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Clausola risolutiva espressa: i limiti della buona fede

La Corte di Cassazione analizza un caso di mutuo fondiario, stabilendo che l’attivazione di una clausola risolutiva espressa da parte di una banca deve rispettare il principio di buona fede. Se il presupposto che giustifica la risoluzione viene meno per iniziativa del debitore, l’azione della banca può essere considerata illegittima. Tuttavia, ciò non esonera il debitore dal pagare le rate successive; un eventuale rifiuto del creditore deve essere contrastato con gli strumenti formali previsti dalla legge, come l’offerta reale, per non incorrere in inadempimento.

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Clausola Risolutiva Espressa: Quando la Buona Fede Limita il Potere della Banca

L’inserimento di una clausola risolutiva espressa in un contratto, specialmente in un mutuo, è una prassi comune che offre al creditore uno strumento rapido per tutelarsi in caso di inadempimento. Tuttavia, il suo esercizio non è incondizionato. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce che il principio di buona fede contrattuale agisce come un limite fondamentale, impedendo l’abuso di tale diritto da parte del creditore. Analizziamo questa importante decisione.

I Fatti di Causa

Una società stipula un contratto di mutuo fondiario con un istituto di credito per l’acquisto di un immobile. Il contratto contiene una clausola (l’art. 10) che prevede la risoluzione in caso di azioni esecutive o cautelari subite dalla società mutuataria che possano, a giudizio della banca, pregiudicare la sua capacità di rimborso.

Successivamente, un condominio avvia un’azione esecutiva contro la società, pignorando l’immobile ipotecato, a causa di un debito di modesta entità. Forte della clausola contrattuale, l’istituto di credito interviene nella procedura, dichiarando risolto il contratto di mutuo e pretendendo l’immediata restituzione dell’intera somma residua.

Nel frattempo, la società mutuataria agisce legalmente contro il condominio, ottenendo una transazione e, infine, una sentenza che dichiara l’inefficacia del titolo esecutivo del condominio. Di conseguenza, la procedura esecutiva viene estinta. A questo punto, il presupposto su cui la banca aveva fondato la risoluzione del contratto viene a mancare. Nonostante ciò, l’istituto di credito procede notificando un nuovo precetto, questa volta basato su una diversa clausola (l’art. 9), per il mancato pagamento di alcune rate maturate nel frattempo, e dichiarando nuovamente la risoluzione del contratto per morosità.

La Valutazione della Clausola Risolutiva Espressa nei Gradi di Merito

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno dato ragione alla società, dichiarando illegittima e inefficace la prima risoluzione operata dalla banca. I giudici di merito hanno qualificato la clausola come una clausola risolutiva espressa ai sensi dell’art. 1456 c.c. e non come una condizione risolutiva. Hanno poi sottolineato che l’esercizio di tale clausola deve essere sempre valutato alla luce del principio di buona fede.

Poiché l’azione esecutiva del condominio era stata successivamente dichiarata illegittima e rimossa grazie all’diligente attivazione della società mutuataria, la Corte d’Appello ha ritenuto che la banca avesse agito in modo contrario a buona fede, avvalendosi di un presupposto di fatto poi venuto meno. La risoluzione del contratto era stata quindi considerata priva di effetti.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte, investita del ricorso della banca, ha offerto una disamina dettagliata e chiarificatrice.

In primo luogo, ha confermato l’orientamento dei giudici di merito sulla necessità di valutare l’esercizio della clausola risolutiva espressa secondo buona fede. Anche se l’art. 1456 c.c. esonera il giudice dal valutare la gravità dell’inadempimento (poiché già predeterminata dalle parti), non esclude una valutazione sulla correttezza e lealtà del comportamento del creditore. La Corte ha stabilito che, essendo venuto meno il presupposto di fatto (l’azione esecutiva) che aveva legittimato l’attivazione della clausola, per di più a seguito di un comportamento attivo e diligente del debitore, la pretesa della banca di considerare il contratto risolto si configurava come un abuso del diritto. La prima risoluzione era, pertanto, illegittima.

In secondo luogo, la Corte ha affrontato la questione del mancato pagamento delle rate successive alla prima, illegittima, risoluzione. Su questo punto, la Cassazione ha ribaltato la decisione d’appello. Ha infatti richiamato un’altra propria ordinanza, passata in giudicato tra le stesse parti, che aveva già accertato l’inadempimento della società mutuataria. I giudici hanno chiarito un principio fondamentale: il comportamento ostruzionistico del creditore, che si rifiuta di ricevere i pagamenti, non libera automaticamente il debitore dalla sua obbligazione. Quest’ultimo, per non essere considerato inadempiente, ha l’onere di utilizzare gli strumenti previsti dalla legge, come l’offerta formale (o reale) della prestazione (artt. 1208 e ss. c.c.). Non avendolo fatto, la società era effettivamente morosa per le rate scadute e non pagate.

Di conseguenza, la seconda risoluzione, basata sulla morosità, era legittima, ma solo per le rate effettivamente scadute e non per l’intera somma del mutuo, non essendosi verificate le condizioni per la decadenza dal beneficio del termine.

Le Conclusioni

La Corte di Cassazione ha rigettato i motivi di ricorso relativi alla prima risoluzione, confermando che l’uso della clausola risolutiva espressa è subordinato al rispetto della buona fede. Tuttavia, ha accolto il motivo relativo all’inadempimento per le rate non pagate, cassando la sentenza impugnata su questo punto e rinviando la causa alla Corte d’Appello.

La decisione offre due importanti lezioni pratiche: per i creditori, il potere conferito da una clausola risolutiva non è assoluto e deve essere esercitato con correttezza; per i debitori, l’inerzia di fronte a un rifiuto illegittimo del pagamento da parte del creditore non è una scusante e può portare a un accertamento di inadempimento se non si attivano le procedure formali di offerta della prestazione.

Un creditore può sempre attivare una clausola risolutiva espressa quando si verifica l’evento previsto?
No. Secondo la Corte di Cassazione, l’esercizio del diritto di avvalersi della clausola risolutiva espressa è sempre soggetto al principio generale di buona fede e correttezza contrattuale. Se il creditore agisce in modo abusivo o se il presupposto dell’inadempimento viene meno, l’attivazione della clausola può essere dichiarata illegittima.

Cosa succede se l’evento che ha innescato la clausola risolutiva viene successivamente annullato o dichiarato inefficace?
Se l’evento (nel caso di specie, un pignoramento) viene meno a causa di un’azione del debitore che ne dimostra l’illegittimità, viene a mancare il presupposto di fatto che giustificava l’attivazione della clausola. Di conseguenza, la risoluzione del contratto operata dal creditore sulla base di quell’evento può essere considerata inefficace, in quanto il suo mantenimento sarebbe contrario a buona fede.

Se un creditore si rifiuta di accettare un pagamento, il debitore è giustificato a non pagare più?
No. Il semplice rifiuto del creditore non libera il debitore dal suo obbligo né lo esonera dalle conseguenze della mora. Per essere considerato adempiente, il debitore deve utilizzare gli strumenti legali a sua disposizione, come l’offerta formale o reale di pagamento. In assenza di tali procedure, il debitore rimane inadempiente per le rate scadute e non versate.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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