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Clausola risolutiva espressa e fallimento: la Cassazione

Un amministratore ha richiesto un credito nel fallimento della sua stessa società, basandosi sulla risoluzione automatica di un contratto di affitto d’azienda tramite una clausola risolutiva espressa. La Cassazione ha respinto il ricorso, stabilendo che la comunicazione che invoca la clausola, se priva di data certa anteriore al fallimento, non è opponibile alla procedura. Il ricorso è stato inoltre giudicato un tentativo inammissibile di riesaminare i fatti già accertati dal giudice di merito.

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Clausola risolutiva espressa: l’importanza della data certa nel fallimento

L’inserimento di una clausola risolutiva espressa in un contratto è una prassi comune per tutelarsi in caso di inadempimento. Ma cosa succede se una delle parti fallisce? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce i limiti di efficacia di tale clausola nei confronti della procedura fallimentare, sottolineando l’importanza cruciale della “data certa” e la distinzione tra questioni di diritto e accertamenti di fatto.

I fatti di causa

La vicenda riguarda l’amministratore di una S.r.l. che aveva stipulato con la stessa società un contratto di affitto d’azienda. Successivamente, la società è stata dichiarata fallita. L’amministratore ha quindi presentato una domanda di insinuazione al passivo fallimentare per circa 6.000 euro, sostenendo che tale somma gli fosse dovuta a titolo di restituzione dei canoni di affitto versati.

Secondo la sua tesi, il contratto si era risolto automaticamente a causa di una clausola risolutiva espressa. Questa prevedeva la fine del rapporto qualora fosse diventato impossibile, per ragioni indipendenti dalla volontà delle parti, ottenere le autorizzazioni amministrative necessarie per l’esercizio dell’attività. Tuttavia, sia il Giudice Delegato che il Tribunale in sede di opposizione avevano respinto la sua richiesta.

I giudici di merito hanno rilevato che non vi era prova dell’avvenuta risoluzione e, soprattutto, che la comunicazione con cui l’amministratore intendeva avvalersi della clausola era priva di data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento, rendendola così inopponibile alla curatela.

I motivi del ricorso in Cassazione

L’amministratore ha impugnato la decisione del Tribunale davanti alla Corte di Cassazione, articolando il suo ricorso su tre motivi principali:

1. Violazione del contraddittorio: Lamentava la mancata concessione di un termine per depositare note difensive in replica alle eccezioni sollevate dalla curatela fallimentare, tra cui una richiesta di compensazione con presunti controcrediti.
2. Falsa applicazione di legge (primo profilo): Sosteneva che il Tribunale avesse ignorato normative nazionali in materia sanitaria e commerciale che, a suo dire, avrebbero reso di per sé impossibile ottenere le autorizzazioni, attivando così la clausola risolutiva espressa.
3. Falsa applicazione di legge (secondo profilo): Affermava che anche le norme del Codice della Strada avrebbero impedito il subentro nelle licenze per l’uso degli automezzi aziendali, confermando l’impossibilità di proseguire l’attività.

Le motivazioni: perché la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso

La Suprema Corte ha rigettato tutti i motivi, dichiarando il ricorso inammissibile. Le motivazioni offrono spunti importanti sulla gestione della clausola risolutiva espressa e sui limiti del giudizio di legittimità.

Per quanto riguarda la presunta violazione del contraddittorio, la Corte ha ribadito che la concessione di termini per memorie ulteriori nel rito camerale è una facoltà discrezionale del giudice. Inoltre, il ricorrente non aveva dimostrato quale concreto pregiudizio avesse subito, soprattutto considerando che la sua domanda era stata respinta nel merito, senza che il Tribunale avesse nemmeno esaminato l’eccezione di compensazione della curatela.

Il cuore della decisione, però, risiede nella bocciatura del secondo e terzo motivo. La Cassazione ha spiegato che il ricorrente, sotto la veste di una denuncia di “violazione di legge”, stava in realtà tentando di ottenere un nuovo esame dei fatti, attività preclusa al giudice di legittimità. Il Tribunale aveva già accertato in fatto che:

* La dichiarazione di volersi avvalere della clausola era inopponibile al fallimento per mancanza di data certa.
* L’amministratore aveva di fatto continuato a gestire l’attività commerciale fino alla consegna dei beni al curatore.
* Non era stata fornita prova di aver richiesto le autorizzazioni e che queste fossero state negate.

In sostanza, il ricorrente non contestava un’errata interpretazione della legge da parte del Tribunale, ma l’accertamento fattuale compiuto dai giudici. Un tentativo, secondo la Corte, di confutare “l’accertamento del fatto rilevante ai fini della decisione” attraverso un’impropria denuncia di “error in iudicando”.

Conclusioni

Questa ordinanza ribadisce due principi fondamentali. Primo, l’efficacia di un atto, come la comunicazione di avvalersi di una clausola risolutiva espressa, nei confronti del fallimento è subordinata alla sua opponibilità, che richiede la prova della sua esistenza in un momento anteriore tramite la “data certa”. Secondo, il ricorso per Cassazione non può essere utilizzato come un terzo grado di giudizio per rimettere in discussione la valutazione delle prove e l’accertamento dei fatti compiuti nei gradi di merito. La Corte interviene per correggere errori di diritto, non per sostituire la propria valutazione a quella del giudice che ha esaminato direttamente il materiale probatorio.

Una clausola risolutiva espressa è sempre efficace in caso di fallimento di una delle parti?
No. Affinché la risoluzione del contratto sia opponibile al fallimento, la comunicazione con cui una parte dichiara di volersi avvalere della clausola deve avere “data certa” anteriore alla dichiarazione di fallimento. In assenza di tale requisito, la risoluzione non ha effetto nei confronti della massa dei creditori.

È possibile contestare in Cassazione la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di merito?
No. Il giudizio in Corte di Cassazione è un giudizio di legittimità, non di merito. La Corte valuta se i giudici dei gradi precedenti abbiano correttamente applicato le norme di diritto, ma non può riesaminare le prove o sostituire il proprio accertamento dei fatti a quello del tribunale. Usare un motivo di violazione di legge per contestare la ricostruzione fattuale rende il ricorso inammissibile.

La mancata concessione di un termine per repliche scritte rende nullo il procedimento?
Non necessariamente. Nel procedimento di opposizione allo stato passivo, la concessione di un termine per note di replica è discrezionale per il giudice. Per lamentare la nullità, il ricorrente deve dimostrare non solo la violazione di una norma processuale, ma anche di aver subito un concreto e specifico pregiudizio al proprio diritto di difesa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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