Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 1753 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 1753 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/01/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 31395/2019 R.G. proposto da:
ISTITUTO DIOCESANO PER IL SOSTENTAMENTO DEL CLERO DELLA DIOCESI DI LOCRI-GERACE, in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione don NOME COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE per procura in calce al ricorso,
-ricorrente-
contro
COGNOME NOME COGNOME NOME e NOME COGNOME elett.te domiciliati in ROMA, INDIRIZZO
95 presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentati e difesi anche disgiuntamente dagli avvocati NOME COGNOME (SNSPQL36T25D975Z) e NOME COGNOME (CODICE_FISCALE per procura in calce al controricorso,
-controricorrenti- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA n.565/2019 depositata il 15.7.2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5.12.2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con ricorso al Tribunale di Locri, sezione specializzata agraria, l’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero della Diocesi di Locri -Gerace (d’ora in poi per brevità IDSC), in qualità di direttario, subentrato in base alla L.n.222/1985 alla soppressa Prebenda Parrocchiale di San Nicola di Bari in Antonimina, proponeva opposizione all’ordinanza di affrancazione emessa dallo stesso Tribunale in composizione monocratica a favore di COGNOME NOME, COGNOME NOME, NOME Rosa e COGNOME NOME (che aveva ricevuto per donazione con atto del notaio NOME COGNOME del 30.11.2015 i diritti del padre COGNOME NOME subentrando nella sua posizione processuale in fase sommaria), utilisti in forza di rapporto di livello del fondo riportato nel NCT del Comune di Antonimina a foglio 18 particelle 48/AA di are 77,85 e 48/AB di are 3,85, derivato per successione a COGNOME NOMECOGNOME che aveva a sua volta acquistato il dominio utile del fondo con atto del notaio COGNOME del 22.9.1967.
Tale ordinanza aveva determinato il capitale affrancatorio in €1.642,50, in conformità alla richiesta dei ricorrenti, partendo dalla
rendita catastale del fondo (€ 44,21), maggiorata dell’80% in base al coefficiente di rivalutazione dei redditi dominicali previsto dall’art. 3 comma 50 della L. n. 662/1996, ulteriormente rivalutata dall’1.1.1998 sulla base della variazione degli indici Istat del costo della vita (FOI) per mantenere adeguata, con una ragionevole approssimazione, la corrispondenza del capitale di affrancazione all’effettiva realtà economica, secondo il criterio indicato dalla sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 143 del 19/23.5.1997 n. 143, e moltiplicando poi il canone annuo così ottenuto di € 109,50 per quindici annualità.
Nell’opposizione l’IDSC, riproponendo domande ed eccezioni già prospettate nella precedente fase sommaria, lamentava che i ricorrenti, nel richiedere la determinazione del capitale di affrancazione ai sensi della L.n.607/1966, avessero omesso di riferire che in realtà il 21.11.2013 COGNOME NOME e NOME COGNOME avrebbero concordato con dichiarazione scritta con l’ISDC, che il capitale di affrancazione dovuto era di € 4.900,00 e che le prestazioni coloniche arretrate non pagate degli ultimi cinque anni ammontavano ad € 1.900,00 (€ 380,00 annui).
In particolare COGNOME NOME aveva sottoscritto un modulo predisposto dall’ISDC per la richiesta di affrancazione e sia lui che NOME COGNOME avevano provveduto al versamento di acconti per complessivi € 2.500,00 ed il Presidente dell’ISDC, NOME COGNOME delegato dal Consiglio di amministrazione dell’ente con delibera n. 82 del 15.7.2005 a concordare coi livellari richiedenti il capitale affrancatorio, aveva sottoscritto le ricevute degli acconti, contenenti il riferimento all’affranco del terreno, individuato col numero di particella e con la specifica dell’estensione.
L’ISDC riteneva, quindi, che tra le parti fosse intervenuto un valido accordo di affrancazione, almeno per comportamento concludente, e che comunque alla dichiarazione resa da COGNOME NOME dovesse essere attribuito valore confessorio, e chiedeva che i livellari
fossero condannati al pagamento della differenza ancora dovuta tra il canone affrancatorio ed i canoni arretrati pattuiti (€ 6.800,00) e gli acconti già versati (€ 2.500,00), o in subordine al pagamento della differenza tra il canone affrancatorio pattuito di € 380,00 moltiplicato per 15 annualità (€ 5.700,00) oltre agli ultimi due anni (€ 760,00), meno gli acconti versati, con la rivalutazione Istat dalla domanda al saldo, ed in ulteriore subordine chiedeva di rideterminare tramite CTU il canone affrancatorio, tenendo conto del valore venale del fondo, avente natura edificatoria.
Nel giudizio di opposizione i livellari riconoscevano di avere già versato acconti all’ISDC per complessivi € 2.500,00, da imputare per € 1.642,50 a capitale affrancatorio e per il residuo ad elargizioni spontanee, ma negavano che fosse intervenuto un valido accordo tra le parti per la determinazione del capitale affrancatorio, ritenevano quindi pienamente legittimo il loro ricorso alla procedura di affrancazione ex lege n. 607/1966 e concludevano per il rigetto dell’opposizione.
Il Tribunale di Locri, sezione specializzata agraria, con la sentenza n.1225/2016 del 6/9.12.2016 rigettava l’opposizione, confermando il criterio utilizzato e l’importo del capitale affrancatorio determinato in fase sommaria, dichiarava inammissibile la domanda dell’ISDC di condanna dei livellari al pagamento dei canoni scaduti, e condannava l’ISDC alle spese processuali.
Appellata tale sentenza dall’ISDC, che riproponeva le proprie domande ed argomentazioni, la Corte d’Appello di Reggio Calabria, sezione specializzata agraria, con la sentenza n. 565/2019 del 28.6/15.7.2019, nella resistenza di COGNOME NOME, COGNOME NOME, NOME Rosa e COGNOME NOMECOGNOME rigettava l’appello, e condanna l’ISDC al pagamento delle spese processuali di secondo grado, da distrarre in favore dei legali antistatari degli appellati, avvocati NOME e NOME COGNOME.
In particolare la Corte d’Appello rilevava che l’asserita scrittura privata del 2013, essendo rappresentata da una semplice richiesta di affrancazione con offerta di un prezzo di affranco sottoscritta dal solo COGNOME NOME (malgrado l’intestazione anche a NOME COGNOME), e non dagli altri utilisti contitolari del livello, con lo spazio riservato all’indicazione del soggetto che curava la pratica per conto dell’IDSC e della data rimasti in bianco, non poteva valere come accordo scritto di pattuizione del canone affrancatorio, accordo che doveva necessariamente avere la forma scritta ed essere trascritto (in tal senso Trib. Velletri n. 2649/2018).
Quanto alla tesi dell’ISDC della conclusione dell’accordo sul canone affrancatorio per comportamento concludente, ed all’argomento che l’art. 971 cod. civ., applicabile anche in materia di livello (Cass. n. 9135/2012), prevedeva che l’affrancazione potesse essere promossa anche da uno solo degli enfiteuti o livellari sull’intero bene, con subentro dello stesso al concedente verso gli altri enfiteuti, o livellari con eventuale riduzione proporzionale del canone, la Corte d’Appello osservava, che l’affrancazione volontaria, non rientrando nel campo applicativo della L. n. 607 del 1966, che si riferiva al procedimento giudiziale di affrancazione, era ancora regolata dalla L. n. 998 del 1925 e dal R.D. n. 426/1926 quanto alle modalità, mentre l’art. 9 della L. n. 1138 del 1970, nel prevedere che l’affrancazione ‘ si opera…mediante il pagamento ‘ lasciava chiaramente intendere che si era di fronte ad un contratto reale, il cui perfezionamento richiedeva, oltre al consenso delle parti, anche la consegna dell’intero canone affrancatorio pattuito, mentre nel caso di specie vi era stato pacificamente solo un pagamento parziale di esso.
Quanto alla tesi dell’ISDC circa l’asserita natura confessoria della dichiarazione sottoscritta da COGNOME NOME, se riferita all’ammontare del capitale di affranco in essa indicato, riguardava in realtà una mera dichiarazione di scienza, proveniente da uno
solo dei coutilisti, su una grandezza che andava calcolata secondo criteri normativi, e quindi priva di rilevanza, e se riferita invece al fatto che COGNOME NOME e NOME COGNOME fossero d’accordo sull’ammontare del canone affrancatorio ivi indicato, continuava a mancare la prova scritta dell’accordo sia dell’ISDC, che degli altri coutilisti.
Quanto alla tesi dell’ISDC circa la pattuizione nella scrittura privata del 2013 di un canone annuo di € 380,00, la Corte d’Appello la disattendeva, sia in quanto non vi era una specifica indicazione in tal senso in quella scrittura, e trattandosi di un’offerta su base volontaria, non era detto che l’importo complessivo di € 1.900,00 per prestazioni coloniche non pagate fosse stato calcolato su una base annua concordata, sia in quanto comunque la dichiarazione non era stata sottoscritta dall’ISDC e dai coutilisti diversi da COGNOME NOME, che piuttosto, promuovendo il giudizio per la determinazione del capitale affrancatorio, avevano mostrato una volontà contraria all’asserita pregressa determinazione convenzionale dello stesso.
Relativamente ai reclamati interessi per ritardato pagamento, il giudice di secondo grado rilevava che essi afferivano al pagamento dei canoni scaduti per i quali lo stesso ISDC aveva ammesso di procedere con separato giudizio.
Quanto alla riproposta richiesta dell’ISDC di determinazione del capitale affrancatorio anziché secondo il criterio seguito dal Tribunale di Locri in fase sommaria, tenendo conto della giacitura del fondo e del suo effettivo valore e considerando la sua vocazione edificatoria e non più agricola, la Corte d’Appello rilevava che l’ordinanza del Consiglio di Stato richiamata dall’appellante riguardava una questione diversa, essendo relativa a fondi appartenenti al Fondo edifici di culto, che era un ente pubblico, e che comunque se intesa nel senso che il capitale affrancatorio dovesse essere determinato sulla base del prezzo di mercato,
urtava irrimediabilmente contro i principi che erano stati espressi dalla Corte Costituzionale, che aveva escluso ogni possibilità di equiparare l’affrancazione all’espropriazione.
Da ultimo la Corte d’Appello rilevava la genericità ed inammissibilità della censura dell’ISDC relativa all’esattezza del calcolo della rivalutazione, e respingeva la richiesta di applicazione degli ulteriori coefficienti indicati dalla L.n. 221/2012 e dalla L.n.208/2015, che si sarebbe potuta invocare se il capitale affrancatorio avesse avuto una natura risarcitoria e non meramente indennitaria, condannando l’ISDC alle spese processuali di secondo grado in base alla soccombenza.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso a questa Corte l’ISDC, affidandosi a nove motivi, e resistono con controricorso COGNOME NOME, COGNOME NOME, NOME e COGNOME NOMECOGNOME
La Procura Generale, in persona del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME ha concluso per il rigetto del ricorso.
Nell’imminenza della pubblica udienza entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente occorre rilevare che sono inammissibili tutte quelle parti dei motivi fatti valere dall’ISDC nelle quali si lamenta l’erroneità e contraddittorietà della motivazione, in quanto tali vizi, dopo la riforma dell’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c. apportata dal D. Lgs. 2.2.2006 n. 40, non sono più censurabili.
Col primo motivo l’ISDC lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n.5) c.p.c., la violazione del divieto di ripristino della normativa di cui alla L.n.998 del 1925, al R.D. n. 426/1926 ed all’art. 9 della L. n. 1138 del 1970, che sarebbero stati abrogati dall’art. 1 della L. ( rectius D. Lgs.) 13.12.2010 n.212, nonché la contraddittorietà della motivazione.
Si duole parte ricorrente, che la sentenza impugnata abbia escluso la possibilità della conclusione di un accordo sul canone affrancatorio per comportamento concludente, con la motivazione che la L. n. 998 del 1925, il R.D. n. 426/1926 e l’art. 9 della L.n.1138 del 1970 avrebbero previsto la realizzazione dell’affrancazione solo col pagamento dell’intero canone affrancatorio, lasciando così intendere che un eventuale accordo sulla misura del canone affrancatorio avrebbe necessariamente la natura di contratto reale, perfezionabile solo col pagamento integrale dell’intero canone e non solo di acconti, ancorché quelle disposizioni sarebbero state abrogate dall’art. 1 del D.Lgs. 13.12.2010 n. 212.
Al di là dell’improprio richiamo al vizio dell’art. 360 comma primo n.5) c.p.c., che può essere invocato per l’omessa considerazione di un fatto storico primario, o secondario, decisivo, oggetto di discussione tra le parti, e non per un’asserita violazione di legge, il motivo é privo di pregio, in quanto l’art. 1 del D. Lgs. 13.12.2010 n. 212 ha abrogato soltanto il R.D. n. 426/1926, che conteneva disposizioni applicative della L. n. 998/1925, ma non quest’ultima legge, che all’art. 15 prevede espressamente la trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di determinazione del capitale affrancatorio stipulato tra il concedente e l’affrancante, né l’art. 9 della L. n. 1138/1970, il quale ultimo stabilisce che ‘ l’affrancazione del fondo si opera in ogni caso, anche quando si tratti di enfiteusi urbane o edificatorie, mediante il pagamento di una somma pari a 15 volte l’ammontare del canone ‘.
Peraltro la sentenza impugnata, per respingere la censura inerente alla mancata considerazione della conclusione dell’accordo sul canone affrancatorio per comportamento concludente, ha anche richiamato quella giurisprudenza di merito (Trib. Velletri n.2649/2018) che ritiene indispensabile per l’affrancazione la forma scritta e la transazione, che evidentemente poggia proprio sulla
previsione dell’art. 15 della L. n. 998/1925, che richiedendo la trascrizione nei registri immobiliari presuppone la forma scritta della convenzione tra concedente ed affrancante, e tale motivazione non é stata censurata da parte ricorrente e resta da sola sufficiente a sorreggere la sentenza impugnata.
Col secondo motivo l’IDSC lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., la violazione degli articoli 1326, 1328, 1333, 1334, 1335 e 1350 n. 6 cod. civ..
Si duole parte ricorrente che la Corte d’Appello, travisando le risultanze probatorie, non abbia ritenuto intervenuta la conclusione della convenzione sul canone affrancatorio ex art. 1333 cod. civ. sulla base della proposta sottoscritta nel 2013 da COGNOME NOME ed accettata per comportamento concludente dall’ISDC, il cui Presidente, delegato dal Consiglio di Amministrazione a trattare coi livellari per la determinazione del canone affrancatorio, aveva poi sottoscritto alcune ricevute di versamento di acconti, che facevano espresso riferimento all’affrancazione del fondo in questione.
A parte l’improprio richiamo all’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c. al di fuori del suo ambito applicativo, il motivo é chiaramente volto ad ottenere una diversa ricostruzione in fatto, da ritenere preclusa in sede di legittimità, posto che la Corte d’Appello ha già accertato che il modulo contenente la proposta di affrancazione del 2013 é stato sottoscritto solo da uno dei coutilisti, COGNOME NOME, e non dagli altri coutilisti, né dall’ISDC, ed essendo richiesta la forma scritta e la trascrizione conseguente, ha ovviamente escluso che l’accordo possa essersi perfezionato secondo lo schema dell’art. 1333 cod. civ., nel contempo evidenziando che l’effetto dell’affrancazione si realizza solo col pagamento integrale del canone affrancatorio, giudizialmente determinato, o pattuito per iscritto dalle parti.
Col terzo motivo l’ISDC lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., la violazione degli articoli 971, 961 e 195 cod. civ..
Si duole parte ricorrente, che l’impugnata sentenza non avrebbe considerato, che secondo l’art. 971 cod. civ., se più sono gli enfiteuti, l’affrancazione può essere promossa anche da uno solo di essi, ma per la totalità, e che in tal caso l’affrancante subentra nei diritti del concedente verso gli altri enfiteuti, salva a favore di questi, una riduzione proporzionale del canone.
Il terzo motivo é inammissibile, perché non coglie la ratio della decisione impugnata, che si é basata da un lato sul fatto che la semplice proposta di affrancazione sottoscritta solo da uno dei coutilisti non poteva costituire valida pattuizione del canone affrancatorio, e che non era stato neppure pagato integralmente il canone affrancatorio, che si ipotizzava pattuito in quella proposta, non producendosi quindi alcun effetto di affrancazione per il mero versamento di acconti su di esso, e dall’altro sul fatto che la domanda giudiziale di affrancazione era stata invece presentata da tutti e tre i livellari coutilisti, COGNOME NOME, COGNOME NOME e NOME COGNOME che in assenza di un valido accordo pregresso, avevano legittimamente richiesto al Tribunale di Locri di determinare in fase sommaria l’ammontare del canone affrancatorio secondo i criteri previsti dalla legge ed integrati dagli interventi della Corte Costituzionale.
Col quarto motivo l’IDSC lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., l’erroneità e contraddittorietà della motivazione ed il travisamento dei fatti, sostenendo che erroneamente la Corte d’Appello non abbia qualificato come transattivo l’accordo risultante dalla proposta di affrancazione e dalle ricevute degli acconti.
Col quinto motivo l’ISDC lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., l’erroneità della motivazione ed il
travisamento del fatto, sostenendo che erroneamente la Corte d’Appello non avrebbe ritenuto pattuito neppure il canone annuo di € 380,00.
Il quarto ed il quinto motivo, che ancora una volta richiamano a sproposito l’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., perché non individuano fatti storici decisivi oggetto di discussione tra le parti che non siano stati considerati, oltre a non considerare la previsione dell’art. 348 ter ultimo comma c.p.c., sono esaminabili congiuntamente, in quanto entrambi inammissibili, perché tendenti ad ottenere, in sede di legittimità, una diversa valutazione in fatto rispetto a quella motivatamente espressa dalla Corte d’Appello. Addirittura col quarto motivo l’ISDC, andando contro la linea difensiva seguita in appello, allorché per contrastare la decisione del Tribunale di Locri che aveva negato l’esistenza degli elementi costitutivi della transazione, aveva affermato di non aver voluto far valere la scrittura privata del 2013 come transazione, ma come accordo sul canone affrancatorio, torna invece a sostenere che dalla combinazione della proposta di affrancazione sottoscritta da COGNOME NOME e delle ricevute relative agli acconti firmate dal suo Presidente risulterebbe una transazione, ma la qualificazione giuridica e la ricostruzione del fatto sono state ormai definitivamente compiute dai giudici di merito. Col quinto motivo, poi, parte ricorrente neppure si confronta con la motivazione sul punto addotta nel capoverso di pagina 4 dall’impugnata sentenza.
Col sesto motivo, l’ISDC lamenta la condanna alle spese e l’omessa applicazione del minimo tariffario in relazione alla tabella 12 dell’attività giudiziaria in Corte d’Appello.
Tale motivo é inammissibile, in quanto non indica neppure quali sarebbero le norme di legge violate, e sembra ipotizzare l’esistenza di un diritto della parte soccombente alla liquidazione del minimo tariffario, inconfigurabile secondo il nostro diritto.
7) Col settimo motivo, l’ISDC lamenta l’erroneità della motivazione ed il travisamento dei fatti in ordine alla mancata attribuzione di rilievo alla valenza edificatoria del fondo per il quale é stato determinato il canone affrancatorio, che avrebbe dovuto indurre ad incaricare un CTU per la stima del valore venale del fondo, in linea col parere espresso dal Consiglio di Stato n. 1278 del 17.4.2014.
Tale motivo é inammissibile, in quanto involge preliminarmente un accertamento in fatto sulla natura edificatoria del fondo oggetto della domanda di affrancazione, che evidentemente non può essere svolto in questa sede, e comunque anche perché non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, che, al capoverso dell’ultima pagina, ha spiegato che l’ordinanza del Consiglio di Stato invocata dall’ISDC (da individuarsi nell’ordinanza n. 1278 del 17.4.2014 nella quale il Consiglio di Stato ha solo espresso un parere) si riferiva ad un’ipotesi diversa da quella qui in esame di determinazione del canone affrancatorio, riguardando una fattispecie in cui i diritti del concedente Fondo RAGIONE_SOCIALE erano stati espropriati e si doveva procedere quindi alla determinazione dell’indennità di esproprio spettante a quell’ente pubblico, e non alla determinazione del canone affrancatorio dovuto dal titolare del livello al concedente che già aveva percepito in passato i canoni annui, e nel motivo non si muove alcuna censura sul punto.
In ogni caso il criterio di calcolo del capitale affrancatorio seguito dai giudici di merito é stato corretto, in quanto la giurisprudenza della Corte Costituzionale (vedi da ultimo Corte Cost. n. 143/1997) ha preso in considerazione i criteri di determinazione del canone enfiteutico (che valgono anche per il livello, assimilabile all’enfiteusi secondo Cass. sez. un. 15.1.2021 n. 617; Cass. 6.4.2001 n. 5154; Cass. n. 16821/1963) in correlazione all’ammontare del capitale di affranco, ed ha ritenuto che il ricorso al reddito imponibile quale risulta dai dati catastali, considerati un mezzo possibile per
conseguire il riferimento ad un reddito su base orientativa, non sia di per sé illegittimo (Corte Cost. n. 145/1973). La Consulta ha anche attribuito rilievo, per l’affrancazione del fondo, che in base alle leggi speciali richiede la moltiplicazione per quindici annualità, alla dissociazione tra il momento a cui va riferito il calcolo del valore base del diritto, ancorato a valori catastali talvolta remoti nel tempo, ed il momento in cui il diritto da indennizzare viene colpito. In questa prospettiva è stato ritenuto in contrasto con la Costituzione il congegno determinato dalla legge che, per quanto riguarda la misura dei canoni e correlativamente i capitali di affranco, operava una dissociazione profonda ed incolmabile tra questi due momenti, tale da far scendere il capitale di affranco al di sotto del livello dell’equa valutazione richiesta dall’art. 42, terzo comma, della Costituzione (Corte Cost. n. 37/1969). E’ stato così avallato dalla sentenza n. 143/1997 della Corte Costituzionale l’utilizzo del coefficiente di rivalutazione dei redditi dominicali previsto dall’art. 3 comma 50 della L.n.662/1996, comportante una maggiorazione alla fine del 1997 dell’80% della rendita catastale, e per il periodo successivo, a partire dall’1.1.1998, l’adeguamento dell’indennizzo fino alla data dell’affrancazione é avvenuto applicando la variazione degli indici Istat del costo della vita (FOI) per mantenere adeguata, con una ragionevole approssimazione, la corrispondenza del capitale di affrancazione all’effettiva realtà economica. La Corte Costituzionale ha inoltre affermato che é arbitrario equiparare all’espropriazione l’esercizio della facoltà di riscatto della piena proprietà mediante l’affrancazione (Corte Cost. n. 53/1974), ed ha precisato che le norme con le quali sono stati stabiliti nuovi criteri di determinazione del canone, e quindi del capitale di affranco, non sono soggette al requisito della giustificazione per motivi di interesse generale statuito dal terzo comma dell’art. 42 della Costituzione, né possono essere confrontate con le norme in tema di espropriazione per pubblica
utilità, in riferimento all’art. 3 della Costituzione (vedi Corte Cost. n. 246/1984), per cui il tentativo di parte ricorrente di invocare per l’affrancazione il riferimento al valore venale del fondo non può trovare accoglimento.
Con l’ottavo motivo l’ISDC lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 1) c.p.c. la violazione delle leggi n. 221/2012 e n.208/2015 per la mancata applicazione in sede di determinazione del canone affrancatorio dei moltiplicatori previsti da quelle leggi, essendo stato applicato solo il moltiplicatore dell’80% previsto per la rivalutazione dei redditi dominicali dall’art. 3 comma 50 della L.n. 662/1996.
Tale motivo é inammissibile, in quanto sottopone a censura l’intero corpo delle leggi n. 221/2012 e n. 208/2015, senza individuare le specifiche disposizioni che sarebbero state violate, rimettendo quindi a questa Corte l’onere della loro individuazione. Per giurisprudenza consolidata di questa Corte, infatti, il ricorso per cassazione con cui si denuncia la violazione di legge in relazione ad un intero corpo di norme è inammissibile, precludendo al collegio di individuare la norma che si assume violata o falsamente applicata (Cass. 10119/2024; Cass. sez. un. 18.7.2013 n. 17555; Cass. n.16038/2013; Cass. n.4233/2012; Cass. n. 5353/2007). A ciò va aggiunto che il motivo neppure si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, che nel secondo capoverso dell’ultima pagina, ha spiegato che la mancata applicazione dei coefficienti moltiplicatori previsti dalle leggi n. 221/2012 e n. 208/2015 é dipesa dal fatto che si trattava di determinare il canone affrancatorio, avente natura indennitaria e non risarcitoria, e contro tale motivazione non risulta proposta alcuna censura.
Col nono motivo l’ISDC lamenta di essere stato condannato alle spese processuali, alla luce delle dichiarazioni rese da COGNOME NOME e delle discordanti decisioni adottate sulla stessa questione da altro giudice del Tribunale di Locri.
Tale ultimo motivo, formulato approssimativamente per il mancato richiamo delle norme violate (artt. 360 comma primo n. 3) e 91 c.p.c.), ma comunque indicato in fatto, é infondato, in quanto la Corte d’Appello ha correttamente applicato il principio della soccombenza dell’art. 91 c.p.c..
In base a tale principio l’IDSC va condannato al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità dei controricorrenti, liquidate in dispositivo, da distrarre in favore dei legali antistatari, avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Occorre dare atto che sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002 per imporre un ulteriore contributo unificato a carico del ricorrente, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione respinge il ricorso dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero della Diocesi di Locri -Gerace e lo condanna al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità dei controricorrenti, liquidate in € 200,00 per spese ed €2.500,00 per compensi, oltre IVA, CA e rimborso spese generali del 15%, da distrarre in favore dei legali antistatari, avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME. Visto l’art. 13 comma 1quater D.P.R. n.115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per imporre un ulteriore contributo unificato a carico del ricorrente, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 5.11.2024