Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 12258 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 12258 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 09/05/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 17682/2020 R.G. proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME -ricorrenti –
contro
COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME NOME COGNOME NOME
-controricorrente-
avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO CATANIA n. 473/2020 depositata il 24/02/2020.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/12/2024 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
1.NOME citò in giudizio innanzi al Tribunale di Gela NOME per chiedere di dichiarare aperta la successione della madre NOME e di disporre dei beni relitti sulla base del testamento olografo del 7.7.1988, che aveva confermato il testamento del 3.5.1988.
L’attrice espose che la de cuius , con un primo testamento del 3.5.88, aveva lasciato a lei ed alla sorella NOME, premorta in data 1.11.1993, l’immobile sito in Niscemi, INDIRIZZO ed al figlio NOME NOME l’immobile in Niscemi, INDIRIZZO nulla disponendo in ordine agli altri immobili di proprietà.
Successivamente, con altro testamento olografo del 10.5.1988, aveva nominato il figlio NOME NOME erede universale ma, con altro testamento olografo del 7.7.1988, la de cuius aveva annullato il testamento del 10.5.1988, confermando il primo testamento del 3.5.1988.
1.1. NOME NOME COGNOME si costituì per resistere alla domanda, sostenendo di essere erede universale di COGNOME NOME sulla base di un altro testamento del 25.12.1986 per notar NOME COGNOME sostenne che detta disposizione era stata confermata con il testamento del 10.5.1988.
1.2. Il Tribunale di Caltagirone, innanzi al quale la causa venne riassunta in seguito alla dichiarazione di incompetenza del Tribunale di Gela, dichiarò aperta la successione di COGNOME NOME sulla base dei testamenti del 7.7.1988 e del 3.5.1988.
Il Tribunale statuì che entrambi i figli erano eredi legittimi in parti uguali e qualificò le disposizioni testamentarie del 3 maggio 1988 come prelegati.
Con sentenza definitiva del 21-22 novembre 2012, il Tribunale dispose lo scioglimento della comunione ereditaria e l’attribuzione dei beni agli eredi, determinando i conguagli.
1.3. NOME COGNOME propose appello per chiedere di essere dichiarato erede universale, con condanna della sorella al pagamento dei frutti, con interessi e rivalutazione e chiese il rendimento dei conti della gestione dei beni ereditari di cui la predetta aveva avuto il possesso sine titulo . L’appellante dedusse che la madre era stata indotta da terzi alla redazione del secondo testamento, trovandosi in una situazione di assoluta dipendenza dalle figlie e che non aveva mai inteso annullare il primo testamento del 25.12.1986.
In sede d’appello, NOME COGNOME chiese la sospensione del giudizio di divisione, in attesa della definizione della causa pendente presso il tribunale di Caltagirone, con la quale aveva chiesto dichiararsi l’acquisito della proprietà per usucapione di alcuni immobili oggetto della divisione.
1.4. La Corte di Appello di Catania, con sentenza del 24.2.2020, rigettò l’istanza di sospensione del giudizio, affermando la mancanza di presupposti per la pregiudizialità del giudizio di usucapione ex art. 295 c.p.c., anche alla luce del principio di ragionevole durata del processo ex art. 111, comma 2, della Costituzione.
Nel merito, confermò che la successione andasse regolata secondo i testamenti del 7.7.1988 e del 3.5.1988, ritenuti validi ed efficaci, non essendoci prova dell’incapacità di intendere e di volere della de cuius , né che questa avesse subito violenza fisica o psicologica, come confermato dalle perizie, grafologica e medico-legale.
La Corte d’appello ritenne che il testamento del 25.12.1986, con il quale aveva nominato NOME COGNOME erede universale, non fosse
compatibile con la volontà espressa nell’ultimo testamento, che ritenne implicitamente revocato.
Per quel che ancora rileva in questa sede, la Corte di merito ritenne che l’appellante non avesse indicato i prelevamenti da effettuare sulla collazione per imputazione e dispose la divisione dell’asse relitto, calcolando il valore dei beni residui al momento della divisione.
Avverso tale decisione gli eredi di NOME COGNOME hanno proposto ricorso per cassazione articolato su otto motivi.
2.1. NOME ha resistito con controricorso.
2.2. La Sostituta Procuratrice Generale in persona della Dott.ssa NOME COGNOME ha chiesto il rigetto del ricorso.
2.3. In prossimità dell’udienza, il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Con il primo motivo di ricorso, si deduce l’erroneità della sentenza della Corte d’appello per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 295 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n.3 c.p.c. e per vizio di motivazione, per aver rigettato l’istanza di sospensione del presente giudizio in attesa del passaggio in giudicato della domanda di usucapione dal medesimo proposta e tuttora pendente. Il ricorrente sostiene che la prosecuzione del giudizio di divisione possa condurre ad un contrasto di giudicati in caso di accoglimento della domanda di usucapione in quanto tali beni sarebbero esclusi dalla massa ereditaria.
Il ricorrente ravvisa un’ipotesi di sospensione obbligatoria, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., che obbliga il giudice della causa pregiudicata di sospendere il giudizio in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice debba risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa.
1.1. Il motivo è infondato.
1.2. Va opportunamente rilevato che la problematica relativa al nesso di pregiudizialità tra cause ed alla sospensione del giudizio pregiudicato è stata oggetto di interventi da parte della giurisprudenza di questa Corte, che, dopo la risalente sentenza delle Sezioni Unite N. 2619/1975, è intervenuta con altre due pronunce, la sentenza N. 10027/2012, ribadita in parte qua con la sentenza delle Sezioni Unite N. 21763/21.
Recentemente, la Terza Sezione Civile, con ordinanza del 29.10.2024, n.27927 ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa alla distinzione, ai fini della sospensione del giudizio, tra pregiudiziale in senso logico (o punto pregiudiziale) e pregiudiziale in senso tecnico.
Nell’ordinanza di rimessione è richiamata la nozione di pregiudizialità logica, che consiste in circostanze che rientrano nel fatto costitutivo del diritto dedotto in causa, distinta dalla pregiudizialità in senso tecnico, consistente in ‘circostanze distinte e indipendenti dal fatto costitutivo che può dar luogo a un giudizio autonomo’.
La Corte remittente ha osservato che la distinzione dogmatica tra i due istituti, risalente al distinguo operato dalle Sezioni Unite con sentenza N. 2619/1975, si è rivelata inadeguata sul piano pratico, dando origine ad interpretazioni ondivaghe ed incostanti nella giurisprudenza anche di legittimità ed ha osservato che anche dal punto di vista teorico sia arduo spiegare come una questione possa, nello stesso tempo, essere ‘indipendente’ dal fatto costitutivo della domanda, ma costituirne un ‘presupposto giuridico’.
1.3. L’ordinanza di rimessione, ad avviso del collegio, non incide sulla soluzione giuridica da adottare nel caso in esame, in cui la domanda di usucapione è stata introdotta dal condividente mentre era pendente il giudizio d’appello della causa di divisione.
Orbene, il giudizio di divisione si compone di una fase dichiarativa, avente ad oggetto l’accertamento della comunione e del relativo diritto potestativo di chiederne lo scioglimento, e di una esecutiva, volta a trasformare in porzioni fisicamente individuate le quote ideali di comproprietà sul bene comune.
Con riferimento alla prima fase, infatti, l’ordinanza che, ai sensi dell’art. 785 c.p.c., disponga la divisione, al pari della sentenza che, in base all’ultimo inciso della menzionata disposizione, statuisca in maniera espressa sul diritto allo scioglimento della comunione, ancorché non possieda efficacia di giudicato, preclude un diverso accertamento in altra sede giudiziale, in quanto la non contestazione attribuisce all’esito finale del procedimento, che si concluda con l’ordinanza non impugnabile ex art. 789, comma 3, c.p.c., la medesima stabilità del giudicato sul diritto allo scioglimento della comunione pronunciato con sentenza (Cassazione civile sez. II, 07/02/2018, n.2951).
Il giudizio di divisione, pur potendo articolarsi in una molteplicità di fasi per la risoluzione delle varie controversie che possono sorgere tra i condividenti, presenta, tuttavia, un carattere unitario e nell’ambito di esso non possono essere riproposte questioni la decisione delle quali sia divenuta irrevocabile per l’esaurimento rispetto ad esse dei mezzi di impugnazione.
Costituisce tipicamente contestazione del diritto alla divisione, da risolvere con sentenza non definitiva, la deduzione con la quale uno dei condividenti neghi l’appartenenza alla massa di un singolo bene oggetto della domanda (Cass. n. 6960/1996).
Coerentemente con tale impostazione è stato precisato che il soggetto che vanti l’acquisto della proprietà di un bene immobile per usucapione non può, nel contempo, introdurre un giudizio per la
divisione del bene stesso, poiché la relativa domanda si pone in termini di assoluta incompatibilità con l’originaria pretesa di usucapione (Cass. n. 8815/1998).
Così come il compartecipe che si ritenga proprietario per usucapione di un bene in comunione non può iniziare il giudizio di divisione, parimenti, nel caso in cui sia convenuto da uno o più degli altri comproprietari, deve fare valere l’avvenuta usucapione in tale giudizio poiché la divisione, accertando i diritti delle parti sul presupposto di una comunione di beni indivisi, presuppone il riconoscimento dell’appartenenza delle cose in comunione; ove egli, al contrario, non contesti il diritto alla divisione di quel determinato cespite o resti contumace, non può opporre successivamente l’usucapione al condividente cui detto bene sia stato assegnato o al terzo aggiudicatario dello stesso in seguito a vendita all’incanto, salvo che non possa impugnare la divisione contestandone il presupposto e deducendo un titolo di possesso diverso da ogni altro che possa derivargli dalla disciolta comunione (Sez. 2 , Sentenza n. 15504 del 13/06/2018).
Tale orientamento può dirsi consolidato nella giurisprudenza di questa Corte e ribadito in modo chiaro e persuasivo da Cassazione civile sez. II, 02/04/2024, n.8641, che, pur affermando l’esistenza di un nesso di pregiudizialità-dipendenza in senso tecnico-giuridico tra il giudizio di usucapione e quello di divisione, ha richiamato gli approdi cui sono giunte le Sezioni Unite con sentenza N. 10027/2012, ribadita in parte qua dalla sentenza delle Sezioni Unite N.21763/21 e dall’ordinanza N. 9470/22.
In tali decisioni è stato affermato che la sospensione ex art. 295 c.p.c. della causa dipendente è necessaria fintanto che la causa pregiudicante penda in primo grado, mentre, una volta che questa sia
stata definita con sentenza non passata in giudicato, il giudice della causa dipendente può, alternativamente, scegliere di conformarsi alla predetta decisione, ovvero attendere la sua stabilizzazione con il passaggio in giudicato, attraverso, però, il ricorso all’esercizio del potere facoltativo di sospensione previsto dall’art. 337, comma 2, c.p.c., ovvero, ancora, decidere in senso difforme quando, sulla base di una ragionevole valutazione prognostica, ritenga che la sentenza emessa nella causa pregiudicante possa essere riformata o cassata.
Ne consegue che, mentre la sospensione del processo adottata ai sensi dell’art. 337, cpv. c.p.c. è suscettibile d’impugnazione mediante il regolamento di competenza, nei limiti specificati dai precedenti di questa Corte (Cass. N. 14146/2020; Cass. Civ. N. 16142/2015 e Cass. N. 23977/2010), non è altrettanto possibile impugnare – né col regolamento ex art. 42 c.p.c. né col ricorso ordinario per cassazione il diniego di tale sospensione, dato il suo carattere latamente facoltativo e l’applicabilità, in caso di contraddittorietà di giudicati, dell’art. 336, cpv. c.p.c.
Esse si pongono nella giusta ottica di limitare per quanto possibile i casi di applicazione dell’art. 295 c.p.c. per evitare l’enorme dilatazione della durata dei processi che la sospensione necessaria comporterebbe, e quindi, per assicurare, nella sua effettività, il principio della durata ragionevole del processo, nella specie di quello “pregiudicato”, esigenza alla quale contribuisce una razionale e mirata concezione dell’ambito e dei presupposti di operatività dell’art. 337 c.p.c., comma 2.
Fin tanto che la causa pregiudicante penderà in primo grado, la causa dipendente resterà comunque soggetta a sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c.
L’interpretazione di cui alla sentenza delle Sezioni Unite N. 10027/2012 ha cercato, pertanto, di coordinare la disciplina dell’art. 295 c.p.c. con le norme e i principi che hanno inciso sulla nuova impostazione del sistema processualcivilistico in generale, implicante la necessaria valorizzazione di un’interpretazione costituzionalmente orientata come imposta dalla diretta applicazione dell’art. 6 CEDU e dell’art. 111 Cost., commi 1 e 2.
Pertanto, salvi i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione normativa specifica, che richieda di attendere la pronuncia con efficacia di giudicato sulla causa pregiudicante, quando fra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità tecnica e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato non può ritenersi obbligatoria ai sensi dell’art. 295 c.p.c., ma può essere adottata, in via facoltativa, ai sensi dell’art. 337 c.p.c., comma 2, applicandosi, nel caso del sopravvenuto verificarsi di un conflitto tra giudicati, il disposto dell’art. 336 c.p.c., comma 2.
1.4. Applicando detti principi al caso di specie, è corretta la decisione della Corte d’appello, che ha rigettato la domanda di sospensione del giudizio di divisione in attesa del passaggio in giudicato della causa di usucapione, introdotta dal convenuto dopo la sentenza di primo grado.
2.Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 682 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n.3 c.p.c., nella parte in cui la Corte d’appello ha statuito che il testamento olografo del 7 luglio 1988 aveva implicitamente revocato l’istituzione di COGNOME NOME Guido quale erede universale, disposta dalla de cuius con il precedente testamento del 25 dicembre
1986, in contrasto con il principio di conservazione delle precedenti disposizioni.
2.1. Il motivo è infondato.
2.2. L’art. 682 c.c. afferma che il testamento posteriore, che non revoca in modo espresso i precedenti, annulla in questi soltanto le disposizioni che sono con esso incompatibili, sulla base del principio generale di conservazione delle disposizioni di ultima volontà.
Nell’ipotesi di più testamenti successivi, il posteriore, quando non revoca in modo espresso il precedente, annulla in questo solo le disposizioni incompatibili, in applicazione del generale principio di conservazione delle disposizioni di ultima volontà.
Fuori dall’ipotesi di revoca espressa di un testamento, può ricorrere un caso di incompatibilità oggettiva o intenzionale tra il testamento precedente e quello successivo; sussistendo la prima ipotesi allorché, indipendentemente da un intento di revoca, sia materialmente impossibile dare contemporanea esecuzione alle disposizioni contenute in entrambi gli atti, mentre si configura la seconda ipotesi quando, dal contenuto del testamento successivo, si evinca la volontà del testatore di revocare, in tutto o in parte, quello precedente e, dal raffronto del complesso delle disposizioni o di singole previsioni contenute nei due atti, si desuma che il contenuto della volontà più recente del testatore è inconciliabile con quanto risultante dall’atto antecedente. La relativa indagine, involgendo apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, non è censurabile in sede di legittimità, se non per vizio attinente alla motivazione (Cass. civ. N. 11587/17, Cass. N. 29875/23; Cassazione civile sez. II, 12/11/1983, n.6745).
2.3. Nel caso di specie la Corte d’Appello, con apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ha ritenuto che il testamento del 7 luglio 1988, che aveva revocato il testamento del 10 maggio 1988
(con cui era stato nominato NOME COGNOME erede universale), confermando quello del 3.5.1988 (con cui la de cuius disponeva dei propri beni in favore dei due figli), implicasse anche la revoca del precedente testamento del 25.12.1986 (con cui era stato istituito erede il figlio), essendo quest’ultimo incompatibile con le volontà espresse successivamente.
Tale plausibile interpretazione della volontà del testatore è stata tratta dalla disposizione contenuta nel testamento del 7/7/88, con cui la de cuius scrisse: ‘annullo il testamento rilasciato a mio figlio NOME scritto in un momento di depressione morale’, essendo chiaro che la sua volontà fosse quella di revocare l’istituzione di erede universale in favore del figlio.
Il terzo, quarto e quinto motivo di ricorso censurano, sotto vari profili, la sentenza della Corte d’appello nella parte in cui ha rigettato i motivi di impugnazione volti ad ottenere i prelevamenti dalla massa ereditaria di beni corrispondenti per natura e qualità a quelli donati dalla de cuius a NOME ed oggetto di collazione per imputazione.
3.1. In particolare, con il terzo motivo di ricorso, si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n.5 c.p.c., laddove la Corte d’appello ha affermato che NOME COGNOME non avrebbe indicato i beni oggetto dei prelevamenti.
3.2. Con il quarto motivo di ricorso si deduce l’omesso esame di uno e/o più fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n.5 c.p.c., nella parte in cui la sentenza della Corte d’appello ha affermato che COGNOME NOME COGNOME non aveva sollevato contestazioni specifiche avverso la
valutazione dei beni ereditari oggetto del progetto di divisione redatto dal CTU nominato dal Tribunale.
3.3. Con il quinto motivo di ricorso, si deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 724, 725, 726 e 747 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n.3 c.p.c., nella parte in cui la Corte d’appello ha rigettato il motivo d’appello e le correlative domande di COGNOME NOME COGNOME diretti ad ottenere i prelevamenti sulla collazione per imputazione dei beni ricevuti in donazione da NOME COGNOME ed ha rigettato, altresì, implicitamente l’istanza di CTU volta ad ottenere la stima dei beni oggetto di tali prelevamenti alla data della apertura della successione.
3.4. I motivi, che per la loro connessione vanno trattati congiuntamente, sono fondati.
3.5. A norma dell’art. 724 c.c., comma 1, i coeredi tenuti alla collazione conferiscono tutto ciò che è stato loro donato.
L’art. 725 c.c., nel disciplinare i prelevamenti, stabilisce che se i beni donati non sono conferiti in natura, gli altri eredi prelevano dalla massa ereditaria beni in proporzione delle loro rispettive quote.
L’art. 746 c.c., al comma 1, dispone che la collazione di un bene immobile si fa o col rendere il bene in natura o con l’imputarne il valore alla propria porzione, a scelta di chi conferisce.
La collazione per imputazione si fa avuto riguardo al valore dell’immobile al tempo della aperta successione (art. 747 c.c.).
3.6. Come costantemente affermato da questa Corte, la collazione per imputazione si differenzia da quella in natura per il fatto che i beni già oggetto di donazione rimangono di proprietà del medesimo donatario; sicché, ove il condividente abbia optato per la prima, la somma di denaro corrispondente al valore del bene donato, quale accertato con riferimento alla data di apertura della successione,
viene sin da quel momento a far parte della massa ereditaria in sostituzione del bene donato (Cassazione civile sez. II, 14/02/2022, n.4671; Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 9177 del 12/04/2018 Rv. 648226; Sez. 2, Sentenza n. 5659 del 20/03/2015 Rv. 634713; Sez. 2, Sentenza n. 25646 del 23/10/2008 Rv. 605509).
Sempre la giurisprudenza di questa Corte ha precisato che la collazione ereditaria costituisce, in entrambe le forme previste dalla legge – conferimento del bene in natura oppure per imputazione – uno strumento giuridico volto alla formazione della massa ereditaria da dividere al fine di assicurare, nei reciproci rapporti tra i coeredi condividenti, equilibrio e parità di trattamento, al fine di non alterare il rapporto di valore tra le rispettive quote, da determinarsi, in relazione alla misura del diritto di ciascun condividente, sulla base della sommatoria del relictum e del donatum al momento dell’apertura della successione, sì da garantire a ciascun condividente la possibilità di conseguire una quantità di beni proporzionata alla rispettiva quota.
La differenza tra i due tipi di collazione sta nel fatto che, mentre quella in natura si realizza in un’unica operazione per la quale si determina un effettivo incremento dei beni in comunione e da dividere, quella per imputazione viene attuata in due fasi, id est dapprima con l’addebito del valore del bene donato a carico della quota spettante all’erede donatario e, poi, con il prelevamento, ex art. 725 c.c., d’una corrispondente quantità di beni da parte degli eredi non donatari, in guisa che soltanto nella collazione per imputazione e non anche in quella in natura i beni già oggetto di donazione rimangono di proprietà del coerede donatario, il quale li può trattenere in forza della pregressa donazione, versando alla massa solo l’equivalente pecuniario.
In altri termini, la collazione per imputazione costituisce, di fatto, una fictio iuris , per effetto della quale il coerede che, a seguito di donazione operata in vita dal de cuius , abbia già anticipatamente ricevuto una parte dei beni a lui altrimenti destinati solo con l’apertura della successione, ha diritto a ricevere beni ereditari in misura ridotta rispetto agli altri coeredi, tenuto conto del valore di quanto precedentemente donatogli determinato al detto momento dell’apertura della successione, senza che i beni oggetto della collazione tornino materialmente e giuridicamente a far parte della massa ereditaria, incidendo i medesimi esclusivamente nel computo aritmetico delle quote da attribuire ai singoli coeredi secondo la misura del diritto di ciascuno (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 14553 del 30/07/2004 Rv. 575113).
I beni che i coeredi non donatari possono prelevare dalla massa ereditaria a seguito della collazione per imputazione effettuata dai coeredi donatari devono, pertanto, essere stimati per il valore che avevano all’epoca dell’apertura della successione e non già al momento della divisione, perché detti prelevamenti, pur costituendo una delle fasi in cui si attua la divisione, non si identificano con le operazioni divisionali vere e proprie, avendo, al pari della collazione, il prevalente scopo di assicurare la parità di trattamento fra coeredi donatari e coeredi non donatari (Cassazione civile sez. II, 03/05/2024, n.12068)
3.7.Tali principi non sono stati correttamente applicati dalla sentenza impugnata.
Una volta effettuata la collazione per imputazione dei beni donati dalla de cuius alla figlia NOME COGNOME e alienati dalla stessa, avrebbero dovuto essere effettuati i prelevamenti da parte del coerede non donatario.
La stima di detti prelevamenti andava effettuata con riferimento alla data dell’apertura della successione, mentre la Corte d’appello è incorsa nel duplice errore di non effettuare i prelevamenti e di valutare i beni residui facenti parte della massa ereditaria con riferimento al momento della divisione.
Mentre i beni conferiti in collazione per imputazione da NOME COGNOME sono stati correttamente stimati con riferimento al valore al momento dell’apertura della successione, la Corte d’appello ha omesso di effettuare i prelevamenti da parte del coerede non donatario con beni della stessa natura e qualità.
Detti prelevamenti, pur costituendo una delle fasi in cui si attua la divisione, non si identificano con le operazioni divisionali vere e proprie, avendo, al pari della collazione, il prevalente scopo di assicurare la parità di trattamento fra coeredi donatari e coeredi non donatari.
La decisione della Corte d’appello non ha evidentemente assicurato la par condicio tra gli eredi, risultato che viene raggiunto, in caso di collazione per imputazione, solo ove i prelevamenti avvengano con beni della stessa natura e qualità di quelli che non sono stati conferiti in natura.
La sentenza impugnata deve, pertanto essere cassata in relazione a tali motivi, con rinvio alla Corte d’appello di Catania, che si adeguerà al seguente principio di diritto:
‘La collazione per imputazione viene attuata in due fasi: dapprima con l’addebito del valore del bene donato a carico della quota spettante all’erede donatario e, poi, con il prelevamento, ex art. 725 c.c., d’una corrispondente quantità di beni da parte degli eredi non donatari’.
‘I beni che i coeredi non donatari possono prelevare dalla massa ereditaria a seguito della collazione per imputazione effettuata dai coeredi donatari devono essere stimati sulla base del valore che avevano all’epoca dell’apertura della successione e non già al momento della divisione’.
E’ assorbito il sesto motivo di ricorso, con il quale si deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n.4, c.p.c., per omessa pronuncia sulla domanda di condanna della Sig.ra COGNOME NOME a rendere il conto della gestione dei beni ereditari di cui avrebbe avuto il possesso sine titulo ed al pagamento della relativa fruttificazione.
Va, altresì, dichiarato assorbito l’ottavo motivo di ricorso, con cui si deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 96 e segg. c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n.3, c.p.c., nella parte relativa alla regolamentazione delle spese di lite.
Deve, invece, essere rigettato il settimo motivo di ricorso, con il quale si deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n.5, c.p.c., nonché la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 cod. civ., nonché dell’art. 24 Cost., in relazione all’art. 360, n.3, c.p.c., per avere la Corte d’appello rigettato la domanda del ricorrente diretta ad ottenere l’imputazione alla massa ereditaria relitta da COGNOME NOME dei beni mobili, di ingente valore, descritti nell’inventario prodotto dal ricorrente nel corso del giudizio di primo grado. In particolare, si deduce che la Corte d’appello non abbia tenuto conto che il Tribunale, nel rigettare la richiesta di prova per testi volta a confermare la presenza di detti beni mobili nell’abitazione della de cuius, avrebbe affermato che si trattava di circostanza non contestata.
6.1. La Corte d’appello, al fine della formazione della massa ereditaria della de cuius , ha preso in considerazione tutti i beni mobili rinvenuti nell’abitazione ed elencati dal CTU nel corso dei sopralluoghi, non potendo attribuirsi valore probatorio ai beni indicati nell’inventario dal ricorrente perché contestati da NOME COGNOME.
Nel giungere a tale conclusione la Corte d’appello non era certamente vincolata dall’ordinanza del Tribunale in ordine alle istanze istruttorie, né il ricorrente ha allegato in modo specifico l’atto processuale dal quale risultava che NOME non avesse contestato la circostanza della presenza di tali beni nell’abitazione della de cuius.
In definitiva, devono essere accolti il terzo, quarto e quinto motivo di ricorso, rigettati il primo, secondo e settimo e dichiarati assorbiti i restanti.
La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Corte d’appello di Catania in diversa composizione.
Il giudice di rinvio regolerà le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il terzo, quarto e quinto motivo di ricorso, rigetta il primo, il secondo ed il settimo e dichiara assorbiti i restanti, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Corte d’appello di Catania in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione