Sentenza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 27406 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 3 Num. 27406 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/10/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 23833/2020 R.G., proposto da
NOME COGNOME ; rappresentato e difeso dall ‘ AVV_NOTAIO (pec dichiarata: EMAIL), in virtù di procura in calce al ricorso;
-ricorrente-
nei confronti di
NOME COGNOME ; rappresentata e difes a dall’AVV_NOTAIO (pec dichiarata: EMAIL), in virtù di procura in calce al controricorso;
-controricorrente e ricorrente incidentale-
P.U. 11.07.2024 N. R.G. 23833/2020 Pres. RAGIONE_SOCIALE. RAGIONE_SOCIALE
nonché di
NOME COGNOME e NOME COGNOME ; rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO ( pec dichiarata: EMAIL), in virtù di procura in calce al controricorso;
-controricorrenti al ricorso incidentale-
per la cassazione della sentenza n. 558/2019 della CORTE d ‘ APPELLO di CAGLIARI, Sez. SASSARI, depositata il 17 dicembre 2019;
udìta la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del l’11 luglio 2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
udìto il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha chiesto il rigetto del ricorso principale e la declaratoria di inammissibilità di quello incidentale, ribadendo le conclusioni già formulate in forma scritta;
udìto l’AVV_NOTAIO , per delega dell’AVV_NOTAIO;
udìto l’AVV_NOTAIO, per delega dell’AVV_NOTAIO;
udìto l’AVV_NOTAIO, per delega dell’AVV_NOTAIO.
FATTI DI CAUSA
Nel 2011, NOME COGNOME convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Nuoro, NOME COGNOME, deducendo che:
quale figlio ed erede del defunto NOME COGNOME, era titolare, insieme alla madre NOME COGNOME e al fratello NOME COGNOME, di una quota pari a ¼ dell’immobile oggetto di comunione pro indiviso sito in Cala Gonone di DorgaliINDIRIZZO, nonché
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dell’azienda ivi esercitata, avente ad oggetto l’attività di bar e gelateria, e della relativa licenza;
degli altri ¾ erano titolari i NOME del suo defunto padre, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, ognuno proprietario di ¼;
il 10 aprile 1997, i quattro comunisti pro indiviso (i germani COGNOME) avevano stipulato tra loro due negozi giuridici, i quali avrebbero avuto effetto con decorrenza dal 1° maggio 1997; con il primo, denominato ‘convenzione familiare’, dato atto della comproprietà dell’immobile e dell’azienda, avevano convenuto che la licenza fosse trasferita a NOME COGNOME (moglie di NOME COGNOME), che avrebbe gestito l’attività per un periodo di sei anni, il quale, ove non fosse pervenuta, almeno sei mesi prima della scadenza, la dichiarazione di volontà di altro comproprietario di subentrare nella gestione, sarebbe stato prorogato per altri sei anni; con il secondo ne gozio giuridico, denominato ‘contratto di locazione commercialecomodato’, NOME COGNOME aveva concesso in locazione a NOME COGNOME la propria quota dell’immobile (¼) verso un canone annuo di Lire 12.000.000, mentre gli altri comunisti le avevano concesso le restanti quote in comodato gratuito; in relazione alla locazione era stato stabilito che la conduttrice si obbligava a gestire l’attività per il periodo di sei anni e che il locatore (o un suo familiare), ove avesse voluto subentrare in questa gestione, avrebbe dovuto dare disdetta della locazione almeno sei mesi prima della scadenza del detto periodo, vincolandosi a sua volta per il periodo di sei anni, mediante la stipulazione di nuovo contratto di locazione, alle medesime condizioni ma a parti invertite;
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– egli, dopo la morte del padre, unitamente alla madre e al fratello, aveva inviato disdetta in data 23 aprile 2008, ma la conduttrice si era rifiutata di rilasciargli l’immobile e l’azienda, continuando a detenerli illecitamente dopo il 1° maggio 2009.
Sulla base di queste deduzioni, NOME COGNOME domandò che, dichiarata l’occupazione sine titulo da parte di NOME COGNOME, quest’ultima fosse condannata al rilascio dell’immobile e dell’azienda in suo favore e a ‘volturare’ la licenza commerciale, al fine di consentirgli di subentrare nell’eserci zio dell’attività imprenditrice, nonché, infine, al pagamento dell’indennità di occupazione, dalla scadenza del contratto di locazione all’attualità.
Costituitasi la convenuta, acquisita documentazione e intervenuti nel processo NOME COGNOME e NOME COGNOME, il Tribunale di Nuoro, con sentenza non definitiva n.19/2014, dichiarò l’illegittimità dell’occupazione e condannò la convenuta al rilascio dell’immobile e dell’azienda, nonché a ‘ volturare ‘ l’autorizzazione amministrativa in favore dell’attore ; in ottemperanza a questa prima sentenza, NOME COGNOME, in data 26 maggio 2014, restituì l’immobile e l’azienda.
Con sentenza definitiva n. 383/2018, il Tribunale, inoltre, condannò NOME COGNOME al risarcimento del danno, liquidando a favore di NOME COGNOME la somma di Euro 22.370,94, oltre accessori.
Avverso entrambe le pronunce, NOME COGNOME propose appello, al quale, nel contraddittorio anche con NOME COGNOME e NOME COGNOME, resisté NOME COGNOME, proponendo altresì appello incidentale.
La Corte d ‘ appello di Cagliari, Sez. Sassari, con sentenza 17 dicembre 2019, n. 558, in accoglimento del gravame principale,
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ritenuto inammissibile quello incidentale, ha rigettato le domande proposte da NOME COGNOME, condannandolo, in solido con NOME COGNOME e NOME COGNOME, al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio.
La Corte territoriale ha deciso sulla base dei seguenti rilievi:
Iin base alla scrittura privata sottoscritta da tutti i NOME COGNOME in data 10 aprile 1997, mentre il contratto di locazione concluso da NOME COGNOME con il cognato NOME COGNOME aveva una scadenza fissata al 1° maggio 2009 (data della fine del secondo sessennio), invece il contratto di comodato gratuito stipulato dalla stessa sig.ra COGNOME con gli altri comproprietari dell’immobile e dell’azienda (il marito NOME COGNOME e le cognate NOME e NOME COGNOME) non prevedeva altrettale termine; pertanto, alla scadenza della locazione, era bensì venuto meno il titolo di detenzione fondato su questo contratto (peraltro, circoscritto alla quota ideale di ¼ del bene), ma era rimasto efficace il diverso titolo fondato sul comodato gratuito (avente invece ad oggetto i ¾ del bene medesimo, sulla base di una manifestazione di volontà riferibile alla maggioranza dei comunisti); dunque, la detenzione di NOME COGNOME, fondata su tale diverso titolo, valido ed efficace, non poteva reputarsi illecita;
IIoltre alla scrittura privata del 1997, dovevano essere considerate le ulteriori dichiarazioni non contestate a firma dei NOME COGNOME prodotte in giudizio dalla sig.ra COGNOME, con le quali i comodanti avevano manifestato la volontà di farla rimanere nel locale e nell’esercizio dell’attività di bar e gelateria, dichiarando il loro espresso dissenso al subentro in essa di NOME COGNOME e « negando potere alla iniziativa » di quest’ultimo , il quale, quindi, non
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avrebbe potuto « richiedere il rilascio del locale alla comodataria, anche dopo la scadenza del contratto di locazione, in quanto da essa legittimamente detenuto ad altro titolo ».
Per la cassazione della sentenza della Corte sarda ricorre NOME COGNOME sulla base di tre motivi.
Risponde con controricorso NOME COGNOME, proponendo altresì ricorso incidentale tardivo fondato su tre motivi.
Al ricorso incidentale tardivo di NOME COGNOME rispondono, con distinti controricorsi, oltre al ricorrente principale, gli altri eredi di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
La trattazione del ricorso, originariamente fissata in adunanza camerale, è stata rinviata alla pubblica udienza con ordinanza interlocutoria 3 gennaio 2024, n. 137.
Il AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO, anticipando le medesime richieste formulate in udienza, ha depositato memoria con conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso principale e la declaratoria di inammissibilità di quello incidentale.
Il ricorrente principale e la controricorrente/ricorrente incidentale, che avevano già depositato memorie in vista dell’adunanza camerale, hanno depositato ulteriori memorie per l’udienza .
RAGIONI DELLA DECISIONE
A.1. Con il primo motivo del ricorso principale viene denunciata, ai sensi dell’art.360 n. 3 cod. proc. civ.: la violazione degli artt. 1810, 1362 e ss. cod. civ. e 12 disp. prel. cod. civ.; la violazione dell’art.1372 cod. civ.; la violazione dell’art. 1102 cod. civ.; la violazione degli artt. 1591 e 820 cod. civ.; la violazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ..
Il motivo si articola in cinque sub-motivi.
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A.1.a. Con il primo sub-motivo viene denunciata la violazione degli artt. 1810, 1362 e ss. cod. civ. e 12 disp. prel. cod. civ..
NOME COGNOME censura la sentenza impugnata per aver ritenuto NOME COGNOME legittimata a continuare nella detenzione dell’immobile e dell’azienda , pur dopo la scadenza della locazione, in forza del diverso titolo rappresentato dal comodato.
Deduce, da un lato, che il termine del comodato, pur non essendo stato espressamente convenuto, avrebbe dovuto essere individuato, ai sensi dell’art.1810 cod. civ., in considerazione dell’uso a cui l’immobile e l’azienda erano destinati (attività commerciale di bar e gelateria) e sarebbe stato pertanto coincidente con quello fissato al connesso contratto di locazione, la scadenza del quale, a seguito di rituale disdetta, avrebbe precluso alla sig.ra COGNOME di proseguire nel predetto uso, in vista del subentro del locatore.
Sostiene , dall’altro lato, che il giudice d’appello avrebbe erroneamente interpretato l’« effettiva comune intenzione dei contraenti (i quattro NOME COGNOME e la COGNOME) come risultante dal Contratto di locazione commerciale e dalla Convenzione Familiare, sotto il profilo letterale, sistematico e teleologico, laddove state disconosciute … le pattuizioni secondo le quali i comproprietari di locali e azienda di bar gelateria, per evidenti ragioni di equità, avevano previsto una turnazione di sei anni, da parte di ciascun ceppo familiare riconducibile ai due NOME maschi, nella gestione dell’ attività commerciale ».
Evidenzia, infine, che, in ogni caso, il comodato sarebbe stato circoscritto al solo locale, nei limiti di ¾ di esso, per modo che, dopo la cessazione della locazione, NOME COGNOME avrebbe comunque
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detenuto abusivamente il restante ¼ del locale e tutti i beni costituenti l’azienda, a cui il comodato non si estendeva.
A.1.a.1. Il primo sub-motivo del primo motivo del ricorso principale è in parte infondato e in parte inammissibile.
È infondato nella parte in cui denuncia la violazione d ell’art.1810 cod. civ..
Nel contratto di comodato, il termine finale può, ai sensi della norma appena citata, risultare dall ‘ uso a cui la cosa deve essere destinata, in quanto tale uso abbia in sé connaturata una durata predeterminata nel tempo; in mancanza di tale destinazione, invece, l ‘ uso del bene viene a qualificarsi a tempo indeterminato, sicché il comodato deve intendersi a titolo precario e, perciò, revocabile ad nutum da parte del proprietario (Cass., Sez. Un., 09/02/2011, n. 3168).
L’ uso corrispondente alla generica destinazione dell ‘ immobile, lungi dall’avere in sé connaturata una durata predeterminata nel tempo , si presta, al contrario, ad essere considerato oggettivamente come uso avente una durata indeterminata, salva la sussistenza di particolari prescrizioni o di elementi certi ed oggettivi che consentano ab origine di prestabilirla (Cass. 25/06/2013, n. 15877).
Pertanto, la circostanza che un immobile concesso in comodato sia destinato ad attività commerciale (nella specie, di bar e gelateria) non è sufficiente per ritenere il relativo contratto soggetto ad un termine implicito, sicché, se, per un verso, il comodante può domandare la restituzione del bene prima della cessazione di tale attività (Cass.18/11/2014, n. 24468; Cass. 15/10/2020, n. 22309), per altro verso il comodatario, in difetto di tale richiesta, può proseguire nella -lecita, benché precaria -detenzione del bene.
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Il sub-motivo in esame è, invece inammissibile nella parte in cui denuncia la violazione degli artt. 12 disp. prel. cod. civ. e 1362 e ss. cod. civ.
Con riguardo alla censura per violazione dell’art. 12 delle preleggi, è sufficiente osservare che esso costituisce un canone interpretativo delle norme giuridiche e non dei contratti, sicché indebitamente la sua violazione è stata posta a fondamento del motivo di ricorso per cassazione.
La censura per violazione degli artt. 1362 e ss. cod. civ. -formulata sull’assunto che la Corte di merito avrebbe erroneamente interpretato la comune intenzione dei contraenti e disconosciuto le pattuizioni intercorse tra le parti in relazione alla durata , al contenuto e alla reciproca connessione e dipendenza dei contratti di locazione e di comodato -omette invece di considerare che, secondo il pacifico e consolidato orientamento di questa Corte, l’interpretazione del contratto, traducendosi in un’operazione di ricerca ed individuazione della comune volontà dei contraenti, costituisce un accertamento di fatto, riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non per violazione delle regole ermeneutiche (ai sensi dell ‘ art. 360 n. 3 cod. proc. civ.), oppure per inadeguatezza di motivazione (ai sensi dell ‘ art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nella formulazione antecedente alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, ove applicabile), oppure, ancora, nel vigore del novellato testo di detta norma, per omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti (Cass. 14/07/2016, n. 14355; v. anche, tra le altre, Cass. 22/06/2005, n. 13399).
Quale che sia la censura in concreto formulata, nessuna di esse può, peraltro, risolversi in una critica del risultato esegetico raggiunto
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dal giudice del merito, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione, atteso che, per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data al contratto dal giudice del merito non deve essere l’unica possibile, né l a migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni ( ex multis , Cass. 02/05/2006, n. 10131; Cass.20/11/2009, n. 24539; Cass. 15/11/2017, n. 27136; Cass. 28/11/2017, n. 28319).
Nel caso in esame , il giudice d’appello ha ritenuto che il contratto di comodato avesse ad oggetto sia l’immobile che l’azienda e che, diversamente dalla locazione, non contenesse la fissazione di un termine di durata, traendone l’implicazione che , al momento della scadenza della locazione, non era venuta meno la legittimazione di NOME COGNOME a detenere il locale e i beni aziendali, stante la perdurante validità ed efficacia di un titolo che trovava fondamento in un negozio giuridico posto in essere dai ¾ dei partecipanti alla proprietà indivisa degli stessi.
A.1.a.1.a. Il giudizio di plausibilità dell’interpretazione fornita nella fattispecie dal giudice del merito, diretta a reputare ricompresa nel contratto di comodato (oltre l’immobile, anche) l’azienda, postula la soluzione positiva della questione di diritto se l’azienda possa formare oggetto di tale negozio giuridico.
La questione trova il suo fondamento dogmatico nel rilievo che l’art. 1803 cod. civ., nel fissare la nozione del comodato, individua l’oggetto di esso nella « cosa mobile o immobile », ciò che potrebbe indurre ad escludere che possano essere dedotti in comodato beni non rientranti nel genus delle res materiali , nelle due species di cose mobili ed immobili (art. 812 cod. civ.) o non ricondotti ad una di esse per espressa estensione normativa (come nel caso dell’art. 814 cod. civ.),
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né costituenti (in quanto cose mobili appartenenti ad un’unica persona ed aventi destinazione unitaria: art. 816 cod. civ.) una mera universitas rerum , bensì integranti beni (anche) di natura immateriale o ideale, come appunto l’azienda, la quale, per ormai prevals a opinione dottrinale, recepita dalla giurisprudenza (cfr., ad es., Cass., sent. 13/09/2023, n. 26450), costituisce una universitas iurium , ovverosia un complesso di beni e rapporti giuridici caratterizzati dalla loro unità funzionale, in quanto organizzati in funzione dell’esercizio dell’ attività imprenditrice.
La soluzione estensiva della questione -tra l’altro, tal volta persino data per scontata nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass.19/07/2000, n.9460; Cass. 19/08/1991, n. 8907; Cass. 06/06/1987, n.4949) -trova conforto, come analiticamente osservato dal Pubblico Ministero, in due ordini di argomentazioni: da un lato, quella che muove dalla natura dell’azienda quale bene autonomo ( universitas ), distinto dai singoli elementi che la compongono (cfr., in tal senso, già Cass. n.2673 del 1956), come tale suscettibile di formare oggetto di diritti e situazioni giuridiche soggettive reali e personali (proprietà, usufrutto, possesso, detenzione), a seguito di atti dispositivi derivativi (locazione, vendita) o di acquisto a titolo originario (usucapione) ; dall’altro lato, quella che muove dall’esigenza di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 1803 cod. civ., che risulterebbe altrimenti in contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost., atteso che l’esclusione della facoltà del proprietario dell’ azienda di trasferirne temporaneamente a terzi la detenzione qualificata a titolo gratuito (mediante comodato), oltre che lesiva della libertà di iniziativa economica privata e del connesso diritto di autonomia contrattuale, sarebbe altresì irragionevole a fronte del riconoscimento normativo
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della diversa ma omologa facoltà di realizzare tale temporaneo trasferimento a titolo oneroso (mediante affitto dell’azienda: art . 2562 cod. civ.; artt. 27 e 36 legge n. 392 del 1978).
Entrambi gli ordini di argomentazioni che sorreggono la tesi estensiva, però, non si confrontano con il substrato dogmatico di quella posta a fondamento della contraria tesi restrittiva, perché non discutono (né, quindi, confutano) l’esattezza del rilievo secondo cui la definizione dell’oggetto del contratto di comodato , effettuata dall’art.1803 cod. civ. mediante riferimento all a « cosa mobile o immobile », necessariamente riconduce , stante l’inequivocità dell’espressione, alla categoria dei beni materiali , secondo la comune accezione del termine cosa ( res ), nelle due species in cui tale genus è classificato dall’art. 812 cod. civ. .
L’esattezza di questo rilievo può essere discussa e il suo fondamento efficacemente confutato -se si considera che nella tradizione normativa privatistica italiana non si rinviene la tendenza a costruire, sul piano positivo, la nozione giuridica di ‘ cosa ‘ , quanto piuttosto la diversa tendenza a costruire la nozione giuridica di ‘ bene ‘ .
Nell’ambito d i questa costruzione , il termine ‘cosa’ assume un ruolo strumentale , concorrendo, quale elemento della fattispecie, a definire la nozione di ‘bene’ sulla base del significato mobile da esso assunto nell ‘ evoluzione della realtà socio-economica.
Il termine ‘cosa ‘ concorre così a definire la nozione di ‘ bene ‘ sia nel codice civile del 1865 che in quello del 1942.
Ma, mentre nel primo (imperniato sulla centralità statica del diritto dominicale), la detta nozione è indissolubilmente legata ai due concetti della materialità e dell’idoneità a formare oggetto di proprietà (art. 406 cod. civ. 1865 : ‘ Tutte le cose che possono formare oggetto di proprietà
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pubblica o privata, sono beni immobili o mobili ‘), nel secondo ( fondato sulla centralità dinamica dell’impresa), pur continuandosi ad agganciare il concetto di bene al termine cosa , viene tuttavia eliminato il riferimento al diritto di proprietà, ampliando il predetto concetto sino a ricomprendere l’oggetto di tutti i diritti, non solo di quello do minicale (art.810 cod. civ. 1942 : ‘ Sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti ‘).
È stato notato in dottrina che, nel passaggio dall’art. 406 co d. civ. 1865 all’art. 810 cod. civ. 1942, il legislatore ha compiuto un passo troppo breve, in quanto, pur avvertendo il limite della nozione di ‘ bene ‘ contenuta nella prima disposizione -limite reso manifesto dalla legislazione speciale introdotta nel periodo di transizione tra i vecchi e il nuovo codice (in particolare, dal R.D. 29 giugno 1939, n. 1127 e dalla legge 22 aprile 1941, n. 633, rispettivamente in tema di invenzioni industriali , protette con il diritto di brevetto , e di opere dell’ingegno , protette con il diritto di autore ) , la quale poneva in luce l’esistenza di beni immateriali , ossia di utilità che, pur non essendo cose , erano tuttavia in grado di soddisfare bisogni umani, e dunque di porsi come punto di riferimento oggettivo di interessi privati che l’ordinamento poteva reputare meritevoli di tutela -tuttavia non sarebbe riuscito ad allontanarsi dalla tradizionale concezione materialistica, sganciando il concetto di bene dal riferimento alla fisicità delle res .
Ne sarebbe derivato il recepimento, all’inizio del Libro III del nuovo codice civile, di una nozione incompleta e contraddittoria di bene giuridico, insufficiente a ricomprendere la più ampia fenomenologia che, già all’ epoca dell ‘ entrata in vigore della nuova fonte normativa, si riscontrava nel vivo delle relazioni economiche e che sarebbe stata in
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parte recepita dallo stesso codice nel Libro IV, attraverso la tipizzazione delle più rilevanti fattispecie contrattuali.
Mentre in queste figure negoziali sarebbero state rappresentate relazioni economico-giuridiche in cui il punto di riferimento oggettivo dell’interesse delle parti era costituito (anche) da utilità immateriali o ideali , quali, ad es. un’ attività (art. 1703 cod. civ.) o un risultato (art.1655 cod. civ.), la nozione formale di bene , pur allargata a ricomprendere l’oggetto di tutti i diritti e non solo di quello di proprietà, avrebbe continuato ad essere circoscritta alle sole cose materiali (art.810 cod. civ.).
La mancanza di una soddisfacente nozione di bene giuridico nel Libro III -è stato ulteriormente notato -avrebbe indotto il legislatore ad omettere, nella parte del Libro IV dedicata ai requisiti costitutivi del contratto (art.1325 ss. cod. civ.), la definizione di quello, tra i predetti requisiti, che avrebbe dovuto indicare il punto di riferimento oggettivo degli interessi perseguiti dalle parti del rapporto negoziale.
In tal modo, la nozione di oggetto del contratto, accolta dal nuovo codice, sarebbe risultata bensì rigorosamente delimitata con riguardo ai suoi necessari attributi (art.1346 cod. civ.) ma non anche definita quanto alla sua essenza, con risultati deprecabili, sul piano dell’unità concettuale complessiva del sistema, desumibili dal mancato raccordo -e spesso persino dalla reciproca contraddittorietà -tra le singole norme.
Così, ad es., nella disciplina della vendita (che, in quanto contratto consensuale ad effetti reali, produce il trasferimento della proprietà della cosa al momento della prestazione del consenso ), l’oggetto, anziché essere individuato nella cosa venduta, viene individuato proprio nel suo trasferimento (art. 1470 cod. civ. : ‘ La vendita è il
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contratto che ha per oggetto il trasferimento … ‘) , con evidente confusione tra l’ oggetto e l’ effetto del contratto.
Al riguardo, è quasi sconcertante rilevare che, al contrario, nella vendita di cosa futura, il trasferimento (che, quale programma da realizzare in conseguenza degli effetti meramente obbligatori della fattispecie, si presterebbe, con maggior conforto dogmatico, ad essere identificato come l’ oggetto del negozio, non essendone l’immediato effetto ) lascia invece il posto alla cosa (art. 1472 cod. civ.: ‘ Nella vendita che ha per oggetto un cosa futura …’ ), con la conseguenza che, alla stregua della disciplina positiva, mentre non costituisce oggetto della vendita la ‘cosa presente ‘, lo è, invece , la ‘cosa futura’.
Il che, se si vuole, evidenzia un’ulteriore aporia sistematica , ove si si pensi che, invece, nella disciplina generale del contratto, le ‘ cose future ‘ vengono piuttosto identificate con l’oggetto della prestazione , la quale viene a sua volta identificata con l’oggetto del contratto (art.1348 cod. civ.), mentre, nella disciplina generale dell’obbligazione, la prestazione viene identificata, più generalmente, con l’ oggetto dell’obbligazione (art.1174 cod. civ.), e non del contratto, che dell’obbligazione costituisce una delle possibili fonti (art.1173 c od. civ.).
A.1.a.1.b. Senza ulteriormente indulgere sulle implicazioni che la dottrina ha desunto d alla nozione di ‘ bene ‘ contenuta nell’art. 810 cod. civ. (con particolare riguardo alla incongruente disciplina positiva dell’oggetto del contratto ), è peraltro evidente che la perdurante connessione normativa tra il concetto giuridico di ‘bene’ e l’idea socioeconomica di ‘cosa’ , se, per un verso, limita la portata del primo, per l’altro amplia la portata della seconda.
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Se, infatti, nelle stesse figure contrattuali tipizzate -prima ancora che nella legislazione speciale e nelle figure negoziali atipiche che fioriscono nella realtà sociale -sono rappresentate relazioni economico-giuridiche in cui il punto di riferimento oggettivo dell’interesse delle parti è costituito da utilità immateriali, è evidente che la categoria delle ‘cose’ , quali entità idonee a formare oggetto, oltre che del diritto di proprietà (e, più in generale, di situazioni giuridiche soggettive finali ), anche di altri diritti (e quindi pure di situazioni giuridiche soggettive strumentali ), va ampliata oltre l’orizzonte tradizionale delle res fisiche e materiali , per ricomprendervi tutte le utilità ideali o immateriali costituenti possibili punti di riferimento di altrettanti interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico .
Tra queste utilità possono essere dedotte in comodato tutte quelle idonee a formare oggetto di una situazione giuridica soggettiva riconducibile alla detenzione a seguito di una vicenda assimilabile alla traditio di una res infungibile e inconsumabile, le quali devono reputarsi tendenzialmente soggette, in mancanza di diversa previsione, alla disciplina dei beni mobili (arg. ex art. 813, ult. parte, cod. civ.).
Il rilievo secondo cui nella nozione di ‘ cose mobili o immobili ‘ di cui all’art. 1803 cod. civ. rientrano soltanto i beni materiali tradizionalmente ascritti alla categoria fisica delle res è, dunque, dogmaticamente inesatto, confermandosi, pertanto, che l’azienda, quale universitas iurium , comprensiva non solo di res materiali ma anche di beni ideali e rapporti giuridici, unitariamente organizzati in funzione dell’esercizio dell’attività imprenditrice, può formare oggetto del detto contratto reale.
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A.1.a.1.c. La positiva soluzione della questione di diritto circa l’ idoneità dell’ universitas aziendale a formare oggetto del contratto di comodato, conferma la plausibilità dell’ interpretazione dei contratti fornita dal giudice del merito nella vicenda in esame.
Tale circostanza esclude la possibilità di dolersene in sede di legittimità sol perché la parte che propone la censura aveva interesse a che fosse privilegiata una diversa interpretazione rimasta disattesa.
La doglianza in esame appare, dunque, sotto questo aspetto, inammissibile, in quanto si risolve nella mera critica del risultato interpretativo raggiunto dal la Corte d’appello e nella non consentita contrapposizione, a quella fornita dal giudice di merito, di una diversa e più favorevole interpretazione dei negozi giuridici stipulati tra le parti.
A.1.b. Con il secondo sub-motivo del primo motivo del ricorso principale viene denunciata la violazione dell’art.1372 cod. civ. , deducendosi che la Corte di appello avrebbe ‘ erroneamente disconosciuto ‘ l’ inadempimento di NOME COGNOME, nonché delle cognate NOME e NOME COGNOME, alle obbligazioni derivanti dai contratti di convenzione familiare e di locazione commerciale.
A.1.c. Con il terzo sub-motivo del primo motivo, NOME COGNOME lamenta la violazione dell’art.1102 cod. civ. , per essergli stato impedito di usare la quota parte di sua proprietà del bene comune; la sentenza d’appello è criticata per essere stata disapplicata la regola secondo cui ciascun proprietario ha diritto di servirsi della cosa comune.
A.1.c.1. Il secondo e il terzo sub-motivo del primo motivo del ricorso principale devono essere esaminati congiuntamente per ragioni di connessione.
Essi sono inammissibili.
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La decisione impugnata si fonda, come si è veduto, su una duplice ratio decidendi , l’una concernente la qualificazione della condotta di detenzione di NOME COGNOME come condotta lecita, l’altra concernente i poteri di NOME COGNOME, cui è stata negata la facoltà di ottenere il rilascio del locale e dei beni aziendali.
La prima ratio decidendi si basa, a sua volta, sulla ritenuta perdurante efficacia di un titolo di detenzione validamente conferito alla sig.ra COGNOME dalla maggioranza dei partecipanti alla comproprietà indivisa dei beni, ovverosia il contratto di comodato che, nella plausibile -e pertanto insindacabile -interpretazione del giudice del merito, aveva ad oggetto sia il locale che i beni aziendali e, diversamente dalla locazione, non conteneva la fissazione di un termine.
La seconda ratio decidendi si basa sulla considerazione, oltre che dei negozi giuridici del 1997 (convenzione familiare e locazione commerciale-comodato), anche delle altre scritture non contestate a firma dei NOME COGNOME, prodotte in giudizio da NOME COGNOME, con le quali i comodanti, non solo avevano manifestato la volontà di farla rimanere nel locale e nell’esercizio dell’attività di bar e gelateria, ma avevano dichiarato il loro espresso dissenso al subentro in essa di NOME COGNOME, « negando potere alla iniziativa » di quest’ultimo, e dunque privandolo del potere di richiedere il rilascio del locale e dei beni aziendali alla comodataria, anche dopo la scadenza del contratto di locazione , stante il principio per cui il singolo comunista non può porre in essere atti, processuali o sostanziali, inerenti alla gestione o alla disposizione del bene comune, ove risulti l’ espressa volontà contraria degli altri comproprietari ; volontà, tra l’altro, saldatasi, nella fattispecie, in quella della maggioranza qualificata -¾ -dei
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partecipanti alla comunione (è stata citata, in proposito, la sentenza di questa Corte n.9556 del 2017).
Mentre la prima ratio decidendi è stata censurata (peraltro, come si è veduto, con doglianze in parte infondate e in parte inammissibili) con il primo sub-motivo del primo motivo del ricorso principale, la seconda ratio decidendi non trova alcuna adeguata censura nel detto ricorso.
In particolare, con essa non si confrontano il secondo e il terzo submotivo del primo motivo, i quali introducono nel giudizio i temi, del tutto estranei al fondamento della decisone impugnata , dell’ uso della cosa comune e dell’ inadempimento delle obbligazioni nascenti dai contratti di convenzione familiare e di locazione commerciale.
La censura per violazione dell’art.1102 cod. civ. è inammissibile, in quanto la causa petendi della domanda proposta da NOME COGNOME non trovava fondamento nel diritto di uso della cosa comune, bensì nel diverso diritto di disporre della quota e di cedere il godimento della cosa nei limiti di essa (art.1103 cod. civ.); diritto che il dante causa del ricorrente principale aveva esercitato mediante la stipula del contratto di locazione.
Del pari inammissibile è la censura per violazione dell’art.1372 cod. civ. -formulata sull’assunto che la Corte territoriale avrebbe ‘ erroneamente disconosciuto’ ( recte : non avrebbe sanzionato) l’ inadempimento di NOME COGNOME, nonché delle cognate NOME e NOME COGNOME, alle obbligazioni derivanti dai contratti di convenzione familiare e di locazione commerciale -, dal momento che il petitum della domanda proposta dal ricorrente non consisteva né nella risoluzione per inadempimento di quei contratti, né tanto meno nella richiesta di una sentenza costitutiva produttiva degli effetti del
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contratto di locazione a parti invertite che la sig.ra COGNOME (quale coniuge ed erede di NOME COGNOME) si sarebbe indebitamente rifiutata di stipulare con gli eredi di NOME COGNOME.
In altri termini, la domanda formulata da NOME COGNOME non trovava fondamento nell’ inadempimento di NOME COGNOME all ‘obbligo di procedere alla novazione del rapporto con (gli eredi di) NOME COGNOME mediante inversione delle parti della locazione avente ad oggetto la quota ideale di ¼ dei beni comuni (inadempimento che avrebbe potuto essere invocato a presupposto di un’azione risolutiva o di una richiesta di sentenza ex art.2932 cod. civ., avente ad oggetto il non concluso contratto di locazione a parti invertite circoscritto alla suddetta quota), ma trovava fondamento, per un verso, nell’ accertamento dell’ illiceità della condotta di detenzione della conduttrice e, per l’altro , in quello della sussistenza del potere del locatore di domandare il rilascio del bene oggetto di proprietà indivisa, sicché, mentre debitamente il giudice del merito ha condotto la sua indagine su entrambi tali profili, invece inammissibilmente il ricorrente ha omesso di censurare la ratio decidendi negativa, relativa al secondo di essi.
Ne discende l’inammissibilità delle doglianze in esame, contenute nel secondo e nel terzo sub-motivo del primo motivo del ricorso principale.
A.1.d. Con il quarto sub-motivo del primo motivo del ricorso principale viene denunciata la violazione degli artt. 1591 e 820 cod. civ, per essere stata dalla Corte di merito erroneamente esclusa la sussistenza del l’obbligo d i NOME COGNOME di corrispondere i danni per ritardata restituzione e i frutti civili.
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A.1.d.1. Il quarto sub-motivo è assorbito dalla pronuncia di rigetto del primo, al quale -come si è sopra veduto -ha resistito la statuizione del giudice d ‘appello diretta a qualificare come lecita la perdurante detenzione del locale dei beni aziendali da parte della sig.ra COGNOME, pur dopo la scadenza del contratto di locazione, in ragione del diverso titolo costituito dal comodato, sicché essa non poteva ritenersi tenuta all’ esecuzione di prestazioni aventi carattere risarcitorio.
A.1.e. Con il quinto sub-motivo del primo motivo del ricorso principale NOME COGNOME censura, per violazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., la statuizione con cui è stato condannato -in solido con NOME COGNOME e NOME COGNOME -alla rifusione, in favore di NOME COGNOME, delle spese di entrambi i gradi del giudizio di merito.
Il ricorrente principale sostiene che la Corte d’ appello avrebbe dovuto pronunciare la compensazione delle spese, ex art.92, secondo comma, cod. proc. civ., stante la « soccombenza reciproca parziale », ovvero la compensazione parziale, ponendo la restante parte a carico della convenuta.
Ciò, perché quasi tutte le domande da lui proposte sarebbero state accolte in primo grado, mentre in appello sarebbe stata rigettata unicamente quella diretta ad ottenere l’ indennità di occupazione illegittima, essendo cessata la materia del contendere sulla domanda di condanna alla ‘volturazione’ della licenza ed essendo stata « di fatto confermata in appello » la domanda di rilascio.
A.1.e.1. Il motivo è manifestamente infondato, atteso che la Corte d’appello ha accolto l’impugnazione di NOME COGNOME rigettando complessivamente, perché infondate, le domande proposte da
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NOME COGNOME, di cui ha pure dichiarato inammissibile l’ appello incidentale.
La Corte territoriale, dunque, ha correttamente condannato l’ appellato soccombente al rimborso delle spese processuali sostenute dall’ appellante vittoriosa, avuto riguardo all’esito complessivo della lite (Cass. 22/12/2009, n. 26985; Cass. 24/01/2017, n. 1775; Cass. 13/07/2020, n. 14916).
In definitiva il primo, articolato motivo del ricorso principale deve essere rigettato.
A.2. Con il secondo motivo viene denunciata, ai sensi dell’art.360 n. 4 cod. proc. civ., la nullità della specifica statuizione della sentenza impugnata con cui è stata dichiarata l’inammissibilità dell’ appello incidentale proposto da NOME COGNOME, per violazione degli artt.156, 160 e 330 cod. proc. civ..
A.2.1. Il motivo è inammissibile.
La Corte territoriale, rilevato che nel ricorso introduttivo del giudizio d ‘appello NOME COGNOME, pur avendo eletto domicilio fisico presso lo studio di un avvocato diverso dal proprio difensore, aveva invece eletto (distinto) domicilio digitale presso l’ indirizzo PEC di quest’ ultimo, ne ha tratto la conseguenza che fosse dunque radicalmente viziata (quale atto inesistente e insuscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo) la notificazione dell’atto contene nte la proposizione dell’appello incidentale da parte di NOME COGNOME all’indirizzo PEC del domiciliatario.
Questa statuizione (stando allo stralcio del ricorso in appello, trascritto in controricorso, ove si localizza tale atto processuale come quello recante il n.19 della documentazione depositata: p.36) è esatta sotto il profilo della ricostruzione del ‘fatto processuale ‘, soggetto al
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sindacato di questa Corte; ed è corretta in iure sotto il profilo delle implicazioni in ordine al vizio della notificazione, atteso che la notifica telematica di un provvedimento impugnabile non può essere effettuata presso il procuratore domiciliatario in senso fisico, in mancanza di elezione dell’indirizzo PEC dello stesso come domicilio digitale della parte, risultando una tale notifica inesistente ed insuscettibile di sanatoria per convalidazione oggettiva (Cass. 22/08/2018, n. 20946).
Il motivo va dunque dichiarato inammissibile non senza aggiungere, ad abundantiam , che, in ogni caso, la doglianza veicolata con l’appello incidentale -avendo ad oggetto la correzione dell ‘ indicazione del termine di scadenza del contratto di locazione e la misura dell’indennità di occupazione, rispettivamente individuate nella sentenza parziale e in quella definitiva emesse in primo grado -era destinata a restare assorbita dalla decisione di accoglimento dell’ appello principale e di consequenziale rigetto delle domande proposte da NOME COGNOME.
Non può sottacersi, infine -e ciò costituisce ulteriore ragione di inammissibilità del motivo in esame -, che il motivo è anche carente di interesse, in quanto la sentenza contiene espressa affermazione della scadenza esatta e in quanto l’eventuale limita tissima soccombenza nemmeno avrebbe potuto incidere sulla questione oggetto dell’ultimo sub-motivo del primo motivo.
A.3. Con il terzo motivo del ricorso principale viene denunciato, ai sensi dell’ art. 360 n. 5 cod. proc. civ., l’ omesso esame di fatto decisivo e controverso, per non avere il giudice d’appello considerato che « anche i beni aziendali (macchine, attrezzature, arredi, autorizzazioni ecc.) -e non solo il locale destinato all’ esercizio dell’attività
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commerciale di bar e gelateria in INDIRIZZO Cala Gonone INDIRIZZO Dorgali -, costituissero la comunione dei quattro NOME COGNOME ».
A.3.1. Il motivo è manifestamente infondato, posto che, tutt’ al contrario, la Corte territoriale, lungi dal non considerare questo fatto, lo ha posto a fondamento della statuizione diretta ed escludere il carattere illecito della perdurante detenzione di NOME COGNOME dopo la scadenza del contratto di locazione, interpretando il distinto contratto di comodato quale negozio, non solo privo di scadenza, ma avente ad oggetto l’intero complesso aziendale, e dunque costituente titolo valido ed efficace di attribuzione della detenzione dello stesso, in quanto proveniente dalla maggioranza (qualificata: ¾) dei partecipanti alla comunione.
In conclusione, il ricorso principale proposto da NOME COGNOME deve essere rigettato.
B.1. Con il primo motivo del ricorso incidentale, NOME COGNOME denuncia , ai sensi dell’art.360 n.4 cod. proc. civ., la violazione dell’art.112 cod. proc. civ, per omessa pronuncia della Corte d’appello sulla domanda di restituzione dell’immobile e dell’azienda, da lei proposta unitamente all’impugnazione delle sentenze del Tribunale, in esecuzione della prima delle quali i beni erano stati rilasciati nella disponibilità di NOME COGNOME.
B.2. Con il secondo motivo, la ricorrente incidentale, « per l’ipotesi in cui dovesse trovare accoglimento anche uno solo dei motivi proposti dal COGNOME », denuncia, ai sensi dell’art.360 n.3 cod. proc. civ., la violazione degli artt. 2697 cod. civ., 447bis e 414 cod. proc. civ., per avere la Corte di merito ritenuto sussistente la legittimazione processuale di NOME COGNOME quale erede di NOME COGNOME, sebbene egli non avesse prodotto alcuna documentazione per
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comprovare tale affermata qualità e sebbene la stessa fosse stata da lei contestata sin dalla originaria memoria di costituzione in giudizio.
B.3. Con il terzo motivo del ricorso incidentale, NOME COGNOME, sempre condizionatamente al l’ accoglimento del ricorso principale, denuncia, ai sensi dell’art. 360 n.4 cod. proc. civ., omessa pronuncia su specifiche eccezioni concernenti « l’ incidenza nella fattispecie concreta del carattere reale del comodato e del rilievo dell’intuitus personae con riguardo allo stesso tipo negoziale ».
B.3.1. Il ricorso incidentale è stato notificato (tardivamente) in data 23 ottobre 2020, dunque dopo la scadenza del termine di sei mesi previsto dall’art.327 cod. proc. civ., atteso che la sentenza d’appello, pubblicata in data 17 dicembre 2019 (e non notificata), avrebbe potuto essere impugnata con ricorso per cassazione (tenendo conto della sospensione feriale prevista dalla legge n. 742 del 1969 e di quella stabilita dai decreti-legge nn. 18 e 23 del 2020, convertiti, rispettivamente, dalle leggi nn. 27 e 40 del 2020: c.d. sospensione COVID) entro il 21 settembre 2020.
Rilevata la tardività del ricorso incidentale proposto da NOME COGNOME, deve nondimeno affermarsene l’ammissibilità ai sensi dell’art.334 cod. proc. civ., vertendosi in ipotesi di impugnazione incidentale tardiva di carattere oppositivo (ovverosia, di impugnazione proveniente dalla parte contro la quale è stata proposta l’impugnazione principale), non soggetta ai presupposti di ammissibilità (recentemente ridisegnati in senso ampliativo da Cass., Sez. Un., 28/03/2024, n.8486) fondati sulla necessaria sussistenza di un interesse distinto da quello che sorge dalla mera soccombenza e derivante dall’impugnazione altrui; presupposti cui invece è soggetta
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l’ impugnazione incidentale tardiva c.d. adesiva , e cioè fondata sui medesimi motivi dell’impugnazione principale .
Deve dunque dissentirsi dal precedente di questa stessa Sezione, secondo cui l’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva, anche di carattere oppositivo, sarebbe subordinata alla condizione che l’interesse a proporla sia innescato dall’impugnazione principale e non preesista, viceversa, a quest’ultima (Cass 28/07/2022, n. 23584).
B.3.2. Ciò posto in ordine all’ammissibilità del ricorso incidentale tardivo proposto da NOME COGNOME, quanto al merito di esso, mentre il secondo e il terzo motivo restano assorbiti dal rigetto del ricorso principale (in quanto condizionati al suo accoglimento), il primo motivo è invece fondato.
Al riguardo, la stessa sentenza impugnata dà atto, nella trascrizione delle conclusioni delle parti, che NOME COGNOME aveva proposto e mantenuto la domanda restitutoria, senza però provvedere su di essa.
Sussiste, dunque, con evidenza il denunciato vizio di omessa pronuncia.
C. In definitiva, deve essere rigettato il ricorso principale proposto da NOME COGNOME e devono dichiararsi assorbiti, per effetto di tale statuizione, i primi due motivi del ricorso incidentale tardivo proposto da NOME COGNOME.
Il terzo motivo di questo ricorso deve essere invece accolto, con rinvio della causa ad altra Sezione della Corte d’appello di Cagliari, comunque in diversa composizione, che provvederà sulla domanda di restituzione dell’immobile e dell’azienda, proposta da NOME COGNOME.
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Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità (art. 385, terzo comma, cod. proc. civ.).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale, accoglie il primo motivo del ricorso incidentale e dichiara assorbiti gli altri motivi di tale ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra Sezione della Corte d’appello di Cagliari, comunque in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione