Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 7901 Anno 2024
ORDINANZA
sul ricorso 2738/2020 proposto da:
NOME COGNOME e NOME COGNOME, nella qualità di soci illimitatamente e solidalmente responsabili della cessata CEA di RAGIONE_SOCIALE, rappresentati e difesi dagli avvocati NOME COGNOME e COGNOME NOME
Pec:
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, già RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME
Pec:
Civile Ord. Sez. 3 Num. 7901 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/03/2024
avverso la sentenza n. 4575/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 18/11/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/11/2023 dal Cons. NOME COGNOME;
Rilevato che:
La società RAGIONE_SOCIALE (in seguito RAGIONE_SOCIALE) convenne in giudizio RAGIONE_SOCIALE (in seguito RAGIONE_SOCIALE) in cui si era fusa per incorporazione la RAGIONE_SOCIALE già Sanpaolo RAGIONE_SOCIALE, rappresentando di aver stipulato con quest’ultima un contratto di leasing immobiliare su un capannone da costruire e prendere in locazione per 120 mesi, di aver iniziato il rapporto di locazione e di aver comunicato in data 15/4/2014 alla concedente la propria volontà di recedere dal contratto e di riconsegnare l’immobile , previa restituzione, da parte della concedente ai sensi d ell’art. 1526 1° co. c.c., dei canoni versati al netto di un equo compenso di spettanza di RAGIONE_SOCIALE; la concedente, ricevuta la restituzione del bene ma non anche il pagamento delle rate residue dovute, si era avvalsa della clausola risolutiva espressa prevista in contratto ed aveva invitato la utilizzatrice a corrispondere i canoni rimasti insoluti; ciò premesso la CEA con citazione del 26/11/2014 convenne RAGIONE_SOCIALE davanti al Tribunale di Milano per sentirla condannare al pagamento di un importo corrispondente alla differenza tra il preteso arricchimento conseguito dalla concedente e il costo di costruzione dell’immobile; la convenuta, nel costituirsi in giudizio, eccepì l’erroneo riferimento all’art. 1526 c.c. in ragione della clausola penale presente in contratto che prevedeva il diritto della concedente a trattenere le rate riscosse; il Tribunale, disposto l’espletamento di
una CTU finalizzata ad accertare il valore dell’immobile alla data della riconsegna e l’equo compenso spettante a RAGIONE_SOCIALE, condannò quest’ultima a pagare in favore di NOME la somma di € 265.000,00 corrispondente alla differenza tra il valore di stima dell’immobile alla data della risoluzione e il credito residuo della concedente;
a seguito di appello di RAGIONE_SOCIALE che invocò, in particolare, la clausola penale contenuta in contratto e ritenne di nulla dovere a CEA fino a che l’immobile non fosse stato riallocato sul mercato , la Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 18/11/2019, ha accolto il gravame e per l’effetto ha respinto l’originaria domanda di CEA;
ha osservato che, non essendo prevista la possibilità del recesso della utilizzatrice, RAGIONE_SOCIALE aveva attivato la clausola risolutiva espressa in presenza di inadempimento della CEA; che le parti avevano individuato il controvalore della ricollocazione del bene nel prezzo conseguito da RAGIONE_SOCIALE e non nel valore di mercato; la corte del gravame ha ritenuto che l’appellata non avesse dato prova della colpevole negligenza della banca alla data di instaurazione del giudizio, mancando la prova che RAGIONE_SOCIALE avesse rinvenuto un acquirente del bene ad un prezzo corrispondente al valore di mercato ed ha, per l’effetto, ritenuto insussistenti i presupposti per la condanna della banca al pagamento della somma disposta dal giudice di primo grado, con il favore delle spese del doppio grado;
avverso la sentenza NOME COGNOME e NOME COGNOME, in qualità di soci illimitatamente solidalmente responsabili della cessata CEA di RAGIONE_SOCIALE, propongono ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi;
resiste RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE) con controricorso;
i ricorrenti depositano memoria ex art. 378 c.p.c.
