Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 27164 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 27164 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 10/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15349/2023 R.G. proposto da: COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) che la rappresenta e difende;
-ricorrente-
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE);
-controricorrente-
nonché contro
NOME;
-intimato- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ROMA n. 3468/2023, depositata il 15/05/2023. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16/09/2025
dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME conveniva in giudizio NOME COGNOME e NOME COGNOME, chiedendo, in via principale, l’accertamento della simulazione assoluta e della conseguente nullità del contratto del 27.02.2015, con il quale il COGNOME aveva ceduto alla COGNOME le sue partecipazioni, pari al 96%, del capitale della società RAGIONE_SOCIALE al valore nominale di euro 48.000,.00, in subordine, la declaratoria di inefficacia dell’atto di cessione delle quote ex art. 2901 cod.civ.
A tal fine deduceva di essere creditore del COGNOME in forza della sentenza del Tribunale di Roma n. 4961/1996, di avere notificato il titolo esecutivo in data 22.11.2004, di avere notificato il precetto di pagamento in data 12 luglio 2008, di avere realizzato parte del suo credito (euro 71.653,13), mercé intervento spiegato in una procedura esecutiva avanti il Tribunale di Roma; di avere per il credito insoddisfatto notificato atto di precetto in rinnovazione in data 10 febbraio 2015; di avere chiesto il pignoramento delle quote del capitale sociale della RAGIONE_SOCIALE, e di essere allora venuto a conoscenza che, in data 27.02.2015, il NOME le aveva cedute al valore nominale di euro 48.000,00 alla COGNOME, sua cognata perché moglie di NOME, condebitore solidale.
La COGNOME, costituitasi, chiedeva il rigetto delle avversarie domande, adducendo che, essendosi separata dal coniuge NOME COGNOME nel 1996 e avendo divorziato nel 2000, già dal 1996 era venuto meno il rapporto di affinità con il cedente ex cognato NOME COGNOME, che il suo acquisto aveva assecondato una logica di investimento commerciale, che il corrispettivo della cessione era congruo, stante la situazione di forte indebitamento della società RAGIONE_SOCIALE e la non commerciabilità degli immobili ad essa intestati, che le quote della RAGIONE_SOCIALE erano pervenute al cedente per acquisto fatto nel 2014 e che il prezzo della cessione era stato regolarmente pagato.
Il COGNOME, costituitosi, eccepiva l’estinzione delle ragioni di credito dell’attore, perché, nell’azione esecutiva immobiliare promossa in suo danno, il COGNOME aveva rinunziato agli atti del giudizio, con impegno a porre in essere ogni attività necessaria all’estinzione della procedura, e deduceva di non avere effettuato la cessione animato da un intento elusivo.
Con la sentenza n. 6114/2018, il Tribunale di Roma, rigettava la domanda di simulazione e accoglieva la domanda revocatoria.
Con la sentenza n. 3468/2023, pubblicata e notificata in data 15/05/2023, la Corte d’appello di Roma ha rigettato l’appello promosso dalla COGNOME nonché quello promosso dal COGNOME, confermando la sentenza di primo grado.
NOME COGNOME ricorre per la cassazione di detta sentenza, formulando tre motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso il COGNOME, che ha depositato anche atto indicato come <>, che non può considerarsi memoria, in difetto dei relativi requisiti di legge.
L’altro intimato non ha svolto attività difensiva.
La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis 1 cod.proc.civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 cod.civ., in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ., per avere la corte territoriale basato su circostanze non gravi, precise e concordanti il ragionamento che l’ha portata a presumere la sussistenza del consilium fraudis .
Lamenta in particolare che:
la vendita del 96% delle quote della RAGIONE_SOCIALE al valore nominale di euro 48.000,00, nonostante la società fosse proprietaria di immobili iscritti in bilancio per il valore di oltre euro 2.300.000,00: il forte indebitamento della società, anziché essere ritenuto causa di esclusione dell’elemento soggettivo richiesto dall’art. 2901 cod.civ., ha supportato la tesi opposta, perché, secondo il giudice a quo , «non è stata dedotta alcuna ragione logica per cui una persona, asseritamente inconsapevole della situazione debitoria dell’ex marito e dell’ex cognato per essere divorziata da molti anni, avrebbe sborsato la somma non irrisoria di € 48.000,00 per avere una quota in una società con forti perdite e addirittura….omissis….lasciando l’ex cognato …ancora in carica come amministratore unico»; secondo la ricorrente, erano state, invece, motivate ampiamente le ragioni che l’avevano indotta ad acquistare le azioni della società, benché fortemente indebitata, avendo descritto lo scopo di investimento perseguito, che si era concretizzato nell’approfittamento del basso valore delle quote della RAGIONE_SOCIALE, dovuto allo stato di forte indebitamento, nella scommessa sul rilancio del settore immobiliare e dunque sulla successiva commerciabilità degli immobili di proprietà della società stessa del valore, in bilancio, di euro 2.300.000,00; aggiunge che il giudice a quo anziché risalire da un fatto ignoto a quello noto avrebbe dato rilievo alla mancata motivazione, cioè, all’assenza di ragioni plausibili per l’avvenuto acquisto delle quote societarie;
la documentazione che provava che l’odierna ricorrente era stata titolare di cariche di amministratore in società affittuarie di
azienda o cessionarie di quote di altre società facenti capo all’ex marito oltre che a NOME COGNOME e alla moglie di quest’ultimo NOME COGNOME, proprio negli anni tra il 1991 e il 1996, ossia durante la pendenza della lite (iniziata nel 1994 e conclusa nel 1996) promossa da NOME COGNOME; secondo la ricorrente l’ipotesi che, al momento dell’atto di cessione, potesse avere avuto memoria di un procedimento civile intercorso tra un terzo e l’ ex coniuge avrebbe dovuto considerarsi remota e comune improbabile;
c) le visure camerali da cui risultava che in uno degli immobili di proprietà della RAGIONE_SOCIALE aveva sede la RAGIONE_SOCIALE, di cui i figli della COGNOME e di NOME COGNOME erano stati gli unici soci fino a novembre 2014 (allorquando la compagine era mutata, in quanto NOME COGNOME era divenuto socio all’uno per cento e amministratore unico mentre la figlia della COGNOME era rimasta socia al 99%); si tratterebbe di una circostanza inconferente, perché riferita non ad una sua diretta partecipazione societaria, ma alla partecipazione dei figli, peraltro non attiva, in una società diversa da quella da cui aveva acquistato le quote e riferita ad un periodo privo di connessione temporale con l’atto di acquisto delle quote, oggetto dell’atto dispositivo revocando.
2) Con il secondo motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod.proc.civ. in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 4 cod.proc.civ.
Premesso che, secondo Cass. n. 17720/2018, il mancato esperimento di un ragionamento presuntivo prospettato al giudice della sentenza di appello impugnata in cassazione come motivo di appello contro la sentenza di primo grado – e dunque il silenzio del giudice di appello – va dedotto come omessa pronuncia per violazione dell’art. 112 cod.proc.civ., la ricorrente sostiene di avere dedotto in appello che NOME aveva acquistato quelle partecipazioni che poi aveva rivenduto solo nel 2014; se dunque avesse inteso concertare con il Molayen un acquisto in
frode delle ragioni dei creditori, l’acquisto delle quote – ancora valendo , come sostenuto dalla corte territoriale, quei legami di antica affinità, benché cessata – sarebbe stato fatto direttamente a suo nome; di conseguenza, ritiene di aver sottoposto alla corte territoriale «una presunzione di non conoscenza certamente più forte di quella di conoscenza sulla labile circostanza di una antica e superata affinità» su cui il giudice avrebbe omesso di pronunciarsi.
Con il terzo motivo denunzia omesso esame di fatto secondario ex art. 2729 cod.civ., in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 5 cod.proc.civ.
Lamenta l’inoperabilità della preclusione processuale di cui all’art. 348 ter ultimo comma cod.proc.civ. e, in ossequio alle prescrizioni di cui all’art. 366, 1° comma n. 6 , cod.proc.civ., indica tutti gli atti difensivi in cui aveva sottoposto il fatto denunciato come omesso alla corte territoriale: il fatto è costituito dall’acquisto delle quote sociali della RAGIONE_SOCIALE da parte di NOME COGNOME nel 2014 per la somma di euro 48.000,00 (la stessa a cui le aveva cedute), da cui la corte d’appello avrebbe dovuto inferire l’insussistenza del consilium fraudis .
I motivi, che possono essere congiuntamene esaminati in quanto connessi, sono infondati.
Al riguardo, deve innanzitutto osservarsi che la ricorrente, nel censurare il ragionamento presuntivo operato dal giudice a quo , muove da una visione atomistica delle tre diverse circostanze dallo stesso valorizzate, pretendendo che ciascuna di esse singolarmente considerata – e non tutte nel loro insieme, o meglio nella loro interazione – sia inidonea a fornire la prova del fatto ignoto.
Questa Corte, per contro, ha sottolineato che la corretta applicazione dell’art. 2729 cod.civ. presuppone un apprezzamento degli elementi acquisiti in giudizio, dai quali inferire quello ignoto, che riconosca ad essi efficacia probatoria, «quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziarla», se risultino «in grado
di acquisirla ove valutati nella loro convergenza globale», ovvero «accertandone la pregnanza conclusiva» (Cass. 16/07/2018, n. 18822); ciò in quanto «la valutazione della prova presuntiva esige che il giudice di merito esamini tutti gli indizi di cui disponga non già considerandoli isolatamente, ma valutandoli complessivamente ed alla luce l’uno dell’altro, senza negare valore ad uno o più di essi sol perché equivoci, cosi da stabilire se sia comunque possibile ritenere accettabilmente probabile l’esistenza del fatto da provare» (Cass. 13/03/2014, n. 5787).
A detto modus operandi si è correttamente attenuta la corte d’appello, il cui ragionamento inferenziale resiste alle censure della qui ricorrente, la quale formula una doglianza -quella relativa all’assenza di gravità, precisione e concordanza degli elementi indiziari -che sottende una nozione di gravità, di precisione e di concordanza dell’indizio che non risponde alla definizione datane da questa Corte, secondo cui «la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare …)”, esprimendo nient’altro che “la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui, dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B”, non essendo, invece, “condivisibile invece l’idea che vorrebbe sotteso alla gravità che l’inferenza presuntiva sia “certa”» (così Cass. 4/08/2017, n. 19485), come, invece, mostra di ritenere la ricorrente. Infatti, «per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva», essendo, invece, «sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'”id quod plerumque accidit”» (così Cass. 26/07/2021, n. 21403; Cass. 21/01/2020, n.1163; Cass. 6/02/2019, n. 3513); la precisione, nuovamente, «esprime l’idea
che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso di esso», mentre «non lasci spazio, sempre al livello della probabilità” (e, dunque, anche in questo caso non della certezza), ad un indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti», così come la concordanza individua un «requisito del ragionamento presuntivo, che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sé considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori, volendo esprimere l’idea che, intanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi» (così, nuovamente, Cass. n. 19485/2017, cit.). Deve, infatti, ribadirsi il ragionamento presuntivo, per vero, costituisce «un iter logico che non è un risalire all’indietro, ma piuttosto un procedere “in avanti”, verso un’ipotesi da verificare, ovvero verso la dimostrazione di un fatto che è prefigurato come possibile conclusione dell’inferenza in cui si articola il ragionamento presuntivo» (così, in motivazione, Cass. 9/04/2025, n. 9348; Cass. 27/05/2024, n. 14788; Cass. 13/03/2024, n. 6271; Cass. 22/06/2020, n. 1218).
E’ del tutto priva di rilievo la censura di violazione dell’art. 360, 1° comma, n. 5 cod.proc.civ. -anche senza prendere posizione in ordine al se sia deducibile nella specie detta censura – perché il giudice, dovendo rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto alla base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola in due valutazioni: una analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria e una complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati, per accertare se essi siano
concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva (c.d. convergenza del molteplice), magari non raggiunta con certezza considerandoli atomisticamente (Cass. 27/03/2025, n. 8115) con la conseguente irrilevanza della mancata considerazione di talune circostanze (Cass. 21/03/2022, n. 9054) .
Tanto priva di pregio anche la dedotta violazione dell’art. 112 cod.proc.civ., formulata con il secondo motivo.
All’infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di cassazione liquidate in favore del controricorrente nella misura indicata in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi euro 7.200,00 (di cui euro 7.000,00 per onorari), oltre a spese generali e accessori come per legge, in favore del controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, come modif. dalla l. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente all’ufficio del merito competente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella Camera di Consiglio del 16 settembre 2025 dalla Terza sezione civile della Corte Suprema di Cassazione.
Il Presidente NOME COGNOME