Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 4543 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 4543 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 20/02/2024
sul ricorso 29586/2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del Legale Rappresentante, rappresentata e difesa dagli avvocati COGNOME NOME e COGNOME NOME;
-ricorrente – contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del Legale Rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dell’AVV_NOTAIO COGNOME AVV_NOTAIO;
-controricorrente – avverso la sentenza n. 643/2021 del TRIBUNALE di BUSTO ARSIZIO, depositata il 21/04/2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/11/2023 dal cons. NOME COGNOME;
Rilevato che
la RAGIONE_SOCIALE, cessionaria del credito vantato da NOME, convenne in giudizio la RAGIONE_SOCIALE per sentir accertare il ritardo di oltre tr e ore del volo Milano/L’ Avana del 20.3.2016 e per sentirla condannare al pagamento dell’indennizzo di 600,00 euro ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. c) del regolamento CE 261/2004;
il Giudice di Pace di Busto Arsizio rigettò la domanda, dichiarando la carenza di legittimazione attiva dell’attrice per violazione dell’art. 106 TUB, sul duplice assunto che l’operazione integrasse un finanziamento e che la RAGIONE_SOCIALE non fosse iscritta nell’apposito albo tenuto dalla Banca d’Italia;
il Tribunale di Busto Arsizio ha riformato la decisione di primo grado , ritenendo che non ricorresse nella cessione un’ipotesi di finanziamento, rigettando le altre eccezioni riproposte dalla RAGIONE_SOCIALE e rilevando che nulla quest’ultima aveva eccepito in ordine all’ an e al quantum della pretesa risarcitoria; ha pertanto condannato la RAGIONE_SOCIALE a pagare alla RAGIONE_SOCIALE, quale cessionaria del credito del NOME, la somma di 600,00 euro, oltre interessi legali e spese del doppio grado;
ha proposto ricorso per cassazione la RAGIONE_SOCIALE, affidandosi a quattro motivi; ad esso ha resistito la RAGIONE_SOCIALE con controricorso;
il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale, ex art. 380-bis.1 c.p.c.;
entrambe le parti hanno depositato memoria.
Considerato che
con il primo motivo, la ricorrente denuncia « error in iudicando : in relazione all’art. 360, n. 3), cod. proc. civ. violazione degli artt. 1362, comma 1, e 1367 cod. civ. nell’interpretazione del contratto «cessione di credito/assignment form» del 23 agosto 2016 stipulato tra il sig. NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE e violazione e/o falsa applicazione dell’art. 81 cod. proc. civ. e dell’art. 115 Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS)»;
la ricorrente che trascrive l’intero contenuto dell’atto di cessione di credito/assignment formassume che «l’intenzione negoziale delle parti non era certo quella di porre in essere la compravendita di un credito bensì quella di conferire ad RAGIONE_SOCIALE mandato per il recupero del credito»; aggiunge che il Tribunale «si è limitato a recepire la qualificazione data dalle parti come risultante dal mero tenore letterale del documento e della sua autoqualificazione; avrebbe, invece, dovuto avere contezza della comune intenzione delle parti come risultante dall’intero apparato negoziale, e non solo dall’intestazione, e, pertanto, qualificarlo quale mandato per la riscossione del credito»; dall’erronea interpretazione/qualificazione del contratto fa quindi discendere la violazione dell’art. 81 c.p.c., «in quanto il Giudice avrebbe dovuto accogliere l’eccezione di inammissibilità per carenza di legittimazione attiva avendo RAGIONE_SOCIALE fatto valere in giudizio in nome proprio un diritto altrui», nonché la violazione dell’art. 115 TULPS , dato che le attività di recupero crediti per conto terzi sono soggette a licenza del AVV_NOTAIO;
il motivo è inammissibile nella parte in cui denuncia la violazione dei canoni ermeneutici, in quanto è diretto -nella sostanza- a proporre una lettura alternativa rispetto a quella fornita dal Tribunale; lettura , quest’ultima, che, oltre ad essere conforme al dato letterale , è anche pienamente plausibile sul piano della comune intenzione delle parti e della idoneità a produrre effetti utili per ciascuna di esse, dato che il passeggero cedente ha acquisito immediatamente il diritto ai servizi espletati dalla RAGIONE_SOCIALE (senza più nulla dover corrispondere alla stessa) oltre al diritto di conseguire la differenza tra il costo di tali servizi e l’eventuale compensazione pecuniaria, mentre la cessionaria ha acquisito immediatamente il credito del passeggero (e la relativa facoltà di determinarsi liberamente circa le modalità di recupero), fatto salvo l’obbligo di versare al cedente una quota della compensazione riscossa; il tutto secondo uno schema che non integra né un mandato né una compravendita, ma piuttosto un accordo
atipico (ex art. 1322 c.c.) diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico;
da quanto sopra discende l’infondatezza delle censure concernenti la violazione dell’art. 81 c.p.c. e dell’art. 115 TULPS, dato che la RAGIONE_SOCIALE ha agito a tutela di un proprio diritto e per il recupero di un credito proprio (in quanto ad essa definitivamente e validamente ceduto);
col secondo motivo, la ricorrente denuncia « error in iudicando : in relazione all’art. 360, n. 3), cod. proc. civ. violazione e/o falsa applicazione dell’art. 106 del D.lgs 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia -TUB), dell’art. 2, comma 1, e dell’art. 3, com ma 1, del Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze 2 aprile 2015, n. 53»;
il ricorrente sostiene che, «in disparte l’assorbente eccezione di cui al primo motivo», «a tutto concedere, il Tribunale avrebbe dovuto qualificare la cessione del credito quale acquisto a titolo oneroso di credito soggetta alla disciplina dell’art. 106 TUB e del DM del MEF 2 aprile 2015 n. 53, che impone l’iscrizione del soggetto cessionario a titolo oneroso nell’apposito Albo tenuto dalla Banca d’Italia; in difetto di che la cessione del credito è nulla per violazione di norme imperative»; evidenzia, al riguardo, che era pacifico ed accertato fra le parti che la cessione del credito era intervenuta a titolo oneroso e che l’intimata, pur sfornita dall’iscrizione all’albo degli intermediari finanziari tenuto dalla Banca d’Italia, esercitava attività sistematica d’acquisto di crediti di soggetti terzi con carattere di professionalità nei confronti del pubblico, come già accertato in precedenti pronunce di merito intervenute fra le parti e passate giudicato; contesta altresì -per «eccesso di costruttivismo giuridico»la correttezza dell’argomentazione svolta dal tribunale laddove ha ritenuto di dover individuare un’ulteriore causa del negozio di cessione (ossia la causa di finanziamento), con indagine «ultronea» poiché già la legge individua le specifiche operazioni negoziali che debbono ritenersi
riservate agli operatori autorizzati in quanto ritenute «finanziamento sotto qualsiasi forma»; al riguardo, contesta, comunque, che il cedente non avesse conseguito un’utilità immediata dalla cessione, dato che «l’attività di recupero del credito risarcitorio viene ‘finanziata’ dal ces sionario e rappresenta un’utilità immediata ed economicamente valutabile in favore del cedente»;
il motivo è infondato: come ha linearmente spiegato il Tribunale, non qualunque cessione a titolo oneroso è atta a integrare un’operazione di finanziamento che, per essere tale , deve comportare la messa a disposizione di risorse finanziarie, o di utilità equivalenti, in favore del cedente; essa, pertanto, non può risultare integrata -nel caso di specie- dal mero fatto che il passeggero abbia acquisito il diritto ai servizi espletati dalla RAGIONE_SOCIALE; tale vantaggio costituisce, invero, la contropartita della cessione, ma non realizza alcun finanziamento (pur latamente inteso) in favore del cedente;
col terzo motivo, la ricorrente denuncia « error in iudicando : in relazione all’art. 360, n. 3) cod. proc. civ. violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1353, 1418 e 1470 cod. civ.»;
la ricorrente assume che, qualificando il contratto «come cessione del credito onerosa a causa di vendita, esso è nullo per la ragione che il (solo ) pagamento del prezzo della vendita è sottoposto a condizione , con il che, venendo meno un elemento essenziale del negozio si determina, di conseguenza, la nullità prevista dall’art. 1418 c.c.»; conclude che «dalla nullità dell’atto di cessione del credito deriva inesorabilmente l’infondatezza della pretesa avanzata da RAGIONE_SOCIALE in quanto il credito indennitario non è mai entrato a far parte del suo patrimonio giuridico»;
il motivo è infondato in quanto poggia sull’assunto erroneo che le parti abbiano realizzato una vendita del credito, mentre -per quanto osservato in relazione al primo motivo- è stato concluso un contratto atipico comportante la cessione del credito del passeggero a fronte dei servizi offerti dalla RAGIONE_SOCIALE; con la conseguenza che il versamento
al cedente di una quota della somma (eventualmente) riscossa dalla cessionaria (a titolo di indennizzo dovuto dalla RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE) non costituisce propriamente il pagamento del prezzo della vendita del credito, ma il risultato utile dei servizi espletati dalla cessionaria (il cui svolgimento costituiva il ‘corrispettivo’ della cessione);
il motivo va pertanto respinto, con correzione della sentenza (ex art. 384, ult. co. c.p.c.) nei passaggi in cui (a pag. 8) qualifica l’operazione di cessione anche in termini di vendita;
col quarto motivo, la ricorrente denuncia « error in iudicando in relazione all’art. 360, n. 3), cod. proc. civ. violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1260, comma 2, cod. civ. e dell’art. 33, comma 2 lett. b) e t) Codice del Consumo (D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206)»;
la ricorrente censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto inapplicabile il patto di non cedibilità del credito previsto dall’art. 16.3 delle condizioni generali del contratto di trasporto intercorso fra la RAGIONE_SOCIALE e il COGNOME: assume che la RAGIONE_SOCIALE non ha mai contestato di essere a conoscenza di tale patto (limitandosi a contestarne la validità), di talché la conoscenza doveva ritenersi provata ai sensi dell’art. 115 c.p.c.; dal che discendeva l’opponibilità alla cessionaria del patto di non cedibilità, ai sensi dell’art. 1260, co. 2 c.c.;
sotto altro profilo, contesta la possibilità della RAGIONE_SOCIALE di invocare la vessatorietà del patto, assumendo che tale facoltà sarebbe riservata al consumatore (che, nel caso, era rimasto titolare della posizione contrattuale, non avendo ceduto il contratto, ma soltanto un credito);
il motivo è inammissibile nella parte in cui invoca gli effetti della non contestazione (ex art. 115 c.p.c.) senza trascrivere i passaggi dei contrapposti atti introduttivi del giudizio da cui emergerebbe la dedotta non contestazione della conoscenza del patto da parte della RAGIONE_SOCIALE; al riguardo, deve evidenziarsi che la non contestazione avrebbe dovuto riferirsi al fatto specifico della conoscenza del patto
qui opposto dalla RAGIONE_SOCIALE, atteso che «il patto che esclude la cedibilità del credito può essere opposto al cessionario dal debitore ceduto, in base ai principi dell’affidamento nella normale cedibilità dei crediti, ex art. 1260, primo comma, cod. civ. e dell’inefficacia del contratto nei confronti dei terzi, ex art. 1372 cod. civ., soltanto in quanto, ai sensi dell’art. 1260, secondo comma, cod. civ., sia dimostrato che il cessionario abbia avuto conoscenza effettiva di detto patto al tempo della cessione» (Cass. n. 825/2015; conforme Cass. n. 5129/2020); da ciò conseguono il difetto del presupposto per l’applicabilità dell’art. 1260, 2° co. c.c. e l ‘ inopponibilità alla cessionaria del patto che avrebbe escluso la cessione;
la non opponibilità del patto comporta l’assorbimento (per concreta irrilevanza) della censura concernente la deducibilità della vessatorietà della clausola limitativa da parte della società cessionaria del credito del consumatore;
le spese di lite seguono la soccombenza;
sussistono le condizioni per l’applicazione dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in euro 200,00) e agli accessori di legge, in favore della controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.