Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 9398 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 9398 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 38481/2019 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende
-controricorrente-
nonché contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che l a rappresenta e difende
-controricorrente-
e contro
COGNOME, DI NOME COGNOME, COGNOME, RAGIONE_SOCIALE, DI NOME COGNOME NOME
-intimati- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO ROMA n. 3934/2019 depositata il 12/06/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/01/2025 dal Consigliere dr. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Banca di Roma s.p.a. chiese al Tribunale di Roma, ai sensi dell’art. 2901 c.c., la declaratoria di inefficacia di una serie di contratti di compravendita nei confronti, per quel che ancora interessa, di NOME COGNOME e NOME COGNOME, Charlotte RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME.
Si trattava, in particolare, del contratto in data 10 marzo 2003 con il quale COGNOME e COGNOME avevano alienate alla RAGIONE_SOCIALE alcune porzioni immobiliari (un appartamento, una cantina e due autorimesse) site in Roma, INDIRIZZO nonché dei successivi contratti con i quali tali porzioni immobiliari sono state in seguito trasferite.
In via subordinata, l’attrice richiese la condanna della RAGIONE_SOCIALE al pagamento del controvalore monetario degli immobili dalla stessa alienati, oltre interessi legali.
In esito all’istruttoria, il giudice adito accolse in gran parte la domanda. In particolare, dichiarò l’inefficacia dei primo contratto di compravendita del 10 marzo 2003, nonché di quelli successivi del 30 luglio 2003, del 12 novembre 2003 e del 7 marzo 2006, condannando altresì la RAGIONE_SOCIALE al risarcimento dei danni in favore della Banca di Roma s.p.a., liquidati in misura pari ‘alla differenza tra 1’importo di euro 361.519,83, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali sulla somma rivalutata anno per anno a decorrere dal 10 marzo 2003 sino alla data di pubblicazione della sentenza e 1’importo di euro 49.000,00, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali sulla somma rivalutata anno per anno a decorrere dal 7 marzo 2006 sino alla data di pubblicazione della sentenza ‘ .
Con separati atti, la predetta decisione fu gravata dai soccombenti. Si costituì ritualmente Unicredit RAGIONE_SOCIALE quale mandataria di Unicredit Banca di Roma s.p.a., concludendo per la reiezione degli appelli.
Con sentenza n. 6262 del 12 giugno 2019 la Corte d’appello di Roma rigettò l’impugnazione di NOME COGNOME e NOME COGNOME, nonché quello di RAGIONE_SOCIALE mentre, in parziale riforma della decisione di primo grado, accolse gli appelli proposti da COGNOMERAGIONE_SOCIALE e COGNOME, rigettando la domanda di revocatoria relativamente ai contratti del 30 luglio 2003, del 12 novembre 2003 e del 7 marzo 2006.
I giudici di secondo grado respinsero dapprima il rilievo degli appellanti che in giudizio avesse agito Unicredit s.p.aRAGIONE_SOCIALE, già Banca di Roma, con codice fiscale CODICE_FISCALE e dunque una società diversa dalla creditrice. Affermarono che erano state allegate e provate le intervenute modificazioni soggettive della creditrice. Infatti, la domanda era stata proposta da RAGIONE_SOCIALE quale società facente parte del gruppo bancario Capitalia, in qualità di mandataria, giusta procura per atto del 28.5.2003, da parte di Banca di Roma s.p.a., già denominata RAGIONE_SOCIALE, conferitaria della Banca di
Roma s.p.a. Successivamente era intervenuta in giudizio Unicredit RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE, incorporante RAGIONE_SOCIALE quale mandataria della Unicredit s.p.a., a sua volta incorporante per fusione la Unicredit Banca di Roma. I crediti presupposti all’azione revocatoria risultavano conferiti alia “Nuova Banca di Roma s.p.a.”, già “Minghetti Finanziaria RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE, poi “RAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE” per poi ancora divenire dapprima Banca di Roma S.p.A. (di seguito “Unicredit Banca di Roma) ed infine Unicredit Banca di Roma S.p.A.”. In definitiva, avrebbe agito in giudizio appunto la società titolare del diritto di credito o divenuta tale a seguito delle vicende successorie o di modificazione societaria che avevano coinvolto il gruppo di cui faceva parte l’appellata.
Nel merito, la Corte territoriale respinse l’eccezione di prescrizione, affermando che l’atto dispositivo con il quale il debitore aveva sottratto la garanzia patrimoniale non potesse che essere il contratto definitivo, giacché con tale atto si sarebbe realizzato l’eventus damni .
Nella ricostruzione della fattispecie, sostenne altresì che la qualità di creditore, ai fini dell’azione revocatoria, potesse prescindere dall’accertamento di un credito certo, liquido ed esigibile e che a tal fine potesse essere assoggettato anche il fideiussore, ricoprendo la veste di obbligato in solido. L’eventus damni avrebbe dovuto essere verificato al momento del definitivo e, nel caso di specie, la preesistenza del debito, accertata con riferimento alla prestazione della garanzia fideiussoria, sarebbe stata certamente anteriore al momento della revoca degli affidamenti. Inoltre , una volta accertato che l’atto di disposizione fra COGNOME NOME e NOME era successivo al sorgere del credito, plurimi indizi avrebbero deposto nel senso della conoscenza da parte degli alienanti dei danni che l’atto oggetto di revocatoria avrebbe arrecato alle ragioni del creditore. Il requisito del consilium fraudis degli alienanti, in particolare, sarebbe stato individuabile nella dismissione, attraverso la conclusione di diversi contratti preliminari, della proprietà dl una parte rilevante, pressoché integrale, del patrimonio immobiliare dei medesimi alienanti; nella realizzazione di tali operazioni in un arco temporale, circoscritto e coincidente con l’emergere della crisi dell’attività delle garantite e con le
varie iniziative intraprese per il recupero del credito, che avevano portato all’emissione di decreti ingiuntivi anche nei confronti degli alienanti e delle successive sentenze, scaturite dai giudizi di opposizione.
RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, sulla scorta di sette motivi. Si sono costituiti con distinti controricorsi NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE, quale mandataria di Unicredit s.p.a. Sono rimasti intimati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
In prossimità della camera di consiglio, la ricorrente e la COGNOME hanno depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con la prima doglianza, proposta ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., la ricorrente assume la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. nonché 118 disp. att. c.p.c., 111 comma 6° Cost. e art. 6 CEDU. Il motivo è così rubricato: ‘Violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c., 111 comma 6 Cost e art. 6 CEDU in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. quanto alla anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante per essere la motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile in ordine alla legittimazione attiva della Banca ed alla prova della legittimazione ‘.
La Banca di Roma s.p.a., poi RAGIONE_SOCIALE, non avrebbe dimostrato di aver conferito i propri crediti alla Banca di Roma s.p.a. gruppo Capitalia, già denominata RAGIONE_SOCIALE, né avrebbe dimostrato il conferimento dei beni compresi nel ramo d’azienda.
In particolare, non sarebbe mai stato depositato, neppure in copia conforme, l’allegato C al rogito 14.05.02 Notar Mariconda, rep. 41572 racc. 11009 nel quale sarebbero stati indicati -secondo controparte – i beni compresi nel ramo d’azienda conferito dal socio unico Banca di Roma S.p.A. C.F. P_IVA alla Nuova Banca di Roma S.p.A. CF P_IVA.
L’eccezione di carenza di legittimazione attiva svolta in appello non sarebbe stata chiaramente presa in considerazione dalla sentenza impugnata, che
avrebbe ulteriormente confuso l’atto di cessione del credito, indicando due date e due numeri di repertorio distinti.
Il motivo è inammissibile.
Va premesso che nel processo opera il principio secondo cui la qualità di parte legittimata a proporre l’impugnazione, o a resistere ad essa, spetta a chi abbia assunto la veste di parte nel giudizio di merito conclusosi con la decisione impugnata, indipendentemente dalla effettiva titolarità (dal lato attivo o passivo) del rapporto sostanziale dedotto in giudizio (Sez. 6-1, n. 17234 del 29 luglio 2014).
In ogni caso, l’eccezione è stata esaminata dalla Corte territoriale (benché formulata in sede di comparsa conclusionale), coerentemente con l’indirizzo per il quale la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda (Sez. U. n. 2951 del 16 febbraio 2016; Sez. 6-3, n. 22525 del 24 settembre 2018).
Orbene, la sentenza impugnata ha affermato ‘ L’eccezione è infondata dal momento che sono state allegate e provate le intervenute modificazioni soggettive del creditore ‘ e, dopo aver passato in rassegna la successione dei titoli e dei soggetti interessati, ha concluso il punto sottolineando ‘ Dunque, ha agito in giudizio la società titolare del diritto di credito o divenuta tale a seguito delle vicende successorie o di modificazione societaria che hanno coinvolto il gruppo di cui fa parte l’appellata ‘.
Ove si consideri che l’azione è stata incoata in funzione revocatoria , rileva una nozione lata di credito, comprensiva della ragione o aspettativa, con la conseguenza che anche il credito incerto è idoneo a determinare l’insorgere della qualità di creditore abilitato all’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria (Sez. 3, n. 4212 del 19 febbraio 2020).
D’altronde, il rilievo mosso dalla società ricorrente è aspecifico, nella misura in cui pretende di ricavare dal mancato deposito dell’allegato C ‘all’atto Mariconda racc. 41572 del 14.5.2002’ la prova dell’inesistenza del credito avversario . L’esame del rogito in questione mostra infatti come sia stato ceduto l’intero ramo d’azienda (art. 1), con tutti gli ‘annessi e connessi, accessioni e
pertinenze, diritti, azioni e ragioni’ (art. 2). L’atto afferma all’uopo che il complesso dei rapporti ceduti e del loro contenuto sono descritti nella lettera C, di cui si attesta l’allegazione al rogito medesimo, sicché appare evidente che il rapporto in causa è ricompreso nella cessione del ramo, in mancanza di una puntuale e precisa contestazione sul piano fattuale.
Attraverso la seconda censura, proposta sempre ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., RAGIONE_SOCIALE deduce altresì la violazione dell’art. 112 c.p.c. e del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, ed, in particolare, per aver la Corte distrettuale mancato di delibare i motivi di appello nn. 6, 7 e 8. Sarebbero state omesse le seguenti censure: 6) ‘ Violazione e falsa applicazione di norme di legge di cui all’ art.2697 c.c. in relazione al l’art. 2901 c.c. sul punto relativo alia sussistenza del requisito soggettivo del possesso della veste di creditore ‘ ; 7) ‘ Violazione e falsa applicazione di norme di legge di cui all’art.2697 c. c. in relazione al l’art 2901 c.c. e 2704 c. c. sul punto relativo alla data certa del preteso debitore ‘ ; 8) ‘ Violazione e falsa applicazione di norme di legge di cui all ‘ art.2697 c.c. in relazione al l’art. 2901 c.c. sul punto relativo alla sussistenza del requisito oggettivo dell ‘ eventus damni . ‘
Nel dettaglio, la Corte territoriale avrebbe condannato la ricorrente, senza che fossero stati accertati né l’esistenza né il credito della Banca, né il suo ammontare e senza alcuna pronunzia in merito alle eccezioni di nullità relative ai contratti di fideiussione stipulati con l’istituto di credito e circa le eccezioni di nullità relative ai contratti di fideiussione asseritamente stipulati da COGNOME e COGNOME con la Banca.
2.1. Con il terzo mezzo di impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. e del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., in relazione all’omessa pronunzia circa il nono motivo di appello (così rubricato ‘ Violazione e falsa applicazione di norme di legge artt. 99 e 112 c.p.c. in relazione al 2901 c.c. sul punto relativo al requisito relativo alla posizione psicologica del terzo acquirente (i.e. valutazione dell’elemento soggettivo) consistente nella mancata individuazione della domanda svolta dalla Banca ed in particolare dal mancato rilievo che non
era stata dedotta la malafede della Charlotte al momento del preliminare ‘) , a proposito del quale era stato dedotto che tale violazione fosse decisiva e dirimente, non sussistendo prova del preteso stato soggettivo di malafede della RAGIONE_SOCIALE
I giudici di secondo grado avrebbero mancato di collocare nel tempo la pretesa sussistenza dell’elemento psicologico, individuato come consilium fraudis , in particolare senza legarlo al momento della stipula del preliminare e senza una specifica domanda da parte della Banca.
2.2. Il secondo ed il terzo motivo, che possono essere scrutinati congiuntamente, in ragione della loro connessione logica, sono infondati.
Con un orientamento ormai consolidato, la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha affermato che sia l’azione revocatoria ordinaria, sia la c.d. “revocatoria risarcitoria” (e cioè la domanda volta ad ottenere la condanna al risarcimento del terzo che, dopo avere acquistato un bene dal debitore altrui, lo abbia rivenduto a terzi, sottraendolo così all’azione revocatoria) possono essere proposte non solo da chi al momento dell’atto dispositivo era già titolare di un credito certo ed esigibile, ma anche dal titolare di un credito contestato o litigioso (Sez. 3, n. 1968 del 27 gennaio 2009; conf. Sez. 3, n. 1893 del 9 febbraio 2012; Sez. 3, n. 11121 del 10 giugno 2020).
In particolare, si è sottolineata la sufficienza della natura eventuale o “litigiosa” del credito, quale fondamento della legittimazione attiva a proporre l’azione ex art. 2901 c.c. (Sez. 3, n. 15275 del 30 maggio 2023).
La motivazione della Corte d’appello è coerente con i suddetti precedenti e dunque non v’è stata alcuna violazione del principio di corrispondenza, denunciato ex art. 112 c.p.c., neppure sotto il profilo di una mancata richiesta specifica da parte della Banca, che invece, a ben vedere, è sostanzialmente ricompresa nella domanda iniziale.
Del resto, la rilevazione e l’interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito, sicché non è deducibile la violazione dell’art. 112 c.p.c., quale errore procedurale rilevante ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., quando il predetto giudice abbia svolto una motivazione
sul punto, dimostrando come la questione sia stata ricompresa tra quelle oggetto di decisione, attenendo, in tal caso, il dedotto errore al momento logico relativo all’accertamento in concreto della volontà della parte (Sez. 3, n. 27181 del 22 settembre 2023).
Il quarto motivo assume la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. nonché 118 disp. att. c.p.c., 111 comma 6° Cost. e art. 6 CEDU, in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. La Corte d’appello avrebbe adottato una motivazione meramente apparente in ordine ai motivi di impugnazione nn. 1, 2 e 3 (1. Violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 132 co. 2 n °3, artt. 156 e 161 c.p.c.; 2. Violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 2901 c.c. – mancata individuazione delle domande svolte dalla Banca ed in particolare dal mancato rilievo che non era stato dedotta dalla stessa Banca l’ esistenza del consilium fraudis al momento della stipula del preliminare. 3. Violazione e falsa applicazione degli artt.112, 132 co.2 n °3, artt. 156 e 161 c.p.c., per errata pronunzia in relazione al capo della sentenza impugnata attinente l’omessa trascrizione nell’epigrafe della sentenza delle conclusioni ed il conseguente mancato esame delle eccezioni spiegate dalla Charlotte).
3.1. Col settimo mezzo, sempre in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., la ricorrente lamenta ancora la violazione degli artt. 132 n. 4 c.p.c. nonché 118 disp. att. c.p.c. 111 comma 6° Cost. e art. 6 CEDU.
Il Tribunale avrebbe valutato gli elementi indiziari alla data del contratto definitivo (10.3.2003) al fine di accertare la scientia damni , mentre la Corte di Appello si sarebbe riferita al momento della stipula del preliminare, cioè al 18.9.2001.
La Corte d’appello avrebbe inoltre adottato una motivazione meramente apparente, in rapporto alla valutazione degli elementi probatori. In particolare, avrebbe utilizzato gli stessi presupposti indiziari del Tribunale senza motivare ‘sul come e perché’ quegli elementi potessero assurgere a presunzioni con le caratteristiche di cui all’art. 2729 c.c.
In particolare, la sentenza impugnata non avrebbe dato alcuna motivazione propria, limitandosi a presentare gli elementi indiziari, senza dar conto della
loro concordanza nonché della precisione, gravità e unidirezionalità e senza neppure valutare altri elementi di segno opposto.
I due motivi -avvinti dall’identica connessione logica e perciò esaminabili congiuntamente -sono inammissibili.
In punto di diritto, va ricordato che la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Sez. U., n. 8053 del 7 aprile 2014; Sez. 1, n. 7090 del 3 marzo 2022)
La sentenza di appello, nel suo complesso, si pone ben al di sopra del minimo costituzionale.
In realtà, entrambe le doglianze si risolvono in una critica alla ricostruzione dei fatti da parte dei giudici di merito.
E’ dunque opportuno ribadire in proposito che la valutazione delle prove raccolte costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione, sicché rimane estranea al presente giudizio qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116, commi 1 e 2, c.p.c., in esito all’esame del materiale istruttorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, contrapponendo alla
stessa una diversa interpretazione al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito.
E tanto a voler sottacere che, con i motivi di ricorso per cassazione, la parte non può limitarsi a riproporre le tesi difensive svolte nelle fasi di merito e motivatamente disattese dal giudice dell’appello, senza considerare le ragioni offerte da quest’ultimo, poiché in tal modo si determina una mera contrapposizione della propria valutazione al giudizio espresso dalla sentenza impugnata che si risolve, in sostanza, nella proposizione di un “non motivo”, come tale inammissibile ex art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c. (Sez. 1, n. 22478 del 24 settembre 2018; Sez. 3, n. 17330 del 31 agosto 2015).
4 . La quinta censura attiene alla falsa applicazione dell’art. 295 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.
A differenza della revocatoria ordinaria di cui al 2901 c.c., nella fattispecie sarebbe occorso l’accertamento in concreto tanto della qualità di creditore nell’attore , quanto che il fatto del terzo avesse causato in concreto un eventus damni . Nella specie, la Corte territoriale avrebbe violato l’art. 295 c.p.c., che impone la sospensione del processo in ogni caso in cui occorra risolvere altra controversia, dalla cui definizione dipenda la decisione della causa.
NOME aveva appunto evidenziato l’esistenza di una controversia pregiudiziale e richiesto la sospensione, peraltro senza ottenerla.
Il motivo è infondato.
Come affermato nelle pronunce nn. 2673 del 10 febbraio 2016 e 3369 del 5 febbraio 2019 di questa Suprema Corte, il credito litigioso, che trovi fonte in un atto illecito o in un rapporto contrattuale contestato in separato giudizio, è idoneo a determinare l’insorgere della qualità di creditore abilitato all’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria avverso l’atto dispositivo compiuto dal debitore, sicché il relativo giudizio non è soggetto a sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. in rapporto alla pendenza della controversia sul credito da accertare e per la cui conservazione è stata proposta domanda revocatoria, poiché tale accertamento non costituisce l’indispensabile antecedente logico-giuridico della pronuncia sulla domanda revocatoria, né può
ipotizzarsi un conflitto di giudicati tra la sentenza che, a tutela dell’allegato credito litigioso, dichiari inefficace l’atto di disposizione e la sentenza negativa sull’esistenza del credito.
Il sesto motivo s’incentra sulla falsa applicazione dell’art. 2729, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.
La molteplicità delle vendite non avrebbe potuto far presumere lo stato di difficoltà del venditore e sarebbe mancata del tutto la pluralità degli indizi, tanto più che il riferimento ai rapporti fra i coniugi COGNOME e la società sarebbe stato inesistente. Conseguentemente, il meccanismo delle presunzioni sarebbe stato erroneamente applicato, giacché la sentenza impugnata non avrebbe indicato ‘argomenti plurimi e concordanti idonei a confermare l’inferenza presuntiva tratta dai supposti contatti ‘ tra la dott. COGNOME asserita amministratrice (ma in realtà solo procuratore della ricorrente) e i coniugi COGNOME ovvero i loro figli, contatti tra l’altro successivi di ben quattro anni rispetto al preliminare e non avrebbe preso posizione alcuna sulle argomentazioni della Charlotte. Da ciò l’ erronea applicazione del meccanismo delle presunzioni, viziato in origine dalla omessa individuazione della pluralità degli indizi e conseguentemente della mancata ricerca della loro concordanza nonché della precisione, gravità e unidirezionalità degli altri elementi eventualmente disponibili. Tra l’altro, non sarebbe stata considerata nemmeno la presunzione di buona fede che assisteva la Charlotte quale contraente.
Il motivo è inammissibile.
In proposito, va ribadito che l’esame dei documenti esibiti e la valutazione degli stessi, anche se si tratta di presunzioni, come anche il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi
implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 1, n. 19011 del 31 luglio 2017; Sez. 1, n. 16056 del 2 agosto 2016).
In altri termini, la differente lettura delle risultanze istruttorie proposta dalla ricorrente non tiene conto del principio per il quale la doglianza non può tradursi in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Sez. U, n. 24148 del 25 ottobre 2013).
È, in conclusione, inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Sez. U, n. 34476 del 27 dicembre 2019; Sez. 1, n. 5987 del 4 marzo 2021).
Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore della controricorrente RAGIONE_SOCIALE, come liquidate in dispositivo; devono ritenersi irripetibili le spese della COGNOME, atteso che si verte in cause scindibili, la stessa non è stata attinta da alcuno dei motivi di ricorso, e la sua evocazione nel presente giudizio deve ritenersi ai fini di una mera litis denuntatio ( sul principio, tra le ultime, si veda Cass. 8491/23).
La Corte dà atto che ricorrono i presupposti processuali di cui all’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002 per il raddoppio del versamento del contributo unificato, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore di RAGIONE_SOCIALE delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 7.000 (settemila) per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli
esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge ; dichiara l’irripetibilità delle spese di COGNOME NOME
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della RAGIONE_SOCIALE, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Seconda Sezione Civile il 9