Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 1433 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 1433 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 15/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso 33054 -2018 proposto da:
COGNOME, elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME giusta procura in calce al ricorso, con indicazione de ll’ indirizzo pec;
– ricorrente –
contro
LA RAGIONE_SOCIALE di NOME RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’ avv. NOME COGNOME giusta procura speciale allegata al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 738/2018 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, pubblicata il 20/8/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
30/5/2023 dal consigliere NOME COGNOME
lette le memorie delle parti.
FATTI DI CAUSA
Con citazione del 28 gennaio 2009, RAGIONE_SOCIALE di COGNOME RAGIONE_SOCIALE convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Messina, NOME COGNOME chiedendo fosse dichiarata la risoluzione per inadempimento del contratto preliminare di affitto di azienda con lui stipulato in data 17/5/07.
Con sentenza n. 2307/2016, il Tribunale di Messina accolse la domanda, condannando il convenuto al pagamento della somma di Euro 15.800,00, oltre interessi e spese.
In particolare, il Tribunale ravvisò l’inadempimento di COGNOME nel parziale mancato versamento della somma dovuta a titolo di caparra confirmatoria (Euro 15.800 su un totale di Euro 110.000,00 dovuto), nel rifiuto a presentarsi innanzi al notaio per la stipula del definitivo, nell’esecuzione, in mancanza di accordo preventivo, di lavori di manutenzione straordinaria sull’immobile , nell’abbandono dell’attività alberghiera avviata prima della stipula del definitivo.
3 . Rigettando l’appello principale di COGNOME e in accoglimento dell’appello incidentale della s.a.s. La Fornace, con sentenza n. 738/2018, la Corte d’appello di Messina condannò COGNOME al rilascio dell’azienda oggetto del preliminare e al pagamento di Euro 82.500,00 a titolo di risarcimento del danno per l’utilizzo dell’azienda in assenza di titolo, fino alla pronuncia della sentenza, utilizzando quale parametro il canone mensile pattuito, pari ad Euro 3.700,00, oltre il pagamento di ulteriori Euro 3.700,00 per ogni mese di ulteriore detenzione dell’azi enda fino al rilascio.
In particolare, la Corte ribadì che i contraenti, nella premessa dell’accordo, «avevano dato atto della distinzione tra la concedenda azienda, oggetto del preliminare e l’immobile ove aveva sede l’azienda stessa» che «avrebbe dovuto avere altra regolamentazione contrattuale», sicché COGNOME avrebbe dovuto «prefigurare a suo carico l’evenienza dell’ulteriore onere di un canone locativo».
Avverso questa sentenza, NOME COGNOME ha proposto ricorso, affidato a cinque motivi a cui RAGIONE_SOCIALE di COGNOME RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, COGNOME ha prospettato, in riferimento ai nn. 3, 4 e 5 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ. la violazione e falsa applicazione dell’art. 1385 cod. civ., per avere la Corte erroneamente ritenuto che le somme previste in contratto fossero state convenute tutte a titolo di caparra, seppure la qualificazione a tale titolo esigerebbe una «prova rigorosa» e per aver omesso un’adeguata motivazione sul punto.
1.1. Il motivo è inammissibile per più ragioni.
La consegna anticipata di una somma di denaro effettuata dall’uno all’altro dei contraenti al momento della conclusione di un negozio ha natura di caparra confirmatoria quando risulti che le parti abbiano inteso perseguire gli scopi di cui all’art. 1385 cod.civ., ovvero attribuirle la funzione di liquidazione convenzionale del danno da inadempimento qualora la parte non inadempiente abbia esercitato il potere di recesso, mentre ha natura di deposito cauzionale qualora essa sia stata conferita a garanzia di un eventuale obbligo di risarcimento del danno del cauzionante. L’accertamento relativo alla natura del negozio giuridico connesso alla dazione di denaro è riservato al giudice di merito ed è sindacabile in cassazione soltanto sotto il
profilo del vizio di motivazione (Cass. Sez. 3, n. 4411 del 04/03/2004; Sez. 3, n. 6966 del 22/03/2007).
La censura per vizio di motivazione, tuttavia, non è più proponibile se non nei limiti del n. 5 e, cioè, dell’omesso esame di un fatto decisivo. Nella specie, però, anche questa censura ex n. 5 è preclusa ex art. 348 ter IV comma cod. proc. civ., applicabile alla fattispecie perché l’appello è stato proposto nel 2016: l’appello è stato, infatti, rigettato sulla base dello stesso iter logico del primo Giudice e, per principio consolidato, ricorre l’ipotesi di «doppia conforme», ai sensi dell’art. 348 ter, commi 4 e 5, cod. proc. civ., con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., non soltanto quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (Cass. Sez. 6 – 2, n. 7724 del 09/03/2022).
Quanto alla violazione di legge, l’interpretazione della volontà delle parti di convenire, in preliminare, a titolo di caparra tutte le somme indicate, da corrispondersi in tempi successivi, per la complessiva somma di Euro 110.000,00 è stata motivata dalla Corte territoriale in riferimento alla stessa qualifica adoperata in contratto, «inequivocabile» e «neppure smentita dalla pattuizione che avrebbe riversato e convertito come canoni di affitto dell’azienda parte della cifra, ma all orquando l’affitto fos se stato stipulato» con contratto definitivo (pag.10 e 11 della sentenza).
La ricostruzione della volontà dei contraenti risulta plausibile, atteso che, come si evince dallo stesso testo del contratto riportato in ricorso, con la conclusione del contratto definitivo e la regolare
esecuzione del rapporto, l’intera somma di Euro 110.000,00 sarebbe stata scomputata da quanto dovuto a titolo di canoni mensili, con un importo fissato anno per anno (Euro 22.500,00 con i primi sei mesi di affitto e, poi, l’ulteriore somma di Euro 87.500,0 0 in frazioni di Euro 21.875,00 per ciascun anno): lo scomputo delle somme versate non è compatibile con la funzione di un deposito cauzionale che si identifica nella garanzia di un eventuale obbligo di risarcimento del danno del cauzionante al termine del contratto di locazione; l’obbligo del locatore di restituire il deposito cauzionale sorge perciò soltanto a tale epoca, ma se il conduttore abbia integralmente adempiuto alle proprie obbligazioni, giacché, diversamente, assume rilievo la funzione specifica del deposito, che è quella di garantire preventivamente il locatore dagli inadempimenti del conduttore (Cass. Sez. 3, n. 538 del 20/01/1997; Sez. 6 – 3, n. 194 del 05/01/2023).
Come offerta in motivazione, dunque, l ‘interpretazione della Corte d’appello non è stata adeguatamente censurata dal ricorrente che aveva l’onere, per contestare la funzione di caparra confirmatoria delle somme consegnate, di specificare quali canoni di interpretazione fossero stati violati in concreto, non potendo limitarsi ad offrire soltanto una interpretazione diversa da quella accolta nella sentenza impugnata, poiché, per giurisprudenza consolidata, quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma sol tanto una delle possibili interpretazioni plausibili (Cass. Sez. 1, n. 9461 del 09/04/2021; Sez. 1, n. 16987 del 27/06/2018; Sez. 3, n. 28319 del 28/11/2017).
Con il secondo motivo, il ricorrente ha lamentato, in riferimento ancora una volta ai nn. 3, 4 e 5 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., la erronea valutazione di gravità dell’inadempimento «se è vero che la caparra convenuta fosse pari ad Euro 95.000», perché
in tal caso la somma non versata sarebbe di soli Euro 800,00 e non di Euro 15.000,00.
2.1. Il motivo è assorbito dalla dichiarazione di inammissibilità della prima censura, di cui è stato articolato come conseguenza: la caparra confirmatoria deve intendersi correttamente ravvisata nella dazione dell’intera somma di Euro 110.000,00.
Con il terzo motivo, COGNOME ha sostenuto, in riferimento ai nn. 3, 4 e 5 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., che la Corte d’appello avrebbe considerato legittimo l’esercizio del diritto di recesso ex art. 1385 cod.civ. pur avendo accertato che il contratto aveva avuto un principio di esecuzione: in tal caso, invece, ex art. 1373 cod. civ., la facoltà di recesso non avrebbe potuto essere esercitata.
3.1. Il motivo è infondato. Il recesso unilaterale dal contratto, previsto dall’art. 1385, secondo comma, cod. civ., è di natura legale e non convenzionale, trovando la sua giustificazione nell’inadempienza dell’altra parte, laddove l’art. 1373, primo comma, cod. civ., secondo il quale il recesso non può essere esercitato quando il contratto abbia avuto un principio di esecuzione, riguarda esclusivamente il recesso convenzionale e non anche quello stabilito dall’art. 1385 in favore del contraente non inadempiente (Cass. Sez. 2, n. 21085 del 2022; Sez. 2, n. 12860 del 1993).
Con il quarto motivo, COGNOME ha prospettato, in riferimento ai nn. 3, 4 e 5 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ. la violazione dell’art. 1385 cod. civ. e dei principi generali di cui agli art. 1453 e ss . cod. civ. per aver la Corte ritenuto il suo inadempimento, nonostante fosse stato rappresentato che la mancata stipula del definitivo fosse imputabile al comportamento della concedente che aveva preteso un ulteriore canone di locazione per l’immobile in cui avrebbe dovuto essere esercitata l’impresa, nonché la violazione degli art. 1362 cod. civ. e ss. per avere la Corte offerto un’interpretazione non corretta del
contratto e dell’art. 116 cod. proc. civ. per non avere la Corte valutato i fatti non contestati e il comportamento processuale delle parti.
4.1. Il motivo è infondato.
Nella sentenza impugnata la Corte ha rimarcato che la «sorpresa» addotta dal promissario conduttore nel «vedere successivamente a sé addebitati pure i costi di una correlata locazione dell’immobile ove aveva sede l’azienda, contraddice di già il dato contrattuale del preliminare» perché sin dalla premessa risulta operata una distinzione tra la concessione in affitto dell’azienda, oggetto del preliminare e la locazione dell’immobile; ha perciò utilizzato il criterio letterale per interpretare la volontà delle parti.
Articolando il motivo di ricorso, ancora una volta, il ricorrente non ha adeguatamente censurato questa interpretazione del contratto offerta in sentenza e, in particolare, l’esclusione della locazione dell’immobile dall’oggetto del contratto di affitto di azienda.
Queste considerazioni conducono a ritenere inammissibile il quinto motivo, con cui il ricorrente ha infine sostenuto, in riferimento ai nn. 3, 4 e 5 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ. la violazione e falsa applicazione di imprecisate norme di diritto per avere la Corte omesso di rilevare che, qualora si ritenesse che «l’uso a tito lo gratuito dei muri» non fosse contemplato nel preliminare di affitto, il contratto risulterebbe nullo per indeterminatezza dell’oggetto non risultando determinato il prezzo della locazione.
5.1. Il motivo è, infatti, inconferente rispetto alla ratio decidendi già esposta : la Corte d’appello non ha incluso ne ll’oggetto del preliminare di affitto di azienda la locazione dell’immobile dove svolgere l’impresa ; al contrario, ha esplicitamente affermato che, nella premessa del contratto di affitto, «i contraenti avevano dato atto della distinzione tra la concedenda azienda, oggetto del preliminare e
l’immobile ove aveva sede l’azienda stessa e che avrebbe dovuto avere altra regolamentazione contrattuale»
Il ricorso è perciò respinto, con conseguente condanna di NOME COGNOME al rimborso delle spese processuali in favore della RAGIONE_SOCIALE di COGNOME RAGIONE_SOCIALE, liquidate in dispositivo in relazione al valore indeterminabile.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna NOME COGNOME al pagamento, in favore di RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda