Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 14410 Anno 2024
ORDINANZA
sul ricorso 5564/2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona dell’Amministratore Unico e legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, in Roma, INDIRIZZO
Pec:
-ricorrente –
contro
CONDOMINIO DI INDIRIZZO, in persona dell’amministratore p.t, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME pec:
Civile Ord. Sez. 3 Num. 14410 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 23/05/2024
-controricorrente –
avverso la sentenza n. 2147/2020 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 24/08/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 1° febbraio 2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La società RAGIONE_SOCIALE, erogatrice di servizi termici di riscaldamento ambienti ed acqua per uso sanitario, allegando di aver stipulato con il RAGIONE_SOCIALE di INDIRIZZO in Milano un contratto di appalto e somministrazione di energia elettrica comprensivo del servizio di assistenza e manutenzione degli impianti per la durata di anni cinque con previsione di un corrispettivo annuo globale e che il RAGIONE_SOCIALE si era reso moroso per il mancato pagamento di una fattura relativa al saldo del corrispettivo pe r l’anno 2011 e per i maturati interessi di mora, lo convenne in giudizio davanti al Tribunale di Milano perché fosse condannato al pagamento di quanto rimasto insoluto sia a titolo di corrispettivo sia per interessi di mora;
il RAGIONE_SOCIALE contestò la debenza di entrambe le ragioni di credito, chiese di accertare la vessatorietà della clausola contrattuale relativa agli interessi per il caso di ritardato pagamento, dichiarò di aver saldato la fattura relativa all’ultimo corrispettivo dell’anno 2011 e chiese l’ammissione di una CTU volta ad accertare gli effettivi consumi di metri cubi di gas, e la quantità di megawatt prodotti, concludendo per il rigetto della domanda;
il Tribunale di Milano, rilevata la riconducibilità del RAGIONE_SOCIALE alla categoria dei consumatori e ritenuta vessatoria la clausola contrattuale relativa all’importo degli interessi di mora (9,25%) ai sensi dell’art. 33, lettera f del Codice del Consumo, negò la spettanza dei
suddetti interessi e ritenne, quanto alla fattura relativa ai corrispettivi, che la società attrice non avesse assolto all’onere della prova delle ragioni costitutive del proprio credito ; per l’effetto rigettò integralmente la domanda condannando l’attrice alle spese;
a seguito di appello di RAGIONE_SOCIALE la Corte d’Appello di Milano con sentenza n. 2147, pubblicata in data 24/8/2020, dato atto che il RAGIONE_SOCIALE aveva saldato ante causam il debito di cui alla fattura relativa al saldo del corrispettivo, realizzando pertanto il pagamento completo del servizio espletato per l’ultima stagione del rapporto contrattuale (2010-2011), peraltro dichiarando espressamente di farlo e dunque riconoscendone la debenza con valore confessorio, ha ritenuto parzialmente fondata la domanda relativa al pagamento degli interessi di mora; se infatti, in ragione dell’applicazione della disciplina consumeristica, la clausola contrattuale era da ritenersi nulla ai sensi dell’art. 33, primo comma lett. f) , d.lgs. n. 206 del 2005 perché d’importo manifestamente eccessivo, addirittura superiore a quello previsto dal d.lgs. n. 231 del 2002 per le transazioni commerciali, la corte territoriale ha ritenuto che, risultando accertata la debenza delle somme, peraltro già versate a saldo del corrispettivo contrattuale, il RAGIONE_SOCIALE era tenuto a pagare su di essa e su altre fatture gli interessi di mora per ritardato pagamento nella misura legale ai sensi dell’art. 1224, primo comma , c.c.; conseguentemente, in parziale accoglimento del gravame, ha dichiarato saldato il debito di cui alla fatture per corrispettivi, ha ritenuto fondata la domanda di pagamento degli interessi di mora al tasso legale ex art. 1224, primo comma, c.c., ha compensato per la metà le spese del doppio grado ponendo a carico del RAGIONE_SOCIALE la residua metà e le spese della CTU espletata in primo grado, ed ha ordinato al RAGIONE_SOCIALE di procedere alla restituzione di somme;
avverso la sentenza la società RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi;
resiste il INDIRIZZO con controricorso;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
con il primo motivo -error in procedendo; omessa pronunzia violazione dell’art. 112 in relazione all’art. 360, co. 1 n. 4 c.p.c. la ricorrente lamenta che la Corte del gravame ha omesso di pronunziare sulla domanda di condanna del RAGIONE_SOCIALE alla rifusione delle spese di CTU e di CTP sopportate dalla società RAGIONE_SOCIALE nel giudizio di primo grado nonostante essa si fosse sempre opposta all’ammissione della consulenza per irrilevanza, ai fini del decidere, dell’accertamento demandato al tecnico di valutare la quantità di metri cubi di gas in rapporto alla produzione di megawatt; lamenta la mancata pronuncia sulla richiesta di rimborso delle spese sostenute per la CTP;
il motivo è infondato perché la corte di merito, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, ha posto a carico del RAGIONE_SOCIALE le spese della CTU, in coerenza con la motivazione di irrilevanza dell’accertamento demandato al tecnico ai fini del decidere , ricomprendendo in essa evidentemente le sole spese che ha ritenuto ripetibili ed escludendo quelle di CTP non essendovi un obbligo specifico di provvedere su tutti i costi sostenuti; non vi è pertanto alcuna omessa pronuncia perché il giudice ha applicato l’art. 92, 1° comma c.p.c. secondo cui il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’art. 91, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; la decisione è conforme all’indirizzo di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, secondo cui, le spese per la consulenza tecnica di parte possono essere rimborsate, a meno che il giudice non ritenga di escluderle perché eccessive o
superflue; si legge, infatti, anche nella sentenza invocata dalla ricorrente (Cass., 2, n. 10173 del 2015) che le spese sostenute per la consulenza tecnica di parte, la quale ha natura di allegazione difensiva tecnica, rientrano tra quelle che la parte vittoriosa ha diritto di vedersi rimborsate, a meno che il giudice non si avvalga, ai sensi dell’art. 92, co. 1 c.p.c. della facoltà di escluderle dalla ripetizione, ritenendole eccessive o superflue (Cass. 3, n. 3380 del 20/2/2015; Cass., 2, n. 84 del 3/1/2013, Cass. 16-6-1990 n. 6056, Cass. 11-6-1980 n. 3716);
con il secondo motivo -error in procedendomotivazione apparente, violazione dell’art. 132 co. 2 n. 4 in relazione all’art. 360 co. 1 n. 4 c.p.c. -la ricorrente impugna il capo di sentenza che ha respinto, in applicazione della disciplina consumeristica, ed in assenza di prova della specifica trattativa sulla misura prevista, la domanda di condanna del condominio al pagamento degli interessi convenzionali di mora pattuiti nella misura del 9,25%; lamenta in particolare motivazione apparente per avere la corte territoriale svolto il raffronto tra la misura pattuita del 9,25 % e il tasso legale in vigore al momento della stipula del contratto del 2,5%, passato al 3% nel periodo 2008/2009, all’1% nel 2010 e all’1,5 % nel 2011, motivazione da un lato illogica in ragione del riferimento a tassi relativi ad anni successivi rispetto a quello della stipulazione del contratto , dall’altra apparente in quanto omette di considerare la possibilità , prevista all’art. 1284, 3° comma c.c., di applicare interessi in misura ultralegale, e la liceità del tasso se contenuto entro quello soglia, quale individuato dalla giurisprudenza di questa Corte;
con il terzo motivo di ricorso -violazione degli artt. 1224, 1284 3° comma e 1362 c.c. nonché falsa applicazione degli artt. 33 e 36 del Codice del Consumo in relazione all’art. 360, 1° co mma n. 3 c.p.c. violazione dei principi regolatori della materia elaborati da questa Corte
violazione dell’art. 2697 c.c. per inversione dell’onere della prova la ricorrente formula diverse censure; innanzitutto prospetta la violazione degli artt. 1224 e 1284 c.c. assumendo che la sentenza impugnata non abbia spiegato perché il tasso convenzionale del 9,25% pari a quello fissato per legge in materia di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali sia automaticamente usurario se previsto in un contratto tra professionista e consumatore; questa statuizione volta a consentire al giudice di merito una ampia discrezionalità sulla valutazione di ciò che le parti hanno pattuito, dando luogo, nell’interpretare cosa debba intendersi per eccessività del tasso, a soluzioni non univoche sul territorio nazionale, si porrebbe in contrasto con le indicate disposizioni ed in particolare con la possibilità di pattuire interessi in misura extralegale ove non usurari; la sentenza sarebbe difforme d all’insegnamento di questa Corte (Cass., S.U., n. 19597 del 18/9/2020) secondo cui gli interessi moratori svolgono una funzione perfettamente lecita né sono soggetti ad un giudizio di disvalore dovendo osservare il solo limite del superamento del tasso soglia; peraltro, ad avviso della ricorrente, la possibilità di applicare nei contratti conclusi con i consumatori la tutela prevista dagli artt. 33, comma 2, lett. f) e 36, comma 1, del d.lgs. n. 206 del 2005 (codice del consumo), essendo rimessa all’interessato la scelta di far valere l’uno o l’altro rimedio, non implicherebbe la liceità tout court della mancata verifica del superamento del tasso soglia ai fini della normativa antiusura; inoltre la sentenza sarebbe da censurare nella parte in cui ha violato l’art. 2697 c.c., omettendo di richiedere al debitore, che deduca l’entità eccessiva degli interessi moratori , l’onere di dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale, il tasso moratorio in concreto applicato, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato con tutti gli altri elementi contenuti nel D.M. di riferimento; neppure nel caso in esame sarebbe stata allegata la mancanza di una
autorizzazione dell’assemblea del condominio all’amministratore di stipulare contratti con interessi superiori alla misura legale;
il secondo e il terzo motivo, da trattare congiuntamente per ragioni di connessione, e contenenti più censure, sono infondati;
là dove ha affermato essere nella specie applicabile la disciplina del Codice del Consumo, svolgendo un confronto tra il tasso pattuito e quello legale, la corte di merito ha invero posto a base dell’impugnata sentenza una congrua motivazione, del tutto in linea con le previsioni normative e con l’orientamento interpretativo di questa Corte; va anzitutto evidenziato che la disciplina applicabile alla fattispecie è quella di cui all’ art. 33, comma 2 lettera f), d.lgs. n. 206 del 2005 secondo cui è vessatoria la clausola che impone al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente di importo manifestamente eccessivo;
la scelta del giudice del merito della disciplina applicabile è conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui ‘Al contratto concluso con un professionista da un amministratore di condominio, ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, si applica la disciplina di tutela del consumatore, agendo l’amministratore stesso come mandatario con rappresentanza dei singoli condomini, i quali devono essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale ‘ (Cass., 6 -2, n. 10679 del 22/5/2015; Cass., 3, n. 10086 del 24/7/2001);
atteso che la scelta della normativa applicabile è, oltre che legittima, in linea con l’orientamento di questa Corte, va ulteriormente sottolineato che la valutazione, con confronto tra il tasso pattuito e quello legale, se la clausola pattuita a titolo di penale o ad altro titolo
equivalente dia luogo ad un importo manifestamente eccessivo a carico del consumatore per l’ipotesi di inadempimento o di ritardo nell’adempimento in quanto pari e, nel corso del rapporto divenuto addirittura superiore a quello previsto dal d.lgs. n. 231 del 2002 per le transazioni commerciali tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni (fattispecie ben differenti da quelle in cui è parte contrattuale un soggetto a favore del quale opera la disciplina di tutela del consumatore), è stato nella specie dai giudici di merito effettuato nel compiuto esercizio dei poteri ad essi spettanti, dandone altresì congrua motivazione;
del pari infondato è il preteso contrasto tra la decisione in scrutinio e la pronuncia Cass., S.U. n. 19597 del 2020 in materia di interessi usurari, con eccessiva ingerenza da parte del giudice sul potere dei privati di disporre dei propri interessi, dedotti dalla ricorrente;
per quel che riguarda la giurisprudenza in tema di interessi usurari è sufficiente rilevare che non sussiste alcun contrasto con la sentenza sia perché essa si occupa del superamento del tasso soglia ai fini della normativa antiusura, sia perché, in ogni caso, quella stessa pronuncia prevede che, nei contratti conclusi con i consumatori, è altresì applicabile la tutela prevista dagli artt. 33, comma 2, lett. f), e 36, comma 1, d.lgs. n. 206 del 2005 (Codice del consumo), essendo rimessa all’interessato la scelta di far valere l’uno o l’altro rimedio (come dallo stesso ricorrente ammesso: v. pag. 18 del ricorso ), in conformità a quanto affermato anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea , che ha avuto modo di porre in rilievo come il sistema nazionale che riduca entro una soglia ritenuta lecita il tasso eccessivo degli interessi moratori non deve comunque precludere al giudice, in caso di contratto dei consumatori, la facoltà di ritenere la
clausola abusiva, con conseguente relativa eliminazione ex art. 6 Direttiva 93/13 (Corte di Giustizia 21 gennaio 2015, C-482/13, C484/13; C-485/13 e C -487/13);
infondata è altresì la tesi dell’ illegittima interferenza nel potere dispositivo delle parti, con il conseguente rischio di arbitrio nella valutazione della eccessività della clausola penale, in quanto è lo stesso legislatore ad attribuire alla giurisprudenza il compito di dare contenuto alle clausole generali in conformità al sentire sociale, a tale stregua determinando la regola effettiva del momento storico dato, e i giudici del merito nella specie, nel componimento dei diversi interessi delle parti contrattuali, hanno esercitato il potere ad essi spettante in conformità all’orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui le finalità di tutela del consumatore quale parte debole del contratto sono idoneamente salvaguardate ( oltre che da quella altra e diversa, ma concorrente- ex artt. 1341 e 1342 c.c., relativa a contratti unilateralmente predisposti da un contraente in base a moduli o formulari in vista dell’utilizzazione per una serie indefinita di rapporti: v. Cass., 8/7/2015, n. 14288; Cass., 20/3/2010, n. 6802 ) dalla disciplina sulle clausole abusive dettata nel Codice del consumo , che può invero riguardare anche il singolo rapporto, ed è funzionalmente volta a tutelare il consumatore a fronte dell ‘ unilaterale predisposizione ed imposizione del contenuto contrattuale da parte del professionista, quale possibile fonte di abuso, sostanziantesi nella preclusione per il consumatore della possibilità di esplicare la propria autonomia contrattuale nella sua fondamentale espressione rappresentata dalla libertà di determinazione del contenuto del contratto. Con conseguente alterazione, su un piano non già solamente economico, della posizione paritaria delle parti contrattuali idoneo a
ridondare, mediante l’imposizione del regolamento negoziale unilateralmente predisposto, sul piano dell’abusivo assoggettamento di una di esse (l’aderente) al potere (anche solo di mero fatto) dell’altra (il predisponente) ( v. Cass., 26/9/2008, n. 24262 ).
Evidente è infatti come, sia mediante la unilaterale predisposizione di moduli o formulari in vista dell’utilizzazione per una serie indefinita di rapporti sia in occasione della stipulazione di un singolo contratto redatto per uno specifico affare, mediante l’unilaterale predisposizione ed imposizione del relativo contenuto negoziale il professionista può invero affermare la propria autorità (di fatto) contrattuale sul consumatore.
La lesione dell’autonomia privata del consumatore, riguardata sotto il segnalato particolare aspetto della libertà di determinazione del contenuto dell’accordo, fonda allora sia nell’una che nell’altra ipotesi l’applicazione della disciplina di protezione in argomento (v. Cass., 20/3/2010, n. 6802).
Nel che si coglie la pregnanza e la specificità del relativo portato.
A precludere l’applicabilità della disciplina di tutela del consumatore in argomento si è da questa Corte precisato essere invero necessario che ricorra il presupposto oggettivo della trattativa ex art. 34, comma 4, d.lgs. n. 206 del 2005, (v. Cass., 8/7/2015, n. 14288; Cass., 20/3/2010, n. 6802; Cass., 26/9/2008, n. 24262), la cui sussistenza è pertanto da considerarsi un prius logico rispetto alla verifica della sussistenza del significativo squilibrio in cui riposa l’abusività della clausola o del contratto (v. Cass., 8/7/2015, n. 14288; Cass., 17 20/3/2010, n. 6802; Cass., 26/9/2008, n. 24262. Cfr. altresì Cass., 28/6/2005, n. 13890), spettando al “professionista” dare la prova del fatto positivo del prodromico svolgimento di una trattativa dotata dei caratteri essenziali suoi propri, quale fatto impeditivo della
relativa applicazione ( v. Cass., 15/10/2019, n. 25914; Cass., 20/8/2010, n. 18785; Cass., 20/3/2010, n. 6802; Cass., 26/9/2008, n. 24262 ).
Si è al riguardo sottolineato ( v. Cass., 15/10/2019, n. 25914 ) che in presenza di accordo frutto (in tutto o in parte) di trattativa, l’accertamento giudiziale in ordine all’abusività delle clausole contrattuali rimane viceversa ( in tutto o in parte) precluso, quand’anche l’assetto di interessi realizzato dalle parti risulti significativamente squilibrato a danno del consumatore, la preclusione discendendo in tal caso non già dalla non vessatorietà della clausola, o del contratto fatti oggetto di specifica trattativa, bensì dalla inconfigurabilità della loro unilaterale predisposizione ed imposizione, quali (possibili) fonti di abuso nella vicenda di formazione del contratto ( v. Cass., 8/7/2015, n. 14288; Cass., 20/3/2010, n. 6802; Cass., 26/9/2008, n. 24262 ); e che per potersi considerare preclusa l’applicazione della disciplina di tutela del consumatore in questione la trattativa deve non solo essersi storicamente svolta ma altresì risultare caratterizzata dai requisiti della individualità, serietà, effettività (v. Cass., 26/9/2008, n. 24262), l’esclusione dell’applicazione della disciplina di protezione in questione essendo consentita con esclusivo riferimento a quelle clausole che abbiano costituito singolarmente oggetto di specifica trattativa, seria ed effettiva, mentre la restante parte, non negoziata, del contratto rimane assoggettata alla disciplina di tutela del consumatore ( v. Cass., 20/8/2010, n. 18785 ).
Va a tale stregua rigettata anche la pretesa violazione dell’art. 2697 c.c., per avere la corte territoriale asseritamente omesso di verificare l’adempimento, da parte del consumatore , dei suoi oneri probatori, in quanto -come dettoincombe sul professionista l’onere di provare che le clausole o gli elementi di clausola dal medesimo
unilateralmente predisposti siano stati oggetto di specifica trattativa con il consumatore, sicché alcuna inversione dell’onere della prova è stata dalla corte di merito nella specie integrata.
All’infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo in favore del controricorrente RAGIONE_SOCIALE, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento dele spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi euro 4.500,00, di cui euro 4.300,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge, in favore del controricorrente RAGIONE_SOCIALE.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione