Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 34278 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 34278 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 24/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14865/2023 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in QUARTO INDIRIZZO. COGNOME INDIRIZZO DOM DIG, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE NOME, elettivamente domiciliato in MARZANO APPIO INDIRIZZO DIGITALE, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
nonchè
-intimata- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di NAPOLI n. 1444/2023 depositata il 29/03/2023. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15/10/2024
dal Consigliere NOME COGNOMEù
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con sentenza n. 1796/2018, del 24.5.2018, ha dichiarato l’inefficacia, ex artt. 66 L.F. e 2901 c.c, nei confronti del fallimento RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME nonché del socio illimitatamente responsabile NOME COGNOME, dell’atto del 27.10.2010 per notar NOME COGNOME, in Castel Volturno, rep. 6842, racc. 3741, con cui la RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME aveva ceduto alla RAGIONE_SOCIALE il proprio ramo di azienda, rappresentato dal complesso dei beni organizzati per lo svolgimento dell’attività di costruzione, manutenzione e modifica di strade, autostrade, ponti, viadotti, ferrovie ecc., rientranti nella categoria (0G3 – classifica III), costruzione manutenzione e modifica di opere fluviali, di difesa di sistemazione idraulica e di bonifica rientranti nella categoria (0G8- classifica I) e costruzione manutenzione e modifica di opere strutturali speciali, rientranti nella categoria (0S21 -classifica II), nonché composto dall’avviamento e dalle attrezzature descritte nell’elenco allegato all’atto di cessione.
La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza n. 1444/2023, depositata il 22.3.2023, ha confermato la sentenza di primo grado. Il giudice d’Appello ha ritenuto sussistenti tutti i presupposti per l’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria, evidenziando,
quanto all’ eventus damni , che ‘ il danno – o il pericolo di danno può concernere anche solo la qualità dei beni, nel senso che quest’ultima può essere pregiudicata dalla sola sostituzione di beni più facilmente individuabili ed aggredibili con beni agevolmente distraibili, quali, ad es., il danaro; d’altra parte, l’appellante non ha minimamente dimostrato che, pur all’esito dell’operazione sopra descritta, il suo patrimonio fosse tale da scongiurare qualsivoglia rischio per la garanzia patrimoniale’. Quanto alla cd. scientia damni, la Corte d’Appello ha ritenuto del tutto inverosimile che, all’atto della cessione del ramo d’azienda, la RAGIONE_SOCIALE e, in particolare, il suo socio accomandatario NOMECOGNOME non avesse sentore del possibile pregiudizio per i creditori potenzialmente derivante dall’avvenuta dismissione del ramo di azienda in favore della RAGIONE_SOCIALE tenuto conto che dall’espletata c.t.u. era risultato un passivo maturato anteriormente alla cessione del ramo, accertato in sede di verifica fallimentare, pari a ben € 366.190,20.Infine, quanto al consilium fraudis , il giudice d’appello ha osservato che il Tribunale aveva ben descritto i rapporti tra le due società e, soprattutto, la posizione di COGNOME NOME, quale socia accomandataria della cedente e socia anche della cessionaria RAGIONE_SOCIALE, amministrata dalla sorella COGNOME NOME.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la L.G.MRAGIONE_SOCIALE affidandolo ad un unico articolato motivo.
La curatela del fallimento RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME nonché del socio illimitatamente responsabile NOME COGNOME ha resistito in giudizio con controricorso.
La ricorrente ha depositato la memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
È stata censurata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2901 c.c. e 66 L.F.
La ricorrente ha dedotto, in primis, la non applicabilità della predetta norma prevista dalla legge fallimentare, in quanto l’atto di cessione del ramo di azienda riguardava beni mobili, beni mobili registrati, beni immateriali e cessione di contratti, la cui revocabilità era soggetta al termine di decadenza annuale ampiamente superato.
Con riferimento ai requisiti per l’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria, la ricorrente contesta, in primis, l’esistenza di crediti in un momento anteriore alla stipula dell’atto di cessione del ramo d’azienda del 27.12.2010, per avere la Corte d’Appello compiuto la propria valutazione sulla scorta delle richieste di ammissione al passivo e non sulla base dei documenti contabili risalenti all’anno 2009 -2010, ritenendo erroneamente provati dei fatti solo presunti.
In ordine all’ eventus damni , lamenta la ricorrente che la Corte d’Appello ha fatto erroneamente gravare sul terzo cessionario dell’azienda l’onere di provare che il patrimonio del debitore, dopo l’atto dispositivo revocando, fosse tale da soddisfare ampiamente le ragioni del creditore, non considerando che il debitore e creditore sono rappresentati dallo stesso soggetto, ossia la curatela, mentre la società RAGIONE_SOCIALE, cessionaria, è terzo rispetto al ceto creditorio della fallita.
In ogni caso, evidenzia la ricorrente che, nel caso di specie, una modifica quantitativa o qualitativa del patrimonio del debitore non c’era stata.
In primo luogo, il CTU aveva documentato che il ceto creditorio, pur in presenza di azioni giudiziarie esecutive, mai avrebbe potuto vedere integralmente soddisfatta la sua posizione, in quanto i beni ceduti avevano un valore complessivo non superiore al massimo dei debiti accertati dal CTU esistenti prima dell’atto di cessione d’azienda. In ogni caso, il valore dei beni oggetto della cessione era ben al di sotto del valore di € 95.000,00 pagato dal cessionario,
con la conseguenza che, a differenza di quanto affermato dalla curatela, il prezzo di cessione non era stato affatto vile, ma del tutto congruo.
Con riferimento alla scientia damni , ovvero alla consapevolezza in capo al debitore del pregiudizio arrecato al creditore con l’atto dispositivo, rileva la ricorrente che la Corte d’Appello ha omesso la motivazione sul punto, così integrando un palese error in iudicando . Ad avviso della ricorrente, al momento della stipula dell’atto di cessione del ramo d’azienda, la scientia damni non sussisteva in quanto il bilancio della fallita dell’anno 2010 riportava un utile di esercizio di € 555.405,80. Dunque il cedente, avendo un utile netto di oltre cinquentomila euro, non poteva certo temere l’insolvenza, essendo i debiti coperti dagli utili.
Infine, con riferimento al requisito della participatio fraudis , deduce la ricorrente che tale elemento, in assenza della scientia damni in capo a NOME, legante rappresentante della cedente, non può essere desunto per il solo fatto del rapporto di parentela esistente tra i legali rappresentanti della società cedente e cessionaria del ramo d’azienda.
Il ricorso presenta concomitanti profili di inammissibilità ed infondatezza.
In primo luogo, palesemente inammissibile è la censura della ricorrente secondo cui l’azione revocatoria ordinaria non sarebbe esperibile per essere stato ampiamente superato il termine di decadenza.
Tale questione non è stata trattata in alcun modo nella sentenza impugnata.
Ne consegue che, essendo principio consolidato di questa Corte quello secondo cui i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel thema decidendum del precedente grado del giudizio, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità
questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (Cass. n. 22886/2022; Cass. n. 32804/2019; Cass., 17/01/2018, n. 907; Cass., 13/06/2018, n. 15430; Cass. n. 28060/2018; Cass., 09/07/2013, n. 17041), la ricorrente, al fine di evitare la inammissibilità per novità della censura, aveva l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della stessa innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo avesse fatto dando così modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della questione (cfr. ex plurimis, Cass. n. 20694/2018; Cass. n. 15430/2018).
La ricorrente non ha assolto a tale onere di allegazione.
3. Quanto al requisito dell’ eventus damn i, va preliminarmente osservato che è orientamento consolidato di questa Corte (vedi Cass. n. 36033/21, conf. Cass. n. 4777/2023) quello secondo cui il curatore fallimentare che intenda promuovere l’azione revocatoria ordinaria ha l’onere di provare tre circostanze per dimostrarne la sussistenza, per come costituite da: la consistenza del credito vantato dai creditori ammessi al passivo nei confronti del fallito; la preesistenza delle ragioni creditorie rispetto al compimento dell’atto pregiudizievole; il mutamento qualitativo o quantitativo del patrimonio del debitore per effetto di tale atto.
Solo se dalla valutazione complessiva e rigorosa di tutti e tre questi elementi dovesse emergere che per effetto dell’atto pregiudizievole sia divenuta oggettivamente più difficoltosa l’esazione del credito, in misura che ecceda la normale e fisiologica esposizione di un imprenditore verso i propri creditori, potrà ritenersi dimostrata la sussistenza dell’ eventus damni (Cass. 26331/2008, Cass. 19515/2019).
Tale prova deve essere fornita dal curatore, non potendo trovare applicazione la regola generale prevista per l’azione pauliana
secondo cui, a fronte dell’allegazione, da parte del creditore, delle circostanze che integrano l’ eventus damni , incombe sul debitore l’onere di provare che il patrimonio residuo è sufficiente a soddisfare le ragioni della controparte (cfr. Cass. 1902/2015). Ciò sul rilievo che, da un lato, il curatore rappresenta contemporaneamente sia la massa dei creditori sia il debitore fallito e, dall’altro, in ossequio al principio della vicinanza della prova, tale onere non può essere posto a carico del convenuto, beneficiario dell’atto impugnato, che non è tenuto a conoscere l’effettiva situazione patrimoniale del suo dante causa.
Il fallimento è, pertanto, onerato di fornire la prova che il patrimonio residuo del debitore fallito fosse di dimensioni tali, in rapporto all’entità della propria complessiva esposizione debitoria, da esporre a rischio il soddisfacimento dei creditori (Cass. 9565/2018, Cass. 2336/2018, Cass. 8931/2013).
Quanto al caso di specie, se, da un lato, alla luce di quanto sopra illustrato, l’affermazione della ricorrente – secondo cui non grava sul cessionario terzo l’onere di provare che il patrimonio del debitore, dopo l’atto dispositivo revocando, fosse tale da soddisfare ampiamente le ragioni del creditore – è, in generale, corretta, dall’altro, la Corte d’appello non ha affatto violato tale principio.
Infatti, dall’ esame della sentenza impugnata (vedi pagg. 10 e 11) emerge che la Corte, nel valutare il requisito dell’ eventus damni , ha richiamato integralmente il passaggio motivazionale della sentenza di primo grado (che ha fatto proprio con l’espressione ‘ Pienamente condivisibili appaiono quindi le considerazioni del primo giudice ‘), che aveva evidenziato che non risultava dal bilancio della società poi fallita allegato (al 31.12.2010) ‘ la disponibilità di liquidità necessaria (concetto tecnicamente differente dal c.d. utile di esercizio riportato in comparsa) e sufficiente a coprire l’esposizione all’epoca della cessione maturata
verso il ceto creditorio, dal consulente tecnico quantificata in € 366.190,20 ‘.
In sostanza, la Corte d’Appello, con il richiamo alla sentenza di primo grado, ha, a sua volta, effettuato, in concreto, la verifica che il patrimonio residuo del debitore fosse sufficiente a soddisfare le ragioni dei creditori, ed ha quindi compiuto tale valutazione sulla scorta della documentazione in atti (fornita dalla curatela), data dal bilancio di esercizio al 31.12.2010, giungendo alla conclusione che il cedente non disponeva della liquidità necessaria (concetto tecnicamente differente dagli utili) per coprire i debiti esistenti al momento della cessione del ramo d’azienda.
L’affermazione della Corte d’Appello, secondo cui ‘l’appellante non ha minimamente dimostrato che, pur all’esito dell’operazione sopra descritta, il suo patrimonio fosse tale da scongiurare qualsivoglia rischio per la garanzia patrimoniale’ (vedi pag. 10 secondo capoverso della sentenza impugnata) non è dà intendere nel senso che il giudice di secondo grado avesse inteso accollare l’onere della prova al terzo, ma che, ad avviso dello stesso giudice, l’appellante non era stata in grado di scalfire la corretta ricostruzione del giudice di primo grado in ordine alla capienza della società cedente. Peraltro, l’affermazione di entrambi i giudici di merito – secondo cui la cedente non disponeva della ‘liquidità necessaria’ non è stata censurata, se non con l’erroneo assunto (come sarà più avanti approfondito) secondo cui i debiti ‘ erano agilmente coperti dagli utili ‘ (vedi pag. 20 del ricorso).
Orbene, tale affermazione di parte ricorrente, posta a fondamento anche dell’allegazione del difetto della scientia damni , è assolutamente erronea.
L’utile, infatti, è dato dalla differenza tra i ricavi e i costi e non tiene conto quindi dell’effettivo incasso dei ricavi per le fatture emesse e dell’effettivo pagamento dei costi per le fatture ricevute. Computare un utile non significa, infatti, avere liquidità. Il conto
economico può chiudere con un utile, ma l’impresa può essere priva di liquidità o comunque non di liquidità sufficiente a far fronte ai debiti.
In conclusione, il risultato economico raramente coincide con la variazione della cassa (cd. cash flow ). Questa coincidenza potrebbe astrattamente verificarsi ove incassi e pagamenti avvenissero senza dilazioni: non è questo quello che ha dedotto la ricorrente, la quale ha, anzi, confuso il concetto di utile con quello di liquidità.
La ricorrente ha, inoltre, negato che per effetto della cessione del ramo di azienda, vi fosse stata una variazione quantitativa o qualitativa del patrimonio del debitore – situazione che, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte integra l’eventus damni (vedi, recentemente, Cass. n. 20232/2023; conf. Cass. n. 7767/07; 1902/2015) -deducendo, sul punto, che i beni ceduti avevano un valore complessivo non superiore al massimo dei debiti accertati dal CTU esistenti prima dell’atto di cessione d’azienda e che, in ogni caso, il valore dei beni oggetto della cessione era ben al di sotto dei € 95.000,00 pagat i dal cessionario, con la conseguenza che, a differenza di quanto affermato dalla curatela, il prezzo di cessione non era stato affatto vile, ma del tutto congruo.
Le deduzioni della ricorrente non colgono nel segno.
Come correttamente evidenziato dal giudice d’appello, a seguito dell’atto dispositivo del ramo d’azienda vi è stato un mutamento qualitativo del patrimonio del debitore poi fallito proprio perché si è avuta ‘ la sostituzione di beni più facilmente individuabili ed aggredibili con beni agevolmente distraibili, quali, ad es., il danaro’. Né rileva che il valore dei beni dismessi fosse inferiore all’ammontare dei debiti gravanti sul debitore o che il prezzo di cessione fosse o meno congruo, trattandosi di circostanze inconferenti in ordine al requisito dell’ eventus damni.
Con riferimento alla scientia damni , erroneamente la ricorrente deduce che la Corte d’Appello avrebbe la omesso la motivazione sul punto.
Infatti, la sentenza impugnata ha espressamente escluso (vedi pag. 14) che il socio accomandatario della cedente, NOME COGNOME potesse non avere sentore del possibile pregiudizio che l’atto di disposizione del ramo d’azienda avrebbe arrecato ai creditori, e ciò in virtù dell’elevato passivo che la fallita aveva maturato anteriormente alla cessione. In ordine all’utile netto asseritamente presente al momento della cessione, si è già evidenziato che esso non coincide con la liquidità.
Infine, con riferimento alla participatio fraudis del terzo, la Corte territoriale, nel ritenere sussistente tale requisito, ha fatto buon uso del principio enunciato da questa Corte secondo cui la prova della ” participatio fraudis ” del terzo, necessaria ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria nel caso in cui l’atto dispositivo sia oneroso e successivo al sorgere del credito, può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore e il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente (vedi Cass. n. 1286/2019; vedi anche Cass. n. 5359/2009): tale valutazione è incensurabile in sede di legittimità ove congruamente motivata (vedi Cass. n. 5618/2016, n. 5618; Cass., n. 17327/2011; Cass. n. 13330/2004) e la ricorrente non ha minimamente denunciato il vizio di motivazione nelle forme della violazione dei nn. 4 e 5 dell’art. 360 comma 1° c.p.c.
Ne consegue che le censure della ricorrente, anche sul punto, sono inammissibili.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in € 6.700,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1° bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma il 15.10.2024