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Clausola risolutiva espressa e buona fede: il caso

Una società immobiliare ha citato in giudizio una promissaria acquirente per la risoluzione di un contratto preliminare, invocando una clausola risolutiva espressa per la mancata stipula del rogito. La Corte di Cassazione, confermando la decisione d’appello, ha respinto il ricorso. Ha stabilito che, anche in presenza di una clausola risolutiva espressa, il giudice deve valutare il comportamento delle parti secondo il principio di buona fede. La risoluzione non è automatica se la condotta della parte inadempiente, nel contesto generale del rapporto, appare conforme a tale principio.

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Clausola Risolutiva Espressa: Perché la Buona Fede Può Salvare il Contratto

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 20229/2024) ha riaffermato un principio cruciale in materia contrattuale: l’esistenza di una clausola risolutiva espressa non comporta necessariamente la fine automatica del rapporto in caso di inadempimento. La valutazione del comportamento delle parti secondo il canone della buona fede rimane un passaggio imprescindibile per il giudice. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I Fatti del Caso: Un Preliminare di Vendita Finito in Tribunale

La vicenda ha origine da un contratto preliminare di compravendita immobiliare stipulato nel lontano 1993. Una società costruttrice prometteva in vendita un appartamento a una signora, la quale riceveva immediatamente le chiavi dell’immobile.

Nonostante la consegna e il pagamento di una parte del prezzo, le parti non arrivavano mai alla stipula del contratto definitivo. Dopo anni di stallo, nel 2004, la società immobiliare decideva di agire in giudizio, chiedendo la risoluzione del contratto per inadempimento della promissaria acquirente. La società lamentava il rifiuto di quest’ultima di presentarsi davanti al notaio per il rogito e invocava l’applicazione di una clausola risolutiva espressa presente nel preliminare.

L’Iter Giudiziario: Dal Tribunale alla Cassazione

Il percorso legale è stato lungo e caratterizzato da decisioni contrastanti, a dimostrazione della complessità della questione.

La Decisione del Tribunale

In primo grado, il Tribunale accoglieva la domanda della società costruttrice. I giudici dichiaravano risolto il contratto, condannando la promissaria acquirente alla restituzione dell’immobile. La motivazione si basava sulla constatazione dell’inadempimento (mancata stipula del definitivo e pagamento solo parziale del prezzo) e sulla conseguente operatività della clausola risolutiva.

Il Ribaltamento in Corte d’Appello

La promissaria acquirente impugnava la sentenza. La Corte d’Appello ribaltava completamente la decisione di primo grado, rigettando le domande della società. Secondo i giudici d’appello, il comportamento della signora non poteva considerarsi colpevole. L’incertezza sul saldo prezzo ancora dovuto, le trattative intercorse tra le parti e la lunga tolleranza manifestata dalla stessa società venditrice per anni erano tutti elementi che deponevano a favore della buona fede dell’acquirente. Di conseguenza, non sussistevano i presupposti per la risoluzione del contratto.

La Clausola Risolutiva Espressa Sotto la Lente della Cassazione

La società immobiliare, non soddisfatta, proponeva ricorso per cassazione, sostenendo che la Corte d’Appello avesse errato nel non applicare l’automatismo previsto dall’art. 1456 del codice civile in presenza di una clausola risolutiva espressa. La tesi della ricorrente era semplice: una volta verificatosi l’inadempimento previsto dalla clausola (la mancata comparizione al rogito), il contratto doveva considerarsi risolto di diritto, senza ulteriori indagini sulla colpa o sulla buona fede.

Le Motivazioni

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la sentenza d’appello e fornendo importanti chiarimenti. I giudici supremi hanno ribadito che, sebbene la clausola risolutiva espressa sottragga al giudice la valutazione sulla gravità dell’inadempimento (poiché sono le parti stesse a predeterminarla), non lo esime dal valutare la condotta complessiva delle parti alla luce del principio di buona fede.

L’agire dei contraenti deve essere sempre improntato a correttezza e lealtà. Pertanto, la risoluzione può essere dichiarata solo se il comportamento dell’obbligato, oltre a integrare tecnicamente la violazione contrattuale, risulta anche contrario a buona fede. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la decisione dei giudici d’appello fosse ben motivata: l’incertezza sul saldo, le trattative in corso e la tolleranza del venditore rendevano il comportamento della promissaria acquirente non contrario al dovere di correttezza. Pertanto, l’invocazione della clausola da parte della società non era legittima.

Le Conclusioni

Questa ordinanza consolida un orientamento giurisprudenziale fondamentale: la clausola risolutiva espressa non è uno strumento che opera in modo cieco e meccanico. Il principio di buona fede funge da criterio di controllo sulla legittimità dell’esercizio del diritto di risolvere il contratto. Ciò significa che una parte non può invocare la risoluzione se il suo comportamento precedente ha ingenerato nell’altra parte un legittimo affidamento sulla prosecuzione del rapporto o se l’inadempimento, pur esistente, si inserisce in un contesto di complessiva correttezza e disponibilità della controparte.

L’attivazione di una clausola risolutiva espressa determina sempre la risoluzione automatica del contratto?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che il giudice deve comunque valutare il comportamento della parte inadempiente secondo il principio di buona fede. Se la condotta, pur integrando la violazione prevista dalla clausola, risulta conforme a buona fede, la risoluzione può non essere dichiarata.

In che modo la buona fede incide sulla valutazione dell’inadempimento in presenza di una clausola risolutiva espressa?
La buona fede agisce come un correttivo. Il giudice deve verificare se l’esercizio del diritto di risolvere il contratto sia legittimo e non abusivo. Nel caso specifico, la tolleranza mostrata per anni dal venditore e l’incertezza sul saldo del prezzo hanno fatto sì che la condotta della promissaria acquirente non fosse considerata contraria a buona fede, impedendo così la risoluzione.

Quali elementi ha considerato la Corte per affermare la buona fede della promissaria acquirente?
La Corte ha valorizzato la motivazione della sentenza d’appello, che si basava su: l’iniziale incertezza del saldo dovuto, le successive trattative tra le parti e la tolleranza mostrata per anni dalla società immobiliare riguardo alla stipula del contratto definitivo. Questi elementi hanno dimostrato l’assenza di un comportamento colpevole e contrario a correttezza da parte dell’acquirente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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