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Clausola risolutiva espressa: quando non è valida?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 710/2024, ha stabilito che un committente non può legittimamente avvalersi di una clausola risolutiva espressa per inadempimento dell’appaltatore se ha contribuito a causare il ritardo e se la risoluzione viene comunicata prima che sia maturato il periodo di ritardo minimo previsto dal contratto. Nel caso esaminato, il committente aveva ritardato la finalizzazione di un contratto di leasing necessario all’appaltatore e aveva poi concesso una proroga, rendendo illegittima la successiva e prematura attivazione della clausola.

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Clausola Risolutiva Espressa: Quando il Committente non Può Avvalersene?

La clausola risolutiva espressa rappresenta uno strumento fondamentale nei contratti per garantire una rapida risoluzione in caso di inadempimento di una specifica obbligazione. Tuttavia, il suo utilizzo non è privo di limiti. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha chiarito che il committente non può legittimamente attivare tale clausola se ha egli stesso contribuito al ritardo dell’appaltatore e se non rispetta le condizioni temporali previste dalla clausola stessa. Analizziamo insieme questo importante caso.

I Fatti di Causa: Un Complesso Contratto di Appalto e Leasing

La vicenda trae origine da un contratto di appalto per la progettazione e realizzazione di un grande impianto industriale. Per finanziare l’opera, la società committente aveva stipulato un contratto di leasing con un istituto finanziario. L’appaltatore, a sua volta, avrebbe ricevuto i pagamenti direttamente dalla società di leasing, secondo le tempistiche concordate.

Sono sorte delle contestazioni tra committente e appaltatore, culminate con la decisione del committente di avvalersi della clausola risolutiva espressa prevista nel contratto di appalto, dichiarandolo risolto per un presunto ritardo nella consegna dei lavori.

L’Uso della Clausola Risolutiva Espressa e la Riforma in Appello

Mentre il tribunale di primo grado aveva dato ragione al committente, la Corte d’Appello ha ribaltato la decisione. I giudici di secondo grado hanno accertato che il ritardo dell’appaltatore era in parte attribuibile al comportamento dello stesso committente, il quale aveva tardato a finalizzare il contratto di leasing e a versare il primo acconto. Questo ritardo iniziale aveva inevitabilmente posticipato l’avvio delle attività.

Inoltre, la Corte ha osservato che la clausola contrattuale permetteva la risoluzione solo per un ritardo superiore a sessanta giorni rispetto al termine di consegna. Il committente, tuttavia, aveva inviato una comunicazione con cui fissava una nuova data di consegna, concedendo di fatto una proroga. La successiva dichiarazione di risoluzione era però avvenuta prima che fossero trascorsi i sessanta giorni da questo nuovo termine, risultando quindi prematura e illegittima.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza d’appello, rigettando il ricorso del committente e fornendo chiarimenti cruciali sull’applicazione della clausola risolutiva espressa.

L’Inadempimento Reciproco e il Principio di Buona Fede

La Corte ha ribadito un principio fondamentale: una parte non può invocare l’inadempimento della controparte per risolvere il contratto se essa stessa non ha agito secondo buona fede e non ha adempiuto alle proprie obbligazioni. Nel caso specifico, il ritardo nel pagamento dell’acconto e nella definizione del leasing costituiva un inadempimento del committente che aveva reso più difficile la prestazione dell’appaltatore. Di conseguenza, il committente non era legittimato a sospendere l’esecuzione del contratto né tantomeno a risolverlo.

L’Interpretazione della Proroga e il Calcolo del Ritardo

Un punto centrale della decisione riguarda l’interpretazione della comunicazione con cui il committente aveva fissato una nuova data di consegna. La Cassazione ha confermato la lettura della Corte d’Appello: tale atto non era una semplice diffida, ma una vera e propria proroga del termine. Pertanto, il calcolo del ritardo di sessanta giorni, necessario per attivare la clausola risolutiva espressa, doveva iniziare a decorrere dalla nuova data. Poiché il committente ha dichiarato la risoluzione prima della scadenza di tale periodo, la sua azione è stata ritenuta illegittima.

Le Conclusioni

Questa sentenza offre importanti implicazioni pratiche per la redazione e la gestione dei contratti di appalto. Emerge chiaramente che l’attivazione di una clausola risolutiva espressa richiede non solo la prova dell’inadempimento della controparte, ma anche la dimostrazione della propria correttezza e del pieno rispetto delle condizioni previste dalla clausola stessa. Chi intende avvalersi di questo potente strumento di autotutela deve assicurarsi di aver adempiuto a tutti i propri obblighi e di agire solo quando i presupposti contrattuali, inclusi quelli temporali, siano pienamente maturati. Concedere proroghe o fissare nuovi termini può avere conseguenze significative sul diritto di risolvere il contratto.

È possibile invocare una clausola risolutiva espressa se anche la parte che la invoca è inadempiente?
No. La sentenza chiarisce che una parte non può legittimamente avvalersi della clausola risolutiva espressa se il proprio inadempimento (ad esempio, il ritardo nei pagamenti) ha contribuito al ritardo della controparte. L’applicazione della clausola presuppone un comportamento conforme a buona fede.

Una comunicazione che fissa un nuovo termine per la consegna dei lavori può essere considerata una proroga che incide sul calcolo del ritardo?
Sì. La Corte ha ritenuto che una lettera con cui il committente fissava una nuova data per la consegna dell’impianto costituisse una proroga del termine. Di conseguenza, il periodo di ritardo minimo richiesto dalla clausola risolutiva (in questo caso, 60 giorni) doveva essere calcolato a partire da questa nuova data.

Cosa succede se una parte si avvale di una clausola risolutiva espressa prima che si sia verificata la condizione prevista dalla clausola stessa?
La dichiarazione di risoluzione è illegittima e non produce effetti. Nel caso di specie, il contratto prevedeva un ritardo di almeno sessanta giorni per poter risolvere il contratto. Avendo il committente invocato la risoluzione prima che tale periodo fosse trascorso dal nuovo termine concesso, la sua azione è stata respinta.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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