Considerato che:
con il primo motivo -violazione e falsa applicazione di norme di diritto, insufficienza contraddittorietà e inadeguatezza della motivazione, violazione dell’art. 1526 1° co. c.c. in relazione all’art. 132 2° co. n. 4 e 360 1 co. nn. 3 e 5 c.p.c. -i ricorrenti lamentano che la corte del merito non ha applicato l’art. 1526 c.c., 1° co mma c.c. da loro invocato in ragione del consolidato indirizzo di questa Corte secondo cui, anche dopo l’introduzione della disciplina del leasing con l’art. 1, comma 136 L. n. 127 del 4/8/2017, la disposizione continua a trovare applicazione alla risoluzione anticipata del contratto di locazione finanziaria; lamentano altresì che la corte d’appello ha ritenuto coperta da giudicato la statuizione del giudice di prime cure sulla inapplicabilità dell’art. 1526, 1° co. affermando che la CEA ne aveva sempre chiesto l’applicazione sia in primo grado sia in appello;
il motivo è inammissibile;
occorre evidenziare che la sentenza impugnata (p. 2) ha condiviso la non applicabilità dell’art. 1526, 1° co. c.c. , già statuita dal Tribunale, in ragione della clausola penale prevista in contratto che, nel prevedere il diritto della concedente di ricevere il pagamento dei canoni maturati fino alla data di risoluzione, evidentemente presupponeva, in coerenza con l’art. 1526, 2° co. c.c. incompatibile con la previsione del comma precedente, il diritto della concedente a trattenere gli importi precedentemente versatile a titolo di canoni; ha ritenuto che sul punto fosse sceso il giudicato perché CEA non aveva impugnato la relativa statuizione del Tribunale. A fronte di questa ratio decidendi i ricorrenti si limitano ad affermare in modo apodittico (p. 6 del ricorso ) ‘non risponde al vero che in punto di inapplicabilità dell’art. 1526 1° co. c.c. la CEA non abbia sollevato contestazione alcuna: sia nella comparsa di costituzione e risposta sia negli atti conclusivi la CEA ha sempre ribadito l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 1526 1° co mma c.c. e in tutti gli atti ne ha invocato l’applicazione, ragion per cui non può essere intervenuto il giudicato su questo punto della controversia’;
la censura è del tutto generica e priva di autosufficienza ex art. 366 n. 6 c.p.c. in quanto non riproduce né localizza gli atti processuali dai quali poter desumere che, sulla inapplicabilità dell’art. 1526 c.c. , non fosse sceso il giudicato; la ricorrente, a fronte di una pronuncia che riteneva sceso il giudicato, avrebbe dovuto riprodurre il motivo di appello con cui aveva chiesto la riforma della sentenza di prime cure al fine di dimostrare per quali ragioni il giudicato non poteva dirsi sceso sul capo di sentenza c he aveva stigmatizzato l’inapplicabilità dell’art. 1526, 1 co. c.c.;
con il secondo motivo -violazione o falsa applicazione di norme di diritto, insufficienza, contraddittorietà e inadeguatezza della motivazione, violazione degli artt. 1382, 1384 c.c. in relazione agli art. 132, 2° co. n. 4 e 360, 1° co. nn. 3 e 5 c.p.c. -i ricorrenti lamentano che la corte del gravame ha confermato la non applicazione dell’art. 1526, 1° comma c.c. in forza della clausola penale presente in contratto che prevedeva la possibilità per il venditore di trattenere le rate pagate a titolo di indennità; detta penale avrebbe dovuto essere considerata manifestamente eccessiva e ridotta dal giudice di merito per evitare che la concedente potesse, nell’ipotesi di inadempimento dell’utilizzatore , godere di vantaggi maggiori di quelli che aveva diritto di attendersi dalla regolare esecuzione del contratto;
con il terzo motivo -violazione o falsa applicazione di norme di diritto, insufficienza contraddittorietà e inadeguatezza della motivazione violazione degli artt. 1355, 1526, 1 co. c.c. in relazione agli art. 132, 2° co. e 360, co. 1 n. 3 e 5 c.p.c. i ricorrenti impugnano il capo di sentenza che ha ritenuto non riconducibile la clausola penale negoziata dalle parti ad una condizione meramente potestativa di cui all’art. 1355 c.c. , come tale nulla; assumono che la clausola penale sarebbe invalida anche perché darebbe luogo ad una condizione meramente potestativa, cioè al potere della concedente di procedere
alla riallocazione del bene sul mercato in base alla propria sola volontà sia quanto alla scelta dei tempi sia quanto alla scelta dei modi;
il secondo e il terzo motivo, da trattarsi congiuntamente, sono inammissibili in quanto, prospettando la manifesta eccessività della clausola penale di cui all’art. 15 del contratto e la natura meramente potestativa della condizione con essa apposta al contratto, non riportano ai fini del rispetto dell’art. 366 n. 6 c.p.c., il testo della clausola così da non porre questa Corte neppure nella condizione di poter scrutinare la censura; si limitano a svolgere una valutazione di merito circa l’eccessività della penale e circa l’applicazione dell’art. 1355 c.c. che, invece, la corte del merito ha motivatamente escluso; né i motivi attingono la ratio decidendi secondo cui ‘non essendo revocabile in dubbio la sussistenza -anche in capo alla concedente al fine di scongiurare o ridimensionare il pericolo correlato all’inadempimento del soggetto utilizzatore di non potere conseguire l’utile che le sarebbe dovuto derivato dal contratto, pericolo vieppiù dimostrato dalla cessazi one dell’attività di CEA successivamente al la risoluzione di tale negozio giuridico- di un interesse a ricollocare il bene al maggior possibile prezzo, non sono rilevabili nella condizione in questione i profili di arbitrarietà della condotta del debitore’;
con il quarto motivo di ricorso -violazione e falsa applicazione di norme di diritto, insufficienza contraddittorietà e inadeguatezza della motivazione, violazione degli artt. 1375, 1526, 1° co. c.c. in relazione all’art. 360, 1° co. nn. 3 e 5 c.p.c. – lamentano che la corte del merito ha escluso la violazione da parte di RAGIONE_SOCIALE del principio di buona fede contrattuale;
il motivo è inammissibile perché la sua illustrazione non indica le parti della sentenza impugnata che si assumono errate e perché, nella stessa illustrazione del motivo, i ricorrenti prospettano due diverse categorie di vizi tra loro incompatibili ovvero il vizio di omessa pronuncia e il vizio di omessa motivazione incorrendo ancora una volta
nella aspecificità del motivo e dunque nell’inammissibilità dell ‘impugnazione;
alla prospettata inammissibilità di tutti i motivi consegue la declaratoria di inammissibilità del ricorso e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, in favore della parte controricorrente;
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Condanna i ricorrenti al pagamento, in solido, delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi € 6.200 ,00, di cui € 200 ,00 per esborsi, oltre a spese generali e accessori di legge, in favore della parte controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza