Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 9400 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 9400 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22826/2020 R.G. proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (DMCGLC70P13A512F) rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOMEVLLGPP72B27D643M)
-ricorrente-
contro
PAZZINI NOME
-intimato- avverso SENTENZA di TRIBUNALE RIMINI n. 987/2019 depositata il 30/11/2019. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26/03/2025 dal Consigliere dr. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME convenne NOME COGNOME innanzi al Giudice di Pace di Rimini. Espose di aver concluso con controparte un contratto preliminare di cessione di quote societarie, e chiese la condanna avversaria al pagamento della penale stabilita in conseguenza dell’inadempimento del COGNOME.
Radicatosi il contraddittorio, il giudice adito accolse la domanda e condannò il convenuto al pagamento di € 3.800,00 .
Su impugnazione del COGNOME, con sentenza n. 987 depositata il 30 novembre 2019 il Tribunale di Rimini riformò la sentenza del Giudice di pace, dichiarando non dovuta la corresponsione della penale e condannando l’appellato alla rifusione delle spese di lite.
Affermò il giudice di secondo grado che, pur essendo l’assenza del COGNOME alla stipula del definitivo imputabile a sé medesimo, tuttavia il promissario acquirente avrebbe fissato un nuovo incontro solo a distanza di un anno e mezzo, e, pur in assenza di controparte, non avrebbe inviato alcuna diffida scritta: sarebbero dunque mancati i presupposti per il pagamento della penale. Inoltre, sarebbe stato proprio l’COGNOME a dare causa all’impossibilità di stipulare il contratto definitivo, venendo meno all’obbligo di buona fede.
Contro la sentenza di appello, NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, sulla scorta di quattro motivi. E’ rimasto intimato NOME COGNOME
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con la prima doglianza, proposta ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., il ricorrente assume la violazione dell’art. 342 c.p.c. nella parte in cui il giudice di appello aveva respinto l’eccezione di inammissibilità del gravame per difetto di motivazione.
Infatti, nel suo atto controparte si sarebbe limitata a riferire alcuni irrilevanti comportamenti, senza spiegare le ragioni degli errori asseritamente commessi dal Giudice di pace, mancando di indicare le parti del provvedimento appellate e le modifiche richieste.
Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente sollecita a questa Corte una nuova valutazione circa il contenuto dell’atto di appello, che spetta al giudice di merito e che, in ogni caso, il Tribunale ha esaustivamente compiuto alle pagg. 5-7 della sentenza impugnata.
Come è noto, del resto, la decisione di primo grado può essere attaccata con il gravame sia per i vizi che contiene, e che ne determinano l’invalidità come atto giuridico, sia per l’ingiustizia del giudizio in essa contenuto. Infatti, diversamente dai motivi di cassazione, che sono vincolati sia in ordine alla forma, sia in ordine al contenuto, i motivi di gravame sono vincolati quanto alla forma ma non quanto al contenuto (potendo consistere in qualunque errore di giudizio o vizio attinente al procedimento ed alla sentenza). Ed allora, tenuto conto di quanto precede, appare del tutto corretta l’osservazione del Tribunale secondo cui il COGNOME -nel suo gravame – aveva lamentato la mancata considerazione del comportamento avversario in sede stragiudizia le, che l’aveva posto in condizioni di non poter adempiere al contratto. L’affermazione è del tutto coerente con l’indirizzo ormai consolidato di questa Corte, secondo cui gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di
primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello (Sez. U., n. 27199 del 16 novembre 2017; Sez. U., n. 36481 del 13 dicembre 2022).
Attraverso la seconda censura, proposta ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., l’COGNOME deduce l’illegittimità della sentenza impugnata per palese illogicità, erroneità e contraddittorietà della motivazione, in relazione ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Rileva il ricorrente che l’art. 7 del contratto inter partes consterebbe di due clausole, l’una autonoma ed indipendente dall’altra: la prima conterrebbe una clausola risolutiva espressa, riguardante l’inadempimento di qualunque obbligazione, rispetto a cui l’effetto risolutivo sarebbe stato condizionato all’inutile decorso del termine di sette giorni dall’invio di una diffida, mentre la seconda riguarderebbe una clausola penale per il ritardo nell’inadempimento dell’obbligazione di sottoscrivere il definit ivo. La domanda originaria del ricorrente, sempre tenuta ferma nel corso del giudizio, avrebbe appunto preso in considerazione solo il pagamento della penale, sicché la clausola risolutiva espressa di cui all’art. 7 primo periodo non avrebbe avuto nulla a che vedere con l’oggetto della controversia. Da ciò l’errore logico e giuridico del Tribunale che, muovendo da una premessa priva di rilievo, sarebbe pervenuto ad una conclusione eccentrica.
Con il terzo mezzo di impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 1218, 1375 e 1382 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3, per aver illegittimamente escluso la responsabilità del COGNOME sulla base di un asserito comportamento del cre ditore contrario a buona fede durante l’esecuzione del contratto.
Il giudice di secondo grado avrebbe erroneamente richiamato il principio, secondo cui la violazione dell’obbligo di buona fede avrebbe sollevato la controparte dalla responsabilità per l’inadempimento fattuale posto in essere, giacché -ai sensi dell’art. 1375 c.c. -la buona fede non potrebbe ex se fungere da prova liberatoria o essere idonea ad eliminare una responsabilità del debitore per un inadempimento conclamato.
4. La quarta lagnanza è volta a lamentare la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 342 c.p.c., 2909 c.c., 24 e 111 Cost., in relazione all’art. 360 n. 3) c.p.c., per essere il giudice di secondo grado incorso nel vizio di extrapetizione, avendo fondato la propria decisione su circostanze di fatto e disposizioni negoziali non allegate e non dedotte dalle parti.
Infatti il Tribunale, pur in mancanza di alcuna eccezione dell’appellante, di un motivo di appello o qualsivoglia deduzione, aveva ritenuto che la penale non fosse dovuta sulla base di una procedura contrattuale prevista per l’operatività della clausola risolutiva espressa e dunque totalmente irrilevante rispetto all’oggetto della causa.
Per ragioni logiche va esaminato previamente il terzo motivo, che è infondato.
Secondo la sentenza impugnata (pag. 10), ‘ L’inadempimento del debitore diviene non più allo stesso imputabile, essendo causato dal creditore medesimo. E’ COGNOME, infatti, che con il proprio comportamento ha dato causa all’impossibilità di stipulare il contratto definitivo nei termini indicati nel contratto preliminare: dapprima non fissando alcuna data entro il primo trimestre 2014, nonostante i numerosi solleciti verbali e scritti (circostanza non contestata) di COGNOME, poi dando comunicazione della data individuata con raccomandata spedita pochi giorni prima dell’incontro con il notaio; poi non dando seguito al sollecito di scritto di Pazzini del 28.07.2014; poi ancora rimanendo inerte per oltre un anno e mezzo prima di fissare un secondo incontro; da ultimo, non diffidando per iscritto controparte dopo la data del 21.12.2015 si da consentire alla stessa di adempiere entro 7 giorni come da previsioni contrattuali, prima di rendere operativa la penale prevista in contratto ‘.
Il Tribunale ha dunque delineato ed accertato un complessivo comportamento fattuale del creditore, di cui la necessità della diffida scritta costituiva solo un segmento, diversamente dalle affermazioni del ricorrente: tale comportamento è stato considerato elemento sintomatico per escludere l’imputabilità dell’inadempimento del COGNOME. È allora evidente che, essendo stata negato uno dei presupposti fondanti , viene a cadere l’obbligo del pagamento della penale. Infatti, connotato essenziale della clausola penale è la sua connessione con
l’inadempimento colpevole di una delle parti e, pertanto, essa non è configurabile allorché la relativa pattuizione sia collegata all’avverarsi di un fatto fortuito o, comunque, non imputabile all’obbligato, costituendo, in tale ultima ipotesi, una condizione o clausola atipica che può essere introdotta dall’autonomia contrattuale delle parti, ma resta inidonea a produrre gli effetti specifici stabiliti dal legislatore per la clausola penale (Sez. 3, n. 13956 del 23 maggio 2019).
L’esito del terzo motivo assorbe logicamente il secondo ed il quarto.
Invero, sebbene il Tribunale abbia omesso di considerare che l’originaria domanda era volta a reclamare soltanto il pagamento della penale e che l’articolo 7 del contratto inter partes conteneva due fattispecie astratte indipendenti , l’una riguardante la risoluzione per inadempimento e l’altra la quantificazione della penale per il ritardo , l’accertata mancanza del presupposto dell’imputabilità impedisce di poter pretendere l’ adempimento della clausola ed esclude la rilevanza dell’errore.
Al rigetto del ricorso non segue la condanna dell’COGNOME alla rifusione delle spese processuali in favore della controparte, in mancanza di attività difensiva da parte di quest’ultima .
La Corte dà atto che ricorrono i presupposti processuali di cui all’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002 per il raddoppio del versamento del contributo unificato, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 26 marzo 2025, nella camera di consiglio della 2 Sezione Civile.
NOME COGNOME