Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 20779 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 20779 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/07/2025
Oggetto
Locazione di immobile ─ Sfratto per morosità ─ Ritenuta insussistenza del presupposto della gravità dell’inadempimento in relazione alle limitazioni poste dalla normativa emergenziale di contenimento del contagio da Covid-19
NOME COGNOME
Presidente –
NOME COGNOME
Consigliere Rel. –
R.G.N. 7930/2024
NOME COGNOME
Consigliere –
Pasqualina A.P. COGNOME
Consigliere –
COGNOME
NOME COGNOME
Consigliere –
CC – 14/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7930/2024 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’ Avv. NOME COGNOME e dall’ Avv. NOME COGNOME domiciliata digitalmente ex lege ;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dagli Avv.ti COGNOME Seyssel e NOME COGNOME domiciliata digitalmente ex lege ;
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 216/2024, pubblicata l’8 febbraio 2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14 luglio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che:
con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Milano , in riforma della decisione di primo grado, ha dichiarato l’intervenuta risoluzione di diritto, ex art. 1456 c.c., del contratto di locazione intercorso tra le società RAGIONE_SOCIALE (locatrice) e RAGIONE_SOCIALE (conduttrice) in relazione ad immobile adibito ad attività di ristorazione, in forza della clausola risolutiva espressa prevista all’art. 14 del contratto; ha quindi condannato la RAGIONE_SOCIALE al rilascio dell’immobile oltre che al pagamento delle spese del grado d’appello;
a fondamento della decisione la Corte meneghina ha rilevato che:
-secondo pacifica giurisprudenza di legittimità, ove una parte si sia avvalsa, come nella specie, ai sensi dell’art. 1456 c.c., della clausola risolutiva espressa prevista in contratto, « il giudice -chiamato ad accertare l’avvenuta risoluzione del contratto per l’inadempimento convenzionalmente sanzionato non è tenuto ad effettuare alcuna indagine sulla gravità dell’inadempimento stesso, giacché, avendo le parti preventivamente valutato, non vi è più spazio per il giudice per un diverso apprezzamento » (Cass. ord. n. 29301 del 2019);
-non sussiste una norma di legge, emanata in periodo di emergenza pandemica, che attribuisca al giudice la facoltà di paralizzare l’operatività di clausole quale quella in esame in forza di mere ragioni di equità e tramite un’inammissibile sostituzione autoritativa alla volontà delle parti espressa all’atto della stipula del rapporto contrattuale;
-anche sotto il profilo della imputabilità dell’inadempimento, diversamente da quanto opinato dal primo giudice, l’inadempimento non poteva considerarsi giustificato dalle misure di contenimento del contagio da Covid-19 secondo quanto disposto dal l’art. 91 d.l. n. 18 del 2020, atteso che tale norma non era più in vigore nel momento in cui Matri ha comunicato a Belgioioso la propria volontà di risolvere
ipso iure il vincolo contrattuale e anche l’inadempimento si era concretizzatosi in epoca successiva, ovvero dal terzo trimestre del 2021 in avanti (essendo di fatto poi perdurato fino al novembre del 2022);
-peraltro, il legislatore, durante la pandemia, ha introdotto misure compensative per le attività commerciali, ma non ha escluso l’obbligo di pagamento del canone di locazione: la mera introduzione degli indicati meccanismi compensatori autorizza a ritenere che al locatario non sia dunque consentito né di sospendere il pagamento del canone, né di ridurne temporaneamente e unilateralmente l’ammontare, sulla base delle regole introdotte con la menzionata decretazione d’urgenza ;
-in base alla citata norma la sospensione del pagamento dei canoni di locazione può ritenersi giustificata solo fin tanto che l’impossibilità sopravvenuta perdura, ma non oltre: nel caso di specie, l’inadempimento di Belgioioso non può ritenersi correlato all’adozione di misure restrittive, non essendo conseguenza diretta o indiretta del loro rispetto ma essendosi al contrario protratto oltre la loro vigenza e fino al novembre del 2022;
-Belgioioso non ha nemmeno fornito, in ogni caso e per il periodo successivo, concreti elementi a dimostrazione della dedotta impossibilità di assolvere l’obbligazione di pagamento del canone su di essa gravante, tenuto conto del pacifico esercizio dell’attività di ristorazione e del fatto che l’omesso pagamento si è protratto fino al novembre del 2022 ed è avvenuto solo in giudizio a seguito della pronuncia da parte del Tribunale di ordinanza-ingiunzione ex art. 186ter c.p.c.;
-dai bilanci prodotti in atti e relativi agli anni 2021 e 2022 emerge come tali esercizi si fossero chiusi per la conduttrice ampiamente in attivo, circostanza del resto indirettamente desumibile dal fatto che nel novembre 2022 la stessa ha sanato in giudizio la
propria morosità versando l’ingente importo di Euro 270.000,00 in un’unica soluzione e dimostrando così di disporre di consistenti disponibilità liquide;
avverso tale decisione la RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione affidandolo a tre motivi, cui resiste la RAGIONE_SOCIALE depositando controricorso;
è stata fissata per la trattazione l’odierna adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ., con decreto del quale è stata data rituale comunicazione alle parti;
il Pubblico Ministero ha depositato, in data 4 giugno 2025, conclusioni scritte con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso;
entrambe le parti hanno depositato memorie;
considerato che:
con il primo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., « violazione e falsa applicazione dell’art. 91 del D.L. 18/2020 ‘Cura Italia’ in combinato disposto con gli artt. 1218 e 1256 c.c. »;
lamenta che la Corte d’ appello abbia erroneamente ritenuto inapplicabile l’art. 91 del d.l. n. 18 del 2020, per non essere riferibile anche agli inadempimenti successivi al 30 giugno 2021;
sostiene, di contro, che l’inadempimento contestato riguarda canoni del 2021, periodo in cui la norma era ancora applicabile e che la norma deve essere interpretata estensivamente, considerando gli effetti economici della pandemia protratti anche oltre il giugno 2021, e ciò alla luce della sua ratio che mira a mitigare le conseguenze economiche della pandemia e a favorire la conservazione dei contratti attraverso la rinegoziazione in buona fede;
con il secondo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione dell’art. 1456 c.c. e dell’art. 91 del d.l. n. 18 del 2020, per avere la Corte d’ appello applicato automaticamente la clausola risolutiva
espressa prevista dall’art. 1456 c.c., senza valutare l’imputabilità dell’inadempimento ;
sostiene che, anche in presenza di una clausola risolutiva espressa, il giudice avrebbe dovuto verificare la colpevolezza dell’inadempimento , come aveva fatto il primo giudice che aveva escluso l’applicabilità della clausola risolutiva espressa, considerando l’inadempimento non grave e giustificato dalla situazione pandemica ;
con il terzo motivo la ricorrente denuncia, infine, con riferimento all’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ., « omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ovvero la condotta delle parti sia nella fase stragiudiziale sia in corso di causa, presupposto necessario per valutare la sussistenza dell’elemento della buona fede, ex art. 1375 cod. civ. »;
rileva al riguardo che, mentre essa conduttrice aveva dimostrato buona fede attraverso pagamenti parziali e accordi per la cessione di crediti fiscali, nonostante le difficoltà economiche causate dalla pandemia, la locatrice, al contrario, aveva rifiutato ogni proposta conciliativa e aveva azionato la clausola risolutiva espressa senza considerare la situazione straordinaria;
i primi due motivi, congiuntamente esaminabili per la loro stretta connessione, sono infondati;
questa Corte con recente pronuncia (Cass. Sez. 3 Sentenza n. 16113 del 16/06/2025), ha affermato il principio (già più volte ribadito da successivi arresti: v. Cass. Sez. 3 Ordinanza 07/07/2025, n. 18535; Cass. Sez. 3 Ordinanza 08/07/2025, n. 18666) secondo cui « in tema di contratti ad esecuzione continuata, periodica o differita, l’art. 91, comma 1, del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. decreto ‘Cura Italia’), assume rilievo ai fini del giudizio di imputabilità dell’inadempimento nelle fattispecie di responsabilità contrattuale, attribuendo all’impedimento derivante dal rispetto delle misure anti -Covid la natura di impedimento non prevedibile né superabile con la
diligenza richiesta al debitore e quindi di causa non imputabile della inesecuzione della prestazione da parte sua, liberandolo dall’obbligo di risarcimento del danno ed escludendo la legittimazione della controparte all’azione di risoluzione per inadempimento ; dalla norma in questione, invece, non può farsi derivare l’esistenza di un diritto potestativo giudiziale di ottenere la riduzione della prestazione dovuta in esecuzione di un rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive e ad esecuzione continuata o periodica per effetto dell’incidenza su tale rapporto delle suddette misure restrittive anti-pandemiche, atteso che, stante il principio di tipicità dei rimedi giudiziali potestativi diretti a suscitare sentenze di carattere costitutivo (art. 2908 cod. civ.), un potere conservativo di riduzione ad equità della prestazione va riconosciuto alla parte eccessivamente onerata soltanto nell’ipotesi di contratto a titolo gratuito (art. 1468 cod. civ.), mentre, al di fuori di tale ipotesi, essa parte resta legittimata all’azione di risoluzione per eccesiva onerosità sopravvenuta, spettando in tal caso alla controparte che intenda evitare lo scioglimento del rapporto contrattuale un diritto potestativo di rettifica (da esercitarsi mediante negozio giuridico unilaterale e recettizio), analogo a quello previsto in tema di contratto annullabile per errore (art. 1432 cod. civ.) e di contratto rescindibile »;
nel caso di specie, evidentemente, è la prima parte di tale principio che viene in rilievo;
alla base della regola di giudizio che ivi è enunciata sta evidentemente una interpretazione della norma di cui all’art. 91, comma 1, del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, come introduttiva nell’ordinamento di una presunzione legale, iuris et de iure , in base alla quale « il rispetto delle misure di contenimento » è « sempre » valutato come idoneo a costituire ragione di impedimento non imputabile che, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., ha reso impossibile l’adempimento dell’obbligazione posta a carico di chi quelle misure è
tenuto a rispettare e che pertanto esclude la responsabilità che, altrimenti, ad ogni effetto, e dunque anche ai fini della risoluzione del contratto, sia pure essa discendente ipso iure dal dichiarato avvalimento di clausola risolutiva espressa, ex art. 1456 cod. civ., da quell’inadempimento deriverebbe;
tale interpretazione e il principio che in base ad essa è stato enunciato sono da questo Collegio condivisi e vanno ribaditi, in quanto pienamente coerenti con la ratio e la lettera della disposizione, secondo il cui chiaro disposto, invero -giova rimarcare -« il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti »;
è, però, evidente che una tale presunzione si giustifica, e anzi si impone, solo per il limitato periodo in cui le dette misure di contenimento hanno avuto applicazione, e dunque solo in relazione al periodo compreso tra marzo e maggio del 2020, non anche per il periodo successivo, quale è nella specie quello che viene in considerazione, essendo l’inadempimento contestato maturato solo a partire dal secondo trimestre del 2021, per poi protrarsi fino al novembre del 2022;
occorre al riguardo rimarcare che, contrariamente a quanto sembra postulare la ricorren te, le misure di contenimento cui l’art. 91 d.l. cit. fa riferimento sono (solo) quelle previste dall’art. 1 d.l. n. 6 del 2020 e si identificano con quelle più restrittive nelle quali si è concretizzato il c.d. lockdown ;
l’art. 91 d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, recita, infatti, testualmente al comma 1: « all’articolo 3 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, dopo il
comma 6, è inserito il seguente: ‘6 -bis . Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti »;
la scelta redazionale è, dunque, chiara nel senso che il riferimento al « presente decreto », quale sede delle misure di contenimento al cui rispetto occorre attribuire il rilievo di cui s’è detto, deve intendersi come rimandante al decreto-legge n. 6 del 2020 e non al d.l. n. 18 del 2020;
l’art. 91, comma 1, d.l. n. 18 del 2020 detta , infatti, la norma in questione usando la tecnica della novella di precedente testo normativo, di modo che la nuova norma diviene parte del preesistente corpo normativo: sul piano strettamente semantico, dunque, non può dubitarsi che l’aggettivo « presente » rimandi al corpo normativo all’interno del quale è inserita la frase che lo contiene, a nulla rilevando il fatto che esso vi sia stato solo successivamente inserito;
ebbene, il d.l. n. 6 del 2020 è stato abrogato, con effetto dal 24 maggio 2020, dall’art. 5 del d.l. 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35, ma le misure di contenimento in questione sono state sostanzialmente riprodotte nel medesimo d.l. n. 19;
tuttavia, a porre fine al c.d. lockdown , a decorrere dal 18 maggio 2020, è stato , con l’art. 1, il d.l. 16 maggio 2020, n. 33, convertito con modificazioni, dalla legge 14 luglio 2020, n. 74;
ne discende che l’efficacia della norma (ossia dell’art. 3, comma 6bis , del d.l. n. 6 del 2020, introdotto dall’art. 91 comma 1, d.l. n. 18 del 2020) e, quindi, la possibilità di invocarla e di applicarla da parte del giudice quale fonte di presunzione di non imputabilità del
debitore, ha riguardato gli inadempimenti verificatisi fino al 18 maggio 2020;
ciò precisato quanto alla individuazione del misure di contenimento cui fa riferimento la norma evocata di cui all’art. 91 d.l. n. 18 del 2020 ed al periodo di loro vigenza, occorre ora rimarcare che detta norma, nell’indicare come « sempre » dovuta la valutazione « ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore » del « rispetto delle misure di contenimento », se da un lato, come detto, introduce una presunzione legale di impossibilità ad adempiere per causa non imputabile nel periodo di vigenza di dette misure, dall’altro, implicitamente per ciò stesso affida invece ai normali parametri e criteri di valutazione il giudizio sulla responsabilità del debitore in relazione all’inadempimento maturato in altri periodi;
per questi ultimi, dunque, una tale valutazione non può più basarsi esclusivamente sulla considerazione delle misure di contenimento ma richiede anche l’emergenza di altri specifici elementi, nel contesto peraltro del rapporto sinallagmatico, ai fini della ponderazione, come detto necessaria, dell’in cidenza dell’inadempimento sugli interessi della parte non inadempiente (v. già in tal senso, in un caso analogo, Cass. n. 1341 del 12/01/2024);
né al riguardo può valere il richiamo al carattere notorio della crisi determinata anche dopo il periodo di chiusura (marzo/maggio) dalla emergenza Covid, trattandosi di nozione bensì di comune esperienza ma riferita ad una serie indeterminata di casi (e come tale anche evocato nella sentenza impugnata) che non autorizza univoche e sicure implicazioni probatorie anche in relazione allo specifico rapporto contrattuale in considerazione;
né costituisce elemento idoneo ad attribuire maggiore valenza inferenziale al detto elemento la correlata considerazione dell’attività svolta, in mancanza di alcun elemento oggettivo di conferma di una
sospensione dell’attività medesima in concreto svolta anche nei mesi successivi alla cessazione delle misure di contenimento ed anzi considerata la sussistenza, anche per ammissione della stessa ricorrente, di emergenze opposte;
la valutazione della fattispecie operata dalla Corte d’appello si appalesa pienamente conforme agli esposti principi, avendo evidenziato, da un lato, per le illustrate ragioni di carattere temporale, la non pertinenza del richiamo all’art. 91 d.l. cit. e per altro verso la sussistenza di una serie di elementi -succintamente riassunti nella parte narrativa della presente ordinanza -che in positivo escludono la possibilità di ascrivere l’inadempimento ad una oggettiva situazione di impossibilità non imputabile come tale idonea ad escludere la responsabilità del debitore anche a fronte di clausola risolutiva espressa;
al riguardo rilievo dirimente deve, in particolare, attribuirsi alla circostanza che la risoluzione di diritto è stata (correttamente) dichiarata sulla base di clausola risolutiva espressa fatta valere il 23 febbraio 2022 e con riguardo alla morosità verificatasi fino a quel momento;
le considerazioni che in senso opposto sono svolte in ricorso rivelano una consistenza prettamente meritale e oppositiva che le rende inidonee ad infirmare, sul piano logico e giuridico, tale valutazione;
il terzo motivo è inammissibile;
il vizio di omesso esame ex art. 360 n. 5 c.p.c. non è dedotto nei termini in cui la pacifica giurisprudenza di questa Corte lo dice deducibile;
oggetto del vizio di cui al novellato art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ., è infatti l’omesso esame circa un «fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti», dove per «fatto», secondo pacifica acquisizione, deve intendersi non una
«questione» o un «punto», ma: i) un vero e proprio «fatto», in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un «fatto» costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (cfr. Cass. n. 16655 del 2011; Cass. n. 7983 del 2014; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017); ii) un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico (cfr. Cass. n. 21152 del 2014; Cass. Sez. U. n. 5745 del 2015); iii) un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto (cfr. Cass. n. 5133 del 2014); iv) una vicenda la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali (cfr. Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014);
il «fatto» il cui esame sia stato omesso deve, inoltre, aver carattere «decisivo», vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia;
non costituiscono, viceversa, «fatti», il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: a) le argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015); b) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014); c) una moltitudine di fatti e circostanze, o il «vario insieme dei materiali di causa» (cfr. Cass. n. 21439 del 2015);
in manifesta violazione di tale paradigma con il motivo si richiede la considerazione del complessivo contegno delle parti prima e nel corso del giudizio, del quale peraltro non potrebbe comunque ravvisarsi la decisività ai fini del giudizio;
al fondo della doglianza vi è invero l’evocazione del criterio della
buona fede nella esecuzione del contratto, siccome in tesi idoneo a condurre ad escludere la sussistenza di un inadempimento imputabile;
la tesi è però destituita di fondamento;
il rilievo della buona fede non può mai giungere invero, in un rapporto sinallagmatico, a rendere esigibile -da una parte in favore dell’altr a -comportamenti di rinuncia o sacrificio dei diritti che da quel rapporto a quest’ultima derivano;
la clausola generale di buona fede impone, infatti, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali e da quanto espressamente stabilito da singole norme di legge; in virtù di questo principio ciascuna parte è tenuta, da un lato, ad adeguare il proprio comportamento in modo da salvaguardare l’utilità della controparte, e, dall’altro, a tollerare anche l’inadempimento della controparte , con il limite però che non pregiudichi in modo apprezzabile il proprio interesse;
la valutazione che in quest’ultimo senso è stata fatta dalla Corte d’appello appare congruamente motivata e resiste pertanto, anche sotto tale profilo, alle censure della ricorrente;
la memoria che, come detto, è stata depositata dalla ricorrente, ai sensi dell’art. 380 -bis.1 , primo comma, cod. proc. civ., reitera le tesi censorie già esposte in ricorso e non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi ;
il ricorso deve essere pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo;
va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente , ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1,
comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13;
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P .R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza