Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 16201 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 16201 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8905/2020 R.G. proposto da:
NOME, NOME, NOME, elettivamente domiciliate in ROMA INDIRIZZO PRESSO AVV NOME COGNOME, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che l e rappresenta e difende;
-ricorrenti- contro
NOME, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che l a rappresenta e difende;
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO ROMA n. 5228/2019 depositata il 01/08/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19/02/2025 dal Consigliere dr. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
RAGIONE_SOCIALE -Istituto di RAGIONE_SOCIALE evocava dinanzi al Tribunale di Roma NOME, NOME e NOME COGNOME per ottenere la risoluzione del contratto di vendita, stipulato a Matera il 31 ottobre 2000, assumendo l’inadempimento delle controparti rispetto al pagamento dei ratei di prezzo scaduti. A seguito della costituzione tardiva delle convenute, il giudice adito accoglieva la domanda e pronunziava la risoluzione del contratto.
In virtù di impugnazione delle soccombenti , la Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 5228, depositata il 1° agosto 2019, rigettava il gravame.
I giudici di secondo grado rilevavano la tardività delle eccezioni d’incompetenza territoriale e comunque l’infondatezza delle stesse, non vertendosi nelle ipotesi di inderogabilità di cui all’art. 28 c.p.c. Aggiungevano che la competenza del giudice ordinario sarebbe discesa dalla natura privatistica della causa petendi , aggiungendo che non sussistevano le condizioni per la risoluzione del contratto di compravendita per eccessiva onerosità sopravvenuta, né la clausola risolutiva espressa del contratto poteva essere qualificata come avente carattere vessatorio.
Ricorrono in cassazione NOME, NOME e NOME COGNOME sulla scorta di tre motivi.
Resiste RAGIONE_SOCIALE con controricorso.
In prossimità della presente udienza la controricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo le ricorrenti assumono la violazione e falsa applicazione dell’art. 1341 c.c. in relazione ai contratti redatti per atto pubblico , nonchè dei principi e delle norme in tema di negoziazione delle clausole vessatorie, ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.
La Corte di appello avrebbe erroneamente ricondotto il rilievo sull’art. 1341 c.c. alla derogabilità della competenza per territorio, senza considerare che il notaio aveva applicato uno schema negoziale preesistente, sulla scorta di regole già impostate inter partes . Conseguentemente, i giudici di secondo grado avevano omesso di indagare nel merito la volontà dei contraenti e dunque di applicare la regola sulla vessatorietà delle clausole previste nel contratto.
Il rilievo è in parte infondato ed in parte inammissibile.
La sentenza impugnata, compendiando i primi due motivi del gravame, ha rigettato l’eccezione di incompetenza territoriale, affermando che ‘ Nella fattispecie le convenute, dichiarate contumaci in primo grado all’udienza del 31 gennaio 2006, si sono costituite ben oltre l’udienza di trattazione, di conseguenza le eccezioni d’incompetenza territoriale, proposte con le rispettive comparse di costituzione e risposta, sono inammissibili in quanto tardive ‘ . Ha poi aggiunto: ‘ Per completezza si considera che le clausole inserite in un contratto stipulato per atto pubblico, ancorché si conformino alle condizioni poste da uno dei contraenti , non possono considerarsi come ‘predisposte’ dal contraente medesimo, ai sensi dell’art. 1341 c.c. e pertanto, pur se vessatorie, non necessitano di specifica approvazione ‘.
Secondo i consolidati principi di questa Suprema Corte, cui il Collegio intende dare continuità (cfr. Cass. n. 18041/2012), quando i contraenti fanno riferimento nell’atto pubblico alla specifica disciplina della competenza, la previsione di quella disciplina si intende conosciuta e approvata assumendo pertanto il valore di clausola concordata senza necessità di una specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341 cod. civ. (conf. Cass. n. 5578/2000; Cass. n. 23190 del 2020).
La sentenza impugnata, come sopra esposto, ha ritenuto che le acquirenti già al momento della sottoscrizione dell’atto notarile di vendita del 31.10.2000 fossero state rese edotte della clausola n. 15, con la quale era stabilita la competenza esclusiva del foro di Roma, salva la speciale giurisdizione di cui all’art. 26 c.p.c., per cui trattandosi di eccezione di incompetenza per territorio derogabile, per sollevarla utilmente avrebbe dovuto essere formulata tempestivamente nella comparsa di costituzione depositata fino alla prima udienza, mentre le convenute si erano costituite ben oltre l’udienza di trattazione. Una volta escluso, quindi, alla luce del principio di diritto sopra richiamato, che alla fattispecie fosse applicabile la disciplina di cui agli artt. 1341 e 1342 c.c. (e ciò in considerazione delle concrete modalità di fissazione del contenuto negoziale), il richiamo alla mancanza di indagine sulla reale volontà delle parti non si confronta con la ratio decidendi e mira piuttosto a ribadire l’accertamento della natura vessatoria della stessa, non più consentita in questa sede.
Con il secondo mezzo le COGNOME sostengono la violazione e falsa applicazione degli artt. 14 67 c.c., in relazione all’art. 1218 c.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., giacché la sentenza impugnata aveva respinto per mancanza di prova l’assunto che la prestazione a carico delle ricorrenti fosse divenuta temporaneamente impossibile, laddove le medesime avevano invece espletato compiutamente l’onere di allegazione e di prova dell’impossibilità sopravvenuta e della non imputabilità dell’inadempimento . In tal senso, la Corte territoriale non avrebbe provveduto ad esaminare il contenuto delle ragioni di gravame ed a fornire un’effettiva motivazione in ordine al criterio d’imputabilità della clausola, limitandosi a citare la consueta variazione dei prezzi di mercato dei prodotti agricoli.
Tale motivo si appalesa inammissibile.
Nel trattare il quarto motivo di appello, i giudici di secondo grado hanno rilevato la mancanza di prova circa la temporanea impossibilità ad adempiere. La doglianza delle ricorrenti è sostanzialmente volta a contestare l’insufficienza della motivazione.
Sennonché, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass., Sez. Un., n. 8053 del 7 aprile 2014; Cass., Sez. 1, n. 7090 del 3 marzo 2022).
La sentenza impugnata si pone ben al di sopra del minimo costituzionale.
In realtà, la doglianza si risolve in una critica alla ricostruzione dei fatti da parte del giudice di appello.
E’ dunque opportuno ricordare in proposito che la valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione, sicché rimane estranea al presente giudizio qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116, commi 1 e 2, c.p.c., in esito all’esame del materiale istruttorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito (Cass., Sez. Un., n. 20867 del 30 settembre 2020).
In punto di diritto, occorre aggiungere che il travisamento della prova, per essere censurabile in Cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c., postula: a) che l’errore del giudice di merito cada non sulla valutazione della prova (” demonstrandum “), ma sulla ricognizione del contenuto oggettivo della medesima (” demonstratum “), con
conseguente, assoluta impossibilità logica di ricavare, dagli elementi acquisiti al giudizio, i contenuti informativi che da essi il giudice di merito ha ritenuto di poter trarre; b) che tale contenuto abbia formato oggetto di discussione nel giudizio; c) che l’errore sia decisivo, in quanto la motivazione sarebbe stata necessariamente diversa se fosse stata correttamente fondata sui contenuti informativi che risultano oggettivamente dal materiale probatorio e che sono inequivocabilmente difformi da quelli erroneamente desunti dal giudice di merito; d) che il giudizio sulla diversità della decisione sia espresso non già in termini di possibilità, ma di assoluta certezza (Sez. 1, n. 9507 del 6 aprile 2023).
Le condizioni che precedono non ricorrono nel caso di specie.
In altri termini, la differente lettura delle risultanze istruttorie proposta dalle ricorrenti s’infrange contro il principio per il quale la doglianza non può tradursi in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass., Sez. Un., n. 24148 del 25 ottobre 2013).
È, in conclusione, inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass., Sez. Un., n. 34476 del 27 dicembre 2019; Cass., Sez. 1, n. 5987 del 4 marzo 2021).
Con il terzo motivo , ai sensi dell’art. 360 n n. 3 e 5 c.p.c., si censura l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti, riguardante la denunciata responsabilità precontrattuale dell’RAGIONE_SOCIALE anche ai sensi dell’art. 1175 c.c.
La Corte d’appello avrebbe dato per acquisito il comportamento di buona fede della controparte nella fase precontrattuale, senza verificarne la rispondenza ai canoni di correttezza usualmente adottati.
Anche tale mezzo d’impugnazione è inammissibile.
Le ricorrenti denunziano i vizi di cui all’ art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.
Orbene, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Cass., Sez. 1, n. 3340 del 5 febbraio 2019).
Inoltre, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Sez. U., n. 23745 del 28 ottobre 2020).
A tanto non hanno adempiuto le COGNOME.
D’altronde, con riguardo alla censura di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., l ‘esito dei giudizi di merito prospetta l’ipotesi di «doppia conforme», ai sensi dell’art. 360, comma 4° c.p.c., con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. La relativa declaratoria è imposta non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (Cass., Sez. 2, n. 7724 del 9 marzo 2022; Cass., Sez. 6-3, n. 15777 del 17 maggio 2022).
Al rigetto del ricorso consegue la condanna delle ricorrenti alla rifusione delle spese di lite della controricorrente, come liquidate in dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna NOME NOME e NOME COGNOME al pagamento delle spese processuali in favore di ISMEA liquidate in € 200,00 per esborsi ed in € 7.000.00 (settemila) per compenso, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15%.
Dà atto che sussistono i presupposti processuali per dichiarare che le ricorrenti sono tenute a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 115/2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, il