Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 21163 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 21163 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 24/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1514/2021 R.G. proposto da: COGNOME NOMECOGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME NOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE IN LIQUIDAZIONE;
– intimata – avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA n. 1373/2020, depositata il 25/05/2020; udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 05/03/2025 dal
Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME proponeva opposizione al decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Bologna in favore della società RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE (‘T.I.E.’) per l’importo di €. 94.771,38 (oltre accessori e spese) a saldo dei lavori di ristrutturazione edilizia di un immobile sito in Minerbio, consistente in due porzioni immobiliari confinanti, una di proprietà dell’opponente per la quota del 53%, e l’altra di proprietà dei signori COGNOME e COGNOME per la quota del 47%.
1.1. La vicenda prende origine dalla necessità di interventi risanatori sull’intero fabbricato pericolante: i due comproprietari COGNOME e COGNOME avevano promosso azione di danno temuto ex art. 1172 cod. civ. nei confronti di NOME COGNOME. Il Tribunale di Bologna, con un’ordinanza cautelare del 05.06.2004, aveva disposto il risanamento strutturale dell’intero immobile, nominando una Direttrice dei Lavori (‘D.L.’) e CTU. COGNOME e i comproprietari, con contratto d’appalto sottoscritto in data 25.01.2006, avevano incaricato la RAGIONE_SOCIALE per l’esecuzione dei lavori, a saldo dei quali l’appaltatrice vantava il credito azionato nei confronti dell’opponente nella misura del 53% delle opere realizzate, quale terzo e quarto dei SAL licenziati e sottoscritti dalla D.L., invece regolarmente onorati dagli altri comproprietari per la quota del 47%.
1.2. A sostegno dell’opposizione COGNOME allegava, tra l’altro, che: in data 14.09.2007 aveva inviato alla ditta appaltatrice una diffida ad adempiere e, stante il mancato riscontro alla stessa, in data 09.10.2007 aveva comunicato alla T.I.E. e alla D.L. la volontà di avvalersi della clausola di risoluzione di diritto ex art. 33 del contratto ed ex art. 1456 cod. civ.; pertanto, non poteva essere tenuta al pagamento dei lavori eseguiti su espressa richiesta della D.L. successivamente all’intervenuta risoluzione contrattuale, con la quale si contestava la prosecuzione dei lavori sia in quanto esorbitanti rispetto a quanto previsto dall’ordinanza cautelare, sia perché in parte eseguiti senza alcun titolo abilitativo, poiché sarebbe stato realizzato
un aumento di superficie utile al frazionamento di due distinte unità immobiliari: opere per le quali si rendeva necessario ottenere un permesso di costruire
1.3. Istruita la causa mediante CTU, il Tribunale di Bologna accoglieva parzialmente l’opposizione: rigettava la domanda di risoluzione del contratto d’appalto per insussistenza dei presupposti dell’azione, ex art. 1668, comma 2, cod. civ., rilevando che i vizi di alcune opere, realizzate non a regola d’arte secondo il CTU, non configurassero la totale inidoneità dell’opera alla sua destinazione; detraeva i costi di ripristino quantificati in perizia dal credito complessivo fatto valere dall’opponente con il procedimento monitorio, condannava la COGNOME al saldo della differenza per l’importo di €. 67.037,66, oltre interessi legali dalla decisione al saldo.
Avverso la sentenza di prime cure proponeva appello NOME COGNOME TIE proponeva appello incidentale.
In parziale accoglimento di entrambi i gravami, la Corte d’Appello di Bologna, con sentenza n. 1373/2020, condannava NOME COGNOME al pagamento in favore di TIE della somma di €. 58.422,88, oltre IVA e interessi legali dalla data della domanda al saldo effettivo.
La suddetta pronuncia è impugnata per la cassazione da NOME COGNOME e il ricorso affidato a quattro motivi.
Resta intimata RAGIONE_SOCIALE in liquidazione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si deduce violazione/falsa applicazione degli artt. 1454, 1456 e 1668, comma 2, cod. civ. (art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ.) – omessa valutazione del contenuto della diffida ad adempiere del 14.09.2007. A giudizio della ricorrente, la Corte d’Appello avrebbe esaminato, confondendole, la previsione astratta di cui alla clausola risolutiva ex art. 33 del contratto d’appalto, con le
articolate e specifiche contestazioni contenute invece nella diffida ad adempiere del 14.09.2007.
1.1. Il motivo è infondato.
Sul punto oggetto di doglianza, la sentenza impugnata ha esposto i seguenti argomenti: i dedotti inadempimenti della ditta appaltatrice elencati nella diffida ad adempiere, posti a fondamento della pretesa applicazione della clausola risolutiva espressa, sono generici e rimasti del tutto sforniti di prova. In ogni caso, il generico riferimento dell’art. 33 del contratto d’appalto non già a specifiche obbligazioni, ma ad un vasto complesso di disposizioni in tema di sicurezza e salute dei lavoratori, rendeva necessario verificarne la gravità, correttamente esclusa dal giudice di prime cure stante la scarsa rilevanza delle dedotte inadempienze (v. sentenza p. 6, punto 15).
1.1.1. Ai fini della corretta configurazione della clausola risolutiva espressa, le parti devono aver previsto la risoluzione di diritto del contratto per effetto dell’inadempimento di «una o più obbligazioni specificamente determinate» nello stesso o in altro atto o documento, cui le parti abbiano fatto espresso riferimento (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 29675 del 19.11.2024; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 22725 del 11/08/2021; Sez. 2, Ordinanza n. 32681 del 12/12/2019; Sez. 6-1, Ordinanza n. 4796 del 11/03/2016; Sez. 3, Sentenza n. 1950 del 27/01/2009; Sez. 3, Sentenza n. 11055 del 26/07/2002; Sez. 3, Sentenza n. 5147 del 06/04/2001; Sez. 2, Sentenza n. 5169 del 02/06/1990; Sez. 3, Sentenza n. 3119 del 23/05/1985; Sez. 3, Sentenza n. 2491 del 01/08/1955).
La finalità della clausola risolutiva espressa si traduce, dunque, nell’attribuzione ai contraenti di una forma di autotutela privata che, tramite una convenzione intercorsa tra gli stessi, consenta loro di stabilire contrattualmente in quali specifiche ipotesi e al verificarsi di
quali dettagliati inadempimenti la parte che ne ha interesse, ovvero quella non inadempiente, possa decidere di procedere alla risoluzione di diritto del rapporto.
Pena l’inefficacia di tale clausola, che si riduce ad una clausola di stile, se redatta con generico riferimento alla violazione delle obbligazioni contenute nel contratto ovvero, come nel caso di specie, se riferita non a specifiche obbligazioni ma ad un vasto complesso di disposizioni in tema di sicurezza e salute dei lavoratori.
In tale ultimo caso, pertanto, l’inadempimento non può risolvere di diritto il contratto: come correttamente affermato nella pronuncia impugnata, di esso deve essere valutata l’importanza in relazione all ‘ economia del contratto stesso, non essendo sufficiente l’accertamento della sola colpa, come previsto, invece, in presenza di una clausola risolutiva espressa valida in quanto determinata.
1.1.2. Né si può correttamente fare riferimento, nel caso di specie, alla risoluzione di diritto discendente dalla diffida ad adempiere ex art. 1456 cod. civ., individuata in ricorso in una missiva del 14.09.2007, atteso che -in quanto volta a denunciare inadempienze – deve escludersi che essa possa essere intimata prima della scadenza del termine di esecuzione del contratto e al fine di giustificarne la risoluzione (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 361 del 08/01/2025, Rv. 673480 -01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15052 del 11/06/2018, Rv. 649073 – 01).
Con il secondo motivo si deduce violazione/falsa applicazione dell’art. 345 cod. proc. civ., in relazione alla ritenuta inammissibilità della domanda di risoluzione giudiziale del contratto d’appalto (art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ.). Osserva la ricorrente che l’efficacia risolutoria nell’appalto dei difetti rilevati in deroga alla disciplina stabilita in via generale in materia di inadempimento del
contratto, consente al committente di chiedere la risoluzione del contratto nel caso in cui i difetti dell’opera incidano in modo notevole sulla struttura e sulla funzionalità della stessa: ciò in analogia all’inosservanza di una diffida ad adempiere che può ritenersi implicita – in quanto di contenuto minore – nella domanda di risoluzione giudiziale. Da tanto deriva, conclude la ricorrente, l’errore della Corte bolognese nel ritenere in rito inammissibile la risoluzione giudiziale, anche ex art. 1668 cod. civ., che invece doveva essere ritenuta implicita nelle conclusioni per grave inadempimento, elevate sia in primo che in secondo grado dall’odierna ricorrente. Ne deriva prosegue la ricorrente l’erronea valutazione dell’omessa osservanza, da parte della ditta appaltatrice, delle prescrizioni antisismiche o afferenti al cemento armato ai sensi della legge n. 1086 del 1971, in quanto entrambe incidono in modo notevole sulla struttura dell’immobile e sono tali da renderl o del tutto inadatto all’uso, per l’ impossibilità di ottenere il certificato di abitabilità.
2.1. Il motivo si rivela inammissibile sotto due diversi profili.
2.1.1. Innanzitutto, la Corte territoriale ha escluso la possibilità di applicazione dell’art. 1668 cod. civ. , poiché ha accolto le risultanze della CTU in virtù delle quali l’opera nonostante l’individuazione di lavori necessari per renderla conforme alle regole dell’arte – non presentava difformità o vizi tali da renderla inidonea alla sua destinazione (v. sentenza p. 6, ultimo capoverso).
Il Collegio non ravvisa, in tale argomentazione, alcuna violazione di legge: si tratta di una valutazione di merito adeguatamente motivata e scevra da incongruenza logico-giuridiche, rispetto alla quale la doglianza si traduce in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea
alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. sez. 2, n. 19717 del 17.06.2022; Cass. Sez. 2, n. 21127 dell’08.08.2019).
2.1.2. Il secondo profilo di inammissibilità si rinviene nel fatto che, n el caso di specie il giudice dell’appello ha utilizzato due autonome rationes decidendi per ritenere inammissibile il gravame: da un lato, come detto, l ‘irrilevanza delle difformità e vi zi rispetto alla destinazione del fabbricato; dall’altro, la Corte territoriale ha ritenuto inammissibile la richiesta di risoluzione del contratto di appalto, perché formulata in via subordinata dall’appellante nelle conclusioni, senza che fosse mai assurta ad oggetto di specifico motivo di gravame (v. sentenza impugnata p. 7, primo capoverso).
Ritenuta infondata la censura sulla prima ratio ( supra , punto 2.1.1.) diventa inammissibile – per sopravvenuto difetto di interesse la censura contro la seconda ratio (ex multis, Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 11493 del 11/05/2018, Rv. 648023 -01; Cass. Sez. U, Sentenza n. 7931 del 29/03/2013, Rv. 625631 -01).
Con il terzo motivo si deduce violazione/falsa applicazione dell’art. 3, comma 2, L. 64/1974 e degli adempimenti previsti dal decreto attuativo D.M. Ministero LL. PP. 16.01.1996, nonché degli artt. 1 e 4, L. 1086/1971 (art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ.). A giudizio della ricorrente, la Corte territoriale ha violato le norme in epigrafe, facendo proprie le valutazioni contra legem rese dal CTU, anziché verificare la vigenza delle norme menzionate e, quindi, l’omessa effettuazione degli adempimenti antisismici ivi previsti, nonché il rispetto della normativa sulle opere eseguite in conglomerato cementizio armato, richiamata dal CTU ma da questi disapplicata.
3.1. Il terzo motivo si rivela in parte infondato, in parte inammissibile.
3.1.1. E’ infondato in quanto c orrettamente il giudice del merito ha avallato le risultanze della relazione della CTU, nella parte in cui ha escluso la vigenza delle norme antisismiche, entrate in vigore il 23.10.2005 avuto riguardo alla data di presentazione della DIA (10.08.2004) in o ttemperanza all’ordinanza cautelare, e non alla data di conclusione del contratto di appalto, il 25.01.2006.
3.1.2. E’ inammissibile con riferimento alla disapplicazione delle norme sulle opere di cemento armato: si tratta di una valutazione di merito effettuata sulla base delle risultanze della CTU, che ha ritenuto non applicabili alla ristrutturazione dell’immobile di cui è causa le norme tecniche e i calcoli di stabilità prescritti dall’art. 1, legge n. 1086/1981 con riferimento ai conglomerati cementizi armati (v. sentenza impugnata pp. 8-9, punto 20).
Con il quarto motivo si deduce l’erroneo computo dei corrispettivi per omesso esame del fatto decisivo dell’intervenuto pagamento di una fattura (art. 360, comma 1, n. 5) cod. proc. civ.). La ricorrente ribadisce l’avvenuto pagamento della fattura 24/2009 di €. 7.500,00, importo che, pertanto, andava detratto dal totale di €. 94.771,38: lamenta, infatti, il ricorso la non veritiera affermazione contenuta in sentenza riguardo un preteso importo maggiore (€. 35.927,44) della fattura 28/2009 emessa per €. 28.427,44, risultante dalla detrazione della somma saldata con fattura 24/2009.
4.1. Anche il quarto motivo è inammissibile, in quanto relativo alla valutazione dei fatti, estranea al giudizio di legittimità.
Sul punto, la Corte territoriale ha accolto la tesi sostenuta dall’appellata TIE in merito alla detrazione della somma di €. 7.500,00 dalla fattura 28/2009, in applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ., in quanto cioè non contestata dall’appellante nelle successive difese (v. sentenza impugnata p. 10, 1° capoverso).
5. In definitiva, il Collegio rigetta il ricorso.
Non si procede alla determinazione delle spese del presente giudizio non avendo la controparte svolto attività difensiva.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis , del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda