lungo, essendo ancora in corso al momento dell’avvio della causa nel 2015.

Questa concatenazione di eventi, secondo la Corte, costituiva una prova logica sufficiente a dimostrare che l’immobile era stato concesso non per un bisogno temporaneo, ma per soddisfare le esigenze abitative stabili della nuova famiglia. Si è quindi configurato un comodato familiare, caratterizzato da un vincolo di destinazione che prevale sulla volontà del proprietario di rientrare in possesso del bene.

Le conclusioni

La pronuncia in esame riafferma un principio cruciale: quando un immobile viene concesso in comodato per essere adibito a casa familiare, il comodante non può chiederne la restituzione a suo piacimento (recesso ad nutum). Il contratto si intende concluso per una durata implicita, che coincide con la persistenza delle esigenze abitative della famiglia.

Il proprietario potrà riottenere l’immobile solo se dimostra il sopraggiungere di un bisogno urgente e imprevisto, come previsto dall’art. 1809, secondo comma, del codice civile. Questa ordinanza serve da monito: la concessione di un immobile a un familiare, sebbene mossa da intenti generosi, può creare vincoli duraturi che è fondamentale conoscere e ponderare.

Come si prova l’esistenza di un comodato familiare se non c’è un contratto scritto?
Secondo la Corte, si può provare attraverso elementi presuntivi (indizi), a condizione che siano gravi, precisi e concordanti. Nel caso specifico, sono stati ritenuti sufficienti l’esecuzione di lavori di ristrutturazione a spese dell’utilizzatore subito dopo il matrimonio e la lunga e stabile permanenza del nucleo familiare nell’immobile.

Il proprietario può chiedere la restituzione di un immobile in comodato familiare in qualsiasi momento?
No. Se l’immobile è stato destinato a soddisfare le esigenze abitative della famiglia, il proprietario (comodante) non può recedere liberamente. La restituzione può essere richiesta solo al cessare delle esigenze familiari o qualora sopravvenga un bisogno urgente e imprevisto per il proprietario stesso.

Se una prova viene prodotta in giudizio da una parte, può essere usata dal giudice a favore della controparte?
Sì. La Cassazione ha ribadito il principio processuale dell’acquisizione della prova, secondo cui, una volta che un mezzo istruttorio è stato ritualmente introdotto nel processo, diventa patrimonio comune e può essere utilizzato dal giudice per formare il proprio convincimento, indipendentemente da quale parte lo abbia prodotto o a quale fine.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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