Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 3397 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 3397 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 33177/2019 r.g. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliata presso il suo studio sito in Roma, INDIRIZZO giusta procura speciale in data 7/11/2023.
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME. Unitamente e disgiuntamente dall’Avv. NOME COGNOME presso il
cui studio elegge domicilio in Roma, INDIRIZZO come da mandato in calce al controricorso
-controricorrente-
E
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto in Roma, presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME, INDIRIZZO come da mandato in calce al controricorso, i quali chiedono di ricevere le comunicazioni e le notificazioni relative al presente giudizio agli indirizzi di posta elettronica certificata indicati
-controricorrente-
E
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME, dall’Avv. NOME COGNOME e dall’Avv. NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in Roma, presso lo studio di quest’ultima, INDIRIZZO come da mandato in calce al controricorso
-controricorrente-
E
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME, dall’Avv. NOME COGNOME e dall’Avv. NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in Roma, presso lo studio di quest’ultima, INDIRIZZO come da mandato in calce al controricorso
-controricorrente-
E
RAGIONE_SOCIALE e la Regione Toscana RAGIONE_SOCIALE in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore.
-intimati- avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze n. 1738 /2019, depositata in data 17/7/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 6/2/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
Con atto di citazione notificato in data 11/4/2007, la RAGIONE_SOCIALE conveniva in giudizio, dinanzi alla sezione distaccata di Pontassieve del Tribunale di Firenze, il RAGIONE_SOCIALE Emilia e Toscana) e la RAGIONE_SOCIALE (in seguito incorporata da RAGIONE_SOCIALE al fine di ottenere la loro condanna al risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c. e 2058 c.c. e/o all’indennizzo ex art. 46 della L. 2359/1865.
Ad avviso dell’attrice, a seguito dei lavori per la realizzazione della tratta di alta velocità ferroviaria Bologna – Firenze, sarebbe stato compromesso l’approvvigionamento d’acqua del complesso immobiliare di parte attrice, affittato ai turisti, a causa del prosciugamento dei due pozzi di acqua sorgiva che lo alimentavano.
Nell’ambito dei lavori di realizzazione della tratta la RAGIONE_SOCIALE era concessionaria dei lavori affidati dalla concedente RAGIONE_SOCIALE (dal 2010 incorporata da RFI). In qualità di concessionaria, la RAGIONE_SOCIALE aveva affidato la progettazione esecutiva e la realizzazione della tratta ferroviaria Bologna/Firenze in capo al General Contractor Fiat Spa (ora FCA), la quale, a sua volta, aveva concesso in appalto la progettazione e la realizzazione dell’opera a Cavet.
Il Consorzio RAGIONE_SOCIALE si costituiva in giudizio e otteneva la chiamata in causa delle proprie Compagnie Assicurative, deducendo di aver stipulato con queste una copertura assicurativa per tutti i rischi derivanti dalla esecuzione dei lavori, e della Regione Toscana, per avere quest’ultima omesso la realizzazione della rete idrica nel Comune di Pescina, prevista proprio per l’alimentazione idrica della suddetta proprietà.
RAGIONE_SOCIALE si costituiva in giudizio e chiamava in garanzia RAGIONE_SOCIALE in quanto General Contractor dell’opera pubblica.
RAGIONE_SOCIALE, a sua volta, chiamava in giudizio il medesimo Consorzio già in causa, in relazione alla manleva contrattuale, «avendogli affidato l’esecuzione dei lavori e ogni adempimento delle medesime obbligazioni da essa già assunte nei confronti di TAV».
La causa veniva istruita con CTU «la quale aveva dichiarato sussistente il nesso di causalità tra l’esecuzione dei lavori di scavo e l’essiccamento dei due pozzi e stimato il pregiudizio arrecato al complesso immobiliare».
Il Tribunale, con sentenza n. 173 del 2012, dichiarava infondata la domanda attorea di risarcimento danni per fatto illecito extracontrattuale, ma accoglieva la richiesta di indennizzo ex art. 46 L. n. 2359/1865 nei confronti della sola RAGIONE_SOCIALE quale concessionaria dell’opera pubblica. Accoglieva la domanda di manleva di questa nei confronti di FIAT, in forza del contenuto della Convenzione del 15.10.1991 «che trasferiva a Fiat ogni responsabilità per i danni contrattuali ed extracontrattuali nei confronti di terzi dipendenti e/o connessi con le obbligazioni assunte da RAGIONE_SOCIALE.
Il tribunale accoglieva anche la domanda di manleva di FIAT nei confronti di COGNOME «in ragione delle previsioni contrattuali di suo
subentro in tutti gli obblighi contrattuali assunti da FIAT nei confronti di RAGIONE_SOCIALE.
Respingeva, invece, la domanda di manleva di RAGIONE_SOCIALE nei confronti delle Compagnie assicurative «per difetto di copertura di polizza per i danni derivanti da interruzione o deviazione di sorgenti o falde acquifere».
Avverso tale sentenza venivano proposte due autonome impugnazioni principali, le quali davano luogo a due procedimenti distinti, poi riuniti.
5.1. COGNOME promuoveva, dinanzi alla Corte di appello di Firenze, impugnazione notificata in data 15/11/2012 (rg. 12/2326) unicamente alla società RAGIONE_SOCIALE, alla RAGIONE_SOCIALE (ora RAGIONE_SOCIALE) ed alle RAGIONE_SOCIALE di Assicurazione.
5.2. RAGIONE_SOCIALE (cui RAGIONE_SOCIALE non notificava l’appello) notificava il proprio atto di appello in data 17/01/2013 (rg. 60/2013) a tutti i soggetti parti del primo grado, ma limitando il gravame al capo in cui essa era stata condannata «a rilevare indenne RAGIONE_SOCIALE».
5.3. RAGIONE_SOCIALE, nella qualità di incorporante RAGIONE_SOCIALE, proponeva appello incidentale, in parte condizionato.
5.3.1. RAGIONE_SOCIALE, già RAGIONE_SOCIALE, chiedeva, con il primo motivo, la riforma della sentenza nella parte in cui aveva dichiarato l’obbligo di TAV al pagamento in favore dell’attrice dell’indennizzo ex art. 46 L. 2359/1865, eccependo il difetto di legittimazione passiva con riferimento alla domanda proposta da NOME COGNOME
5.3.2. Con il secondo motivo la RFI deduceva «errata e/o insufficiente motivazione sui fatti assunti per il riconoscimento di un indennizzo da attività lecita della PA a favore dell’attrice. Violazione del principio dell’onere della prova».
In particolare, rimarcava l’inesistenza di nesso eziologico tra lavori e i danni lamentati dalla RAGIONE_SOCIALE per assoluta carenza di prove.
6. La Corte Territoriale, dopo aver riunito i giudizi, con sentenza n. 1738/2019, accoglieva l’appello di RAGIONE_SOCIALE e riformava parzialmente la sentenza n. 173/2012 del Tribunale di Firenze, dichiarando che la clausola di manleva tra RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, così come quella tra RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE riguardava solo i danni extracontrattuali e contrattuali, ma non l’indennizzo da atto lecito, che rimaneva a carico di RAGIONE_SOCIALE
In particolare, la Corte di merito evidenziava, quanto all’appello proposto dalla Fiat verso RAGIONE_SOCIALE (ora RAGIONE_SOCIALE), che non sussistevano i presupposti per la manleva esercitata da TAV nei suoi confronti.
Per il tribunale, infatti, l’ampia formula utilizzata nell’art. 22 della Convenzione del 15/10/1991 tra la TAV e la Fiat, ricomprendeva «ogni eventuale danno o pagamento preteso da terzi», sicché non poteva «interpretarsi come limitata esclusivamente all’eventuale commissione illeciti contrattuali od extra contrattuali, con esclusione quindi degli eventuali pregiudizi derivanti dati leciti del concessionario».
La Corte d’appello, invece, forniva una diversa interpretazione della clausola, valorizzando la circostanza che la stessa, nella prima parte, faceva riferimento alla responsabilità di Fiat per i danni «contrattuali ed extracontrattuali dipendenti e/o connessi con l’esecuzione delle obbligazioni da esso assunte con la presente Convenzione».
Nella seconda parte della clausola, poi, si prevedeva che «perciò» Fiat doveva tenere indenne TAV «nel modo più ampio e senza eccezioni riserve, da ogni diritto pretesa o molestia che terzi dovessero avanzare».
Nella terza parte della clausola, quindi, si faceva riferimento al caso «in cui TAV fosse richiesto da terzi il pagamento di somme, a qualsiasi titolo, per cause dipendenti e/o connesse con le obbligazioni oggetto della presente Convenzione», prevedendosi la responsabilità di Fiat «a pagare in sua vece, o comunque a rimborsare TAV a prima richiesta».
Per la Corte territoriale, dunque, il contenuto letterale della clausola era «chiarissimo», trattandosi esclusivamente di responsabilità per danni di natura contrattuale ed extracontrattuale, quindi di danni «dipendenti da fatto illecito» o connessi con le obbligazioni contrattuali della Convenzione.
Il terzo comma dell’art. 22 della Convenzione, dunque, costituiva «sotto fattispecie del secondo comma».
I commi secondo e terzo della Convenzione non configuravano «ulteriori ipotesi né una clausola di chiusura generale per la manleva per qualunque pregiudizio da fatto illecito o lecito», ma rappresentavano solo «applicazione del principio enunciato dal primo comma riferito esclusivamente alla responsabilità contrattuale o extracontrattuale».
Del resto, nella specie, le parti TAV e Fiat avevano «disciplinato gli indennizzi solo in apposita clausola, l’art. 19, e solo con riferimento ad ‘Espropriazioni e controversie’».
Esaminando il quarto comma dell’art. 19.1 della Convenzione emergeva che restavano a carico di Fiat le vertenze connesse alle procedure sub artt. 19.1 e 19.2 «comprese legittimità degli indennizzi, mancata osservanza della legge, occupazioni illegittime e danni diretti ed indiretti conseguenti o connessi alle espropriazioni od alle occupazioni medesime».
Com’era evidente dal contenuto della norma, dunque, «l’indennizzo di cui all’art. 46 legge 2359/1865 non riguarda
immobili oggetto di espropriazione od occupazione, ma altri contigui».
Tra l’altro, l’interpretazione della clausola 22 della Convenzione 15/10/1991, fatta propria dalla Corte d’appello, coincideva «con quella della suprema Corte di cassazione, ordinanza n. 28422/2018 (RFI ex RAGIONE_SOCIALE/ RAGIONE_SOCIALE ed altri)».
Il tribunale dunque aveva accertato che non vi erano stati illeciti contrattuali od extracontrattuali, respingendo la domanda risarcitoria.
Era infondato allora il tentativo di RFI «di invocare in questo grado la responsabilità contrattuale di Fiat e RAGIONE_SOCIALE ai fini della manleva per indennizzo da fatto lecito per errori progettuali o di esecuzione».
L’obbligo alla corresponsione dell’indennizzo ex art. 46 della legge n. 2359 del 1865 incombeva ex lege sulla PA o sul titolare della concessione, ma non era «trasferibile con effetto verso i terzi pregiudicati».
Per la Corte di merito, dunque, poteva procedersi alla contrattualizzazione nei rapporti interni di tale obbligo, con un trasferimento del costo, ma occorreva «una clausola apposita, nell’ottica della diversa prospettiva della allocazione del rischio dietro compenso, per il trasferimento dell’onere nonostante l’assenza di responsabilità di chi se l’accolli».
Doveva revocarsi, ai sensi dell’art. 336 c.p.c., anche la «condanna di COGNOME alla manleva verso Fiat, basata su una Convenzione di identico contenuto rispetto alla prima».
6.1. Veniva rigettato l’appello incidentale proposto da RFI, nella parte in cui quest’ultima eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva verso la RAGIONE_SOCIALE
Infatti, ad avviso della Corte, era sufficiente «rinviare in via assorbente alle considerazioni già sopra espresse sulla titolarità dell’obbligazione ex lege di TAV , come unico soggetto legittimato passivo verso i terzi quale concessionario dell’opera pubblica, rispetto all’indennizzo ex art. 46 legge espropriazioni del 1865».
La Corte d’appello reputava inammissibile ex art. 342 c.p.c. il secondo motivo di gravame incidentale di RFI.
Ad avviso della Corte di merito l’appellante incidentale RAGIONE_SOCIALE si era limitata a riproporre, con l’atto d’appello, «un collage del contenuto della comparsa conclusionale di primo grado incentrata sulla contestazione della CTU», astenendosi peraltro dall’affrontare il merito delle repliche, puntualmente argomentate, del CTU COGNOME.
La Corte d’appello, dunque, ripercorreva il gravame incidentale proposto da RFI nella parte in cui si soffermava a censurare la violazione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., non avendo parte attrice fornito alcun elemento della sussistenza del suo diritto, soprattutto «sulla portata dei pozzi ante e post operam ».
Rispondeva il giudice di secondo grado che trattavasi «di mere affermazioni non meglio sviluppate» e che, comunque trattandosi di fatti accaduti un decennio prima dell’evento, era evidente la difficoltà della parte privata di rintracciare documentazione, chiarendo peraltro che il giudice «può trarre le proprie convinzioni dalle prove da qualunque parte fornite e comunque acquisite al processo».
Pure inammissibile ex art. 342 c.p.c. era il rilievo dell’appellante incidentale RFI, per il quale il giudice di prime cure aveva interpretato il concetto di ‘contiguità’ in modo ‘elastico’, senza limitarlo ai danni conseguiti dai terreni confinanti.
La Corte d’appello rilevava, sul punto, che l’appellante si era limitata «ad indicare un asserito discostamento dalla giurisprudenza
precedente, il che non costituisce certo in sé un vizio della decisione, quantomeno nel caso che esso sia adeguatamente argomentato».
Peraltro, il requisito della contiguità non era previsto normativamente.
Anche con riguardo ai concetti di danno e di nesso di causalità ad avviso della Corte d’appello -la RFI si era intrattenuta, «riproducendo quasi alla lettera i corrispondenti passi della conclusionale di primo grado», su tutti gli elementi di incertezza su alcune circostanze obiettive «che lo stesso CTU ha riconosciuto con le quali si è confrontato nella sua relazione: la portata dei pozzi precedente al 2002, l’assenza di indicazione di stratigrafia e caratteristiche costruttive dei manufatti della documentazione attorea».
Anche su questi aspetti la Corte rilevava l’inammissibilità del gravame incidentale ex art. 342 c.p.c.
L’appellante incidentale si era limitata ad estrapolare «singole proposizioni della relazione della CTU nelle sole parti in cui questi esprime propri dubbi».
RFI però, non aveva invece riportato il contenuto anche solo sintetico dei fatti, della documentazione, delle considerazioni «che hanno convinto il CTU a concludere il suo elaborato con le risposte trascritte in sentenza di primo grado».
Ed infatti CTU, per la Corte territoriale, «ha affrontato l’esame della numerosa documentazione a sua disposizione; ne ha tratto dati oggettivi; ha operato su queste presunzioni fondate su leggi scientifiche, sullo stato dei luoghi, sulle pubblicazioni che fornivano anche informazioni sull’impatto dell’o.p. sui pozzi de quibus , sulla contemporaneità tra lo scavo del cunicolo TAV e l’essiccazione dei due pozzi, sui dati piezometrici».
Con la precisazione che «tutto quanto scritto dal CTU in replica, che non è stato ulteriormente contrastato dai CTP, non ha trovato alcuna attenzione dalla difesa di RFI, nella comparsa conclusionale del primo grado prima e nell’atto d’appello poi».
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la RAGIONE_SOCIALE, depositando anche memoria scritta.
Hanno resistito con controricorso la RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE), la RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE e la Unipolsai RAGIONE_SOCIALE sRAGIONE_SOCIALEp.aRAGIONE_SOCIALE Le due RAGIONE_SOCIALE hanno depositato memoria scritta.
La RAGIONE_SOCIALE si è limitata a richiamare quanto dedotto nel controricorso.
Sono rimasti intimati il consorzio RAGIONE_SOCIALE e la Regione Toscana.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente RAGIONE_SOCIALE che ha incorporato RAGIONE_SOCIALE, deduce la «violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., in relazione all’art. 360.1 n. 3».
Il ricorrente si duole del fatto che il Giudice di secondo grado, rovesciando il verdetto del Giudice di prime cure, nega l’operatività della clausola di manleva. L’art 22 della Convenzione-contratto RAGIONE_SOCIALE testualmente recita:« ‘RAGIONE_SOCIALE sarà responsabile nei confronti dei terzi, e senza possibilità di rivalsa nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, per i danni contrattuali ed extracontrattuali dipendenti e/o connessi con l’esecuzione delle obbligazioni da esso assunte con la presente Convenzione. RAGIONE_SOCIALE, perciò terrà indenne TAV – nel modo più ampio e senza eccezioni e riserve – da ogni diritto, pretesa o molestia che terzi dovessero avanzare in dipendenza e/o in connessone con le obbligazioni da esse assunte con la presente Convenzione. Nel caso
in cui a TAV fosse richiesto da terzi il pagamento di somme, a qualsiasi titolo, per cause dipendenti e/o connesse con le obbligazioni oggetto della presente Convenzione, FIAT sarà tenuta a pagare in sua vece o comunque a rimborsare TAV a prima richiesta e senza facoltà di opporre eccezioni di alcun tipo, quanto TAV fosse costretta a pagare».
Inoltre, in base alla formulazione della Convenzione, la Corte d’appello ha assunto che: 1) le espressioni relative alla responsabilità «per i danni contrattuali ed extracontrattuali» rendevano evidente il riferimento a fatti illeciti; 2) il tenore del secondo e del terzo comma dell’art. 22 della Convenzione «non integra gli estremi di una clausola di chiusura generale per la manleva da qualunque pregiudizio da fatto illecito o lecito»; 3) l’indennizzo da fatto lecito «costitui istituto eccezionale», sicché la manleva, nei casi di indennizzo da fatto lecito, non poteva che «essere prevista espressamente nei contratti»; 4) le parti nella Convenzione del 15/10/1991 avevano disciplinato gli indennizzi solo in apposita clausola, l’art. 19, e solo con riferimento a «Espropriazioni e controversie».; 5) l’obbligo dell’indennizzo di cui all’art. 46 della legge n. 2359 del 1865 incombeva ex lege esclusivamente sulla p.a. e non era trasferibile con effetto verso i terzi pregiudicati; poteva poi essere «contrattualizzato nei rapporti interni», occorrendo però «una clausola apposita».
Tutti gli aspetti evocati dalla Corte d’appello sarebbero erronei, in quanto, nell’interpretare il contratto, si deve indagare la comune intenzione delle parti, senza limitarsi al senso letterale delle parole. Le clausole del contratto, poi, si interpretano le une per mezzo delle altre.
Il Giudice di secondo grado non avrebbe neppure tentato di indagare la comune intenzione delle parti.
Il ricorrente sostiene che, a differenza di quanto afferma la Corte di appello, la clausola di manleva non estende l’ambito degli illeciti contrattuali ed extracontrattuali dal momento che non distingue tra danni dipendenti da dolo o da colpa, quindi da fatto illecito o da attività lecita.
Inoltre, sottolinea che l’errore di interpretazione della clausola e della norma che ammette l’indennizzo da attività lecita della P.A. (art. 46 L. 2359/1865) sarebbe reso palese dallo scambio della causa (danno permanente) con l’effetto (diritto a una indennità), come si evince dal dato testuale dell’art. 46.1: «È dovuta un’indennità ai proprietari dei fondi, i quali dall’esecuzione dell’opera di pubblica utilità vengono gravati di servitù, o vengono a soffrire un danno permanente derivante dalla perdita o dalla diminuzione di un diritto».
In realtà, per la ricorrente, la giurisprudenza di legittimità subordina l’applicabilità dell’art. 46 citato alla «produzione di un danno permanente», che si concreti nella perdita o nella diminuzione di un diritto, sicché si tratterebbe di «domanda risarcitoria» da proporsi nei confronti del concedente.
Il ricorrente, richiamando la giurisprudenza della Corte di cassazione, afferma che in tema di attività lecita il concedente può chiedere la manleva ma non può opporla al terzo danneggiato.
Nella Convenzione, la materia degli indennizzi non è disciplinata solo dall’art. 19 in quanto l’art. 22 ne prevede altri e ulteriori che non coincidono con i primi, motivo per cui il giudice avrebbe dovuto ricercare la comune volontà delle parti anche attraverso l’esame complessivo della scheda contrattuale.
Il General contractor, in realtà, aveva tutta una serie di compiti da svolgere, tra cui «far eseguire secondo le più aggiornate tecniche le indagini geologiche, le misurazioni, i sondaggi».
L’art. 22, allora, si configura come una pattuizione finale, di chiusura, posta a garanzia dell’affidante in relazione agli impegni assunti dal General Contractor . L’espressione «per i danni contrattuali ed extracontrattuali dipendenti e/o connessi con l’esecuzione delle obbligazioni da esso assunte con la presente Convenzione » ha una latitudine che non si presta a equivoci, anche perché in caso contrario, l’affidante sarebbe rimasto privo di tutela qualora il General Contractor non avesse osservato le obbligazioni da esso assunte con la Convenzione.
RFI non ritiene condivisibile l’affermazione della Corte di appello secondo la quale «l’indennizzo da fatto illecito costituisce un istituto eccezionale, che può essere riconosciuto solo laddove lo prevedano norme espresse » , per cui «la manleva nei casi di indennizzo da fatto lecito non può che essere prevista espressamente nei contratti, essendo precluso applicare analogicamente ed estensivamente l’ambito degli illeciti contrattuali ed extracontrattuali esclusivamente pattuito » . Parte ricorrente non concorda sul punto per quanto riguarda il carattere di eccezionalità della norma e tantomeno sulla circostanza per cui l’indennizzo debba essere riconosciuto da norme espresse, dal momento che «l’art. 46 nella sua esemplare chiarezza è di immediata applicazione».
Il ricorrente condivide le affermazioni della Corte secondo la quale l’obbligo di indennizzo incombe sulla PA, può essere contrattualizzato nei rapporti interni affidante-affidatario e non è trasferibile con effetto verso i terzi pregiudicati. Successivamente però afferma che tale trasferimento del costo è possibile a patto che vi sia una clausola apposita, nell’ottica della diversa prospettiva dell’allocazione del rischio dietro compenso, per il trasferimento dell’onere, nonostante l’assenza di responsabilità per chi se lo accolli.
Non può invece essere ricavabile «da un’interpretazione di una clausola vertente in via esclusiva sulla responsabilità risarcitoria».
Nel caso in esame la clausola c’è ed è perfettamente valida ed efficace non essendo contraria a norma imperativa di legge e «non figurando la manleva tra i casi speciali che determinano la nullità dei contratti».
Ad avviso della ricorrente il Giudice di merito ha affermato, erroneamente, che le parti RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE hanno disciplinato gli indennizzi solo in apposita clausola, l’art. 19, e solo con riferimento ad espropriazioni e controversie, «ciò non perché non sia effettivamente così» ma per il fatto che «il termine ‘indennizzi’ viene usato in modo non pertinente e ambiguo, lasciando intendere che nel contratto non ci siano altri indennizzi se non quelli di cui all’art.19».
Il motivo è inammissibile.
2.1. In realtà, la Corte d’appello, ha esaminato con la dovuta attenzione e cura il contenuto, sia delle clausole di cui all’art. 22 della Convenzione del 15/1/1991, sia del contenuto dell’art. 19 della medesima Convenzione, dedicato espressamente alle espropriazioni, non soffermandosi esclusivamente sul criterio letterale, ma anche andando alla ricerca della comune intenzione delle parti.
La Corte d’appello muove dall’assunto della insussistenza del fatto illecito, ribadendo che «il tribunale ha accertato che non vi sono stati illeciti contrattuali od extracontrattuali nella fattispecie e questo ha precluso l’ottenimento degli attori di una condanna risarcitoria (avente diverso e più sostanzioso contenuto rispetto a quelle indennitaria) ed ai chiamati in manleva ad invocare altri profili rispetto alla fattispecie dell’indennizzo da fatto lecito».
3.1. Di talché, una volta escluso trattarsi di fatto illecito, ma di indennizzo da fatto lecito, la Corte d’appello ha esaminato i tre
paragrafi dell’art. 22 della Convenzione del 15/10/1991, rilevando che in nessuno dei tre, in realtà, si fa riferimento ad una manleva da parte di Fiat, quale General contractor, in favore di RFI, prima TAV.
Nel primo paragrafo, infatti, dell’art. 22 si prevede espressamente che la manleva di Fiat è limitata ai «danni contrattuali ed extra contrattuali», tra i quali non può rientrare, come detto, il diritto all’indennizzo da fatto lecito previsto ai sensi dell’art. 46 della legge n. 2359 del 1865.
Nel secondo paragrafo, il cui incipit è rappresentato da «perciò», non può che confermarsi la tesi per cui la manleva riguarda esclusivamente i danni contrattuali ed extra contrattuali, ai quali deve riferirsi il contenuto del paragrafo citato («Fiat perciò, terrà indenne TAV – nel modo più ampio e senza eccezioni o riserve – da ogni diritto, pretesa o molestia, che i terzi dovessero avanzare in dipendenza e/o in connessione con le obbligazioni da esso assunte con la presente Convenzione»).
Nel terzo paragrafo, poi, si resta nell’ambito del contenuto dell’unitaria clausola di cui all’art. 22 della Convenzione, sempre riferita a danni contrattuali ed extra contrattuali; in tal senso va interpretata la dizione «nel caso in cui TAV fosse richiesto da terzi il pagamento di somme, a qualsiasi titolo, per cause dipendenti e/o connesse con le obbligazioni oggetto della presente controversia, Fiat sarà tenuta a pagare in sua vece, o comunque a rimborsare TAV a prima richiesta».
La terza clausola, allora, non è «una clausola chiusura generale per la manleva da qualunque pregiudizio da fatto illecito o lecito», trattandosi solo dell’applicazione del principio «enunciato dal primo comma riferito esclusivamente alla responsabilità contrattuale od extracontrattuale».
Ma la Corte d’appello, non si limita a interpretare unitariamente la clausola di cui all’art. 22, ma la analizza espressamente comparandola con la clausola di cui all’art. 19, che è dedicata esclusivamente ad «Espropriazioni e controversie».
La Corte di merito scenda all’esame di ciascuna delle clausole contenute nell’art. 19 della Convenzione del 15/10/1991, laddove si prevede, al primo comma, che «Fiat, ‘in nome e per conto’ di RAGIONE_SOCIALE ma a propria cura, responsabilità e spese, le occupazioni, le espropriazioni, gli atti di asservimento, l’acquisizione dei beni immobili e dei diritti reali, di proprietà pubblica e privata occorrenti, nonché le deviazioni di strade, ferrovie, pubblici servizi ed altro conseguente».
Al secondo comma dell’art. 19 si stabilisce che «Fiat si attivi per quanto di sua competenza nelle procedure di ‘espropriazione, occupazione, asservimento’ e nella liquidazione delle relative indennità».
Al quarto comma dell’art. 19 si dispone che «le vertenze connessi alle procedure sub artt. 19.1 e 19.2, comprese legittimità degli indennizzi, mancata osservanza della legge, occupazioni illegittime e danni diretti ed indiretti conseguenti o connessi alle espropriazioni od alle occupazioni medesime, restino ‘a tutti gli effetti a carico di Fiat».
Plausibilmente, allora, la Corte d’appello ha rilevato che, invece, l’art. 46 della legge n. 2359 del 1865 «non riguarda immobili oggetto di espropriazione od occupazione, ma altri contigui (né peraltro è stato anche solo allegato dall’attrice o da altri che il tratto ove è stata realizzata la galleria che ha intercettato la falda acquifera sia stato oggetto di espropriazione od occupazione)».
La Corte d’appello, dunque, ha interpretato anche le clausole «le une per mezzo delle altre» ai sensi dell’art. 1363 c.c., oltre aver
dedicato particolare attenzione, non solo all’interpretazione letterale del contratto, ma anche alla valutazione della «comune intenzione delle parti».
Tuttavia, a fronte di tale plausibile interpretazione della Corte d’appello, sorretta peraltro da tutta la normativa, sia nazionale che regionale, sul punto, non v’è stata alcuna indicazione, da parte della ricorrente, dei criteri di ermeneutica che sarebbero stati eventualmente violati, nell’interpretazione dell’art. 6 dello statuto della società.
Ed infatti, la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli articoli 1362 e seguenti c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile, ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass., 1/3/2019, n. 6156; Cass., n. 5647 del 2019; Cass. n. 6125 del 2014; Cass. n. 16254 del 2012; Cass. n. 24539 del 2009; Cass., sez. 3, 17/7/2003, n. 11193).
4.1. Inoltre, deve osservarsi che, in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi
di violazione dei canoni legali d’interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e seguenti c.c. Ne consegue che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali (Cass., 15/11/2017, n. 27136; Cass., sez. 1, 20/1/2021, n 995).
Tale onere di allegazione dei corretti criteri legali di ermeneutica contrattuale non è stato in alcun modo ottemperato da parte della ricorrente, benché la Corte d’appello abbia compiuto una adeguata interpretazione delle di cui alla Convenzione del 15/10/1991 (articoli 19 e 22).
Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360, I comma n.4; violazione e falsa applicazione dell’art. 46 L. 2359/1865, in relazione all’art. 360, I comma n.3, c.p.c.
Parte ricorrente ha impugnato la sentenza di primo grado nella parte in cui ha dichiarato l’obbligo di TAV (ora RFI) al pagamento in favore di parte attrice dell’indennizzo ex art. 46 L. 2359/1865, nonché l’esistenza del nesso eziologico tra i lavori della tratta AV Firenze/Bologna ed il depauperamento delle risorse idriche utilizzate da parte attrice.
La Corte di merito, però, avrebbe «liquidato in poche righe il primo motivo dell’appello incidentale di RFI (Erroneità della pronuncia nella parte in cui rigetta l’eccezione di difetto di legittimazione sollevata da RAGIONE_SOCIALE (ora RFI), dichiarandola tenuta alla liquidazione in favore degli attori dell’indennizzo di cui all’art. 46 legge 2359/1865. Errata applicazione di legge)», in tal modo «omettendo sostanzialmente di pronunciare».
Il Giudice di appello – per la ricorrente – ha, però, omesso di valutare le prove documentali assunte dal CTU, assumendo solo che RFI era legittimata dal lato passivo ex lege (art. 46 legge 2359/1865).
Tale omissione, sarebbe grave «poiché proprio dalla mancata valutazione delle prove si giunge a quella conclusione».
Prosegue la ricorrente nel senso che «in realtà la censura non aveva nulla a che fare con l’art. 46 in rassegna, se non per il fatto che ne veniva denunciata l’errata applicazione alla stregua del materiale probatorio acquisito al processo».
Di contro, l’eccezione sollevata dalla RAGIONE_SOCIALE, ora RAGIONE_SOCIALE, «atteneva ad entrambe le domande alternative, per la verità cumulative, proposte da parte attrice: risarcimento da fatto illecito ex articoli 2043 e 2058 c.c.; indennità da attività lecita ex art. 46 legge 2359/1865».
La sentenza di primo grado aveva rigettato la prima domanda, di natura risarcitoria, accogliendo la seconda, assumendo l’insussistenza di un fatto illecito.
Osserva, però, la ricorrente che «se nel processo c’era una prova, essa deponeva per la riconducibilità del danno alla condotta illecita del progettista ed esecutore dell’opera pubblica (CAVET)».
Per quanto attiene all’origine dell’interruzione della falda il CTU, nella relazione preliminare inviata ai CTP e in quella finale, afferma che, dalla documentazione acquisita, «l’azione drenante è da attribuirsi all’esecuzione del cunicolo di servizio … e non alla galleria di linea».
COGNOME, non avendo realizzato «gli interventi dal cunicolo di servizio», non solo si è reso inadempiente rispetto a precisi obblighi contrattuali, ma ha determinato le condizioni per l’intercettazione della falda. Inadempimento e responsabilità da cui non si
sottrarrebbe il General Contractor per la previsione espressa contenuta nella Convenzione-contratto 15/10/1991.
Dunque, dai documenti relativi all’esecuzione dei lavori, acquisiti dal CTU, risulta – ad avviso della ricorrente – che «l’intercettazione della falda è avvenuta per fatto e colpa di COGNOME, la quale, disattendendo il proprio stesso progetto esecutivo, operando sul cunicolo di servizio, non ha eseguito le opere previste nel progetto stesso, atte a ridurre la permeabilità nella fase di scavo».
Dunque, afferma RFI che si tratta di ipotesi di responsabilità derivante da fatto colposo per omissione dal momento che, se fossero stati eseguiti i lavori previsti per la riduzione della permeabilità in fase di scavo, non ci sarebbe stata l’intercettazione della falda.
COGNOME non ha osservato l’obbligo che aveva e ha provocato il danno lamentato da parte attrice.
Il Giudice di primo grado, disattendendo le risultanze processuali, ha erroneamente applicato l’art. 46 L. 2359/1865, trattandosi di norma applicabile solo ai casi di danno da attività lecita della PA, «quando avrebbe dovuto applicare l’art. 2043 c.c. versandosi in ipotesi di responsabilità da fatto illecito».
Il Giudice di appello avrebbe potuto porre rimedio ma non l’ha fatto e non ha colto il senso della censura.
Pertanto, ad avviso della ricorrente, «la corretta interpretazione della norma comporta la manifesta carenza di legittimazione passiva della ricorrente», estranea non solo all’esecuzione, ma anche alla progettazione dell’opera.
6. Il motivo è inammissibile.
6.1. In primo luogo, si rileva pianamente che non v’è stata omessa pronuncia da parte della Corte d’appello in relazione
all’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dalla TAV, poi RFI.
Con chiarezza, anche se in modo sintetico, la Corte d’appello, a fronte di tale eccezione, ha così statuito: «Questa Corte si limita a rinviare in via assorbente alle considerazioni già sopra espresse sulla titolarità dell’obbligazione ex lege di TAV, come unico soggetto legittimato passivo verso i terzi, quale concessionario dell’opera pubblica, rispetto all’indennizzo ex art. 46 legge espropriazioni del 1865, a nulla quindi le clausole contrattuali nei rapporti interni con la General contractor, progettisti, esecutori, ecc.».
RAGIONE_SOCIALE è, dunque, responsabile del pagamento dell’indennizzo di cui all’art. 46 della legge n. 2359 del 1865, per espropriazione larvata, con il rigetto espresso dell’eccezione sollevata.
La ricostruzione, in fatto, da parte della ricorrente, con il motivo di ricorso per cassazione, in ordine a pretese inadempienze da parte del RAGIONE_SOCIALE nell’esecuzione delle opere, non rileva in alcun modo, essendovi una espressa decisione da parte della Corte d’appello sul primo motivo di appello incidentale proposto da RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, vertente «sul proprio difetto di legittimazione passiva verso RAGIONE_SOCIALE».
6.2. Inoltre, in violazione dell’art. 366 n. 6 cpc non risulta indicato specificatamente se un motivo di appello avente ad oggetto il mancato accoglimento della domanda ex art. 2043 sia stato proposto ed in quali termini.
Per il resto il motivo di appello sul danno ed il nesso di causalità è stato ritenuto inammissibile ex art. 342 cpc., ratio decidendi non impugnata.
Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione e falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c. e 2967 c.c. in relazione all’art. 360, primo comma, n.3, c.p.c.».
La Corte di appello dichiara, erroneamente, l’inammissibilità ex art. 342 del secondo motivo di appello sostenendo che RFI ha riproposto un collage del contenuto della comparsa conclusionale di primo grado e di non aver affrontato il merito delle repliche svolte dal CTU ai periti di parte.
La ricorrente, però, osserva di avere riproposto in appello elementi non esaminati dal Giudice di primo grado.
RFI si duole del fatto che il Giudice di appello non abbia esaminato le censure proposte.
Nella sentenza di primo grado il Giudice non ha accertato se parte attrice avesse assolto l’onere della prova, avendo basato il proprio convincimento esclusivamente sulla CTU, da cui ha tratto, inoltre, elementi di prova imprecisi e sbagliati.
La Corte d’appello, in sostanza, avrebbe «condotto un’esercitazione teorica come, peraltro, aveva fatto il CTU».
NOME RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto provare il nesso eziologico tra lavori ed essiccamento dei propri pozzi e l’entità del pregiudizio sofferto, ma in atti non c’era altro se non la CTU, con la quale il Giudice, in mancanza di riscontri, ha ritenuto di potervi sopperire con ragionamenti induttivi.
Dalla CTU non emerge nessuna prova che i pozzi de quibus fossero produttivi all’epoca dell’asserito impatto (2002).
Si sottolinea che è arbitrario postulare il nesso di causalità tra lavori ed essiccamento dei pozzi in mancanza dei dati relativi alla portata che avevano prima di quella data. Mancando tali dati, la perizia non è in grado di affermare se, come e quando fossero stati impattati «e se per uno, cinque o mille l/min».
Dunque, anche ammettendo che i lavori AV avessero provocato drenaggi della falda acquifera, ipotesi remota in considerazione delle incertezze che caratterizzano la CTU, in atti non c’è neppure un
principio di prova sul nesso di causalità in quanto parte attrice, che aveva l’onere, non ha provato che i pozzi avessero perduto capacità produttiva nel 2002 o precedentemente, né quale fosse la loro capacità nel 2002. Inoltre, manca anche la prova del danno, non avendo RAGIONE_SOCIALE, prodotto la documentazione delle proprie attività turistico-ricettive attraverso bilanci, ricevute fiscali rilasciate agli ospiti o solo i fogli delle presenze.
Il motivo è inammissibile.
8.1. Invero, a fronte della decisione del giudice d’appello, per cui il secondo motivo d’appello incidentale era inammissibile ex art. 342 c.p.c., con adeguata ed esauriente motivazione in ordine agli specifici motivi di inammissibilità -sia con riferimento alla premessa dell’appello incidentale di RFI (in relazione alla violazione dell’art. 2697 c.c.) sia in relazione all’interpretazione dell’art. 46 della legge n. 2359 del 1865, sia in ordine al danno ed alle nesso di causalità la ricorrente avrebbe dovuto riportare il contenuto, almeno in parte, dell’atto di appello incidentale, oltre che della sentenza di prime cure, onde consentire a questa Corte di comprendere appieno la fondatezza del motivo di ricorso per cassazione.
E’ vero, infatti, che, per giurisprudenza consolidata di legittimità, gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di ‘revisio prioris
instantiae’ del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Cass., sez.un., 16 novembre 2017, n. 27199; Cass., sez. 6-3, 17 dicembre 2021, n. 40560; Cass., sez. 6-3, 30 maggio 2018, n. 13535).
Si è aggiunto che, ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, non essendo necessaria l’allegazione di profili fattuali e giuridici aggiuntivi, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice (Cass., sez. 2, 28 ottobre 2020, n. 23781).
9.1.Tuttavia, non può non osservarsi che, ove il giudice d’appello abbia dichiarato inammissibile uno dei motivi di gravame, ritenendolo privo di specificità, la parte rimasta soccombente che ricorra in cassazione contro tale sentenza, ove intenda impedirne il passaggio in giudicato nella parte relativa alla dichiarata inammissibilità, ha l’onere di denunziare l’errore in cui è incorsa la sentenza gravata e di dimostrare che il motivo d’appello, ritenuto non specifico, aveva invece i requisiti richiesti dell’art. 342 c.p.c. (Cass., sez. 3, 4/7/2023, n. 18736).
Si è ulteriormente chiarito che ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 366, n. 6, c.p.c. – che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – trova applicazione anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali siano contestati errori da parte del giudice di merito; ne discende che, ove il ricorrente
denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte; l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, proprio per assicurare il rispetto del principio di autosufficienza di esso (Cass., sez. 1, 23/12/2020, n. 29495).
Tra l’altro, il motivo risulta inammissibile anche perché articolato ai sensi degli articoli 115 c.p.c. e 2697 c.c..
Infatti, per questa Corte, mentre la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ., configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma, integra motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la censura che investe la valutazione (attività regolata, invece, dagli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.) può essere fatta valere ai sensi del n. 5 del medesimo art. 360 (Cass., sez. 6-3, 31 agosto 2020, n. 18092; Cass., sez. 3, 29 maggio 2018, n. 15107; Cass., sez. 3, 17 giugno 2013, n. 15107).
Pertanto, il ricorrente pur deducendo la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in realtà chiede una nuova valutazione delle risultanze istruttorie.
Allo stesso modo, i n tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass., sez. 1, 1/3/2022, n. 6774).
11. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico di parte ricorrente si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile ricorso.
Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della RAGIONE_SOCIALE (prima Fiat) le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 4.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, Iva e cpa.
Condanna la ricorrente a rimborsare in favore di RAGIONE_SOCIALE le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 4.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, Iva e cpa.
Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della RAGIONE_SOCIALE.a. le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 6.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, Iva e cpa.
Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Unipolsai Assicurazioni s.p.a. le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 6.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, Iva e cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 6 febbraio 2025