Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 11224 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 11224 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 29/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24895/2023 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentata e difesa da ll’ avv. NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2054/2023 del la Corte d’Appello di Bologna, depositata il 18.10.2023;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del l’ 11.3.2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il commissario straordinario di RAGIONE_SOCIALE (d’ora innanzi anche , semplicemente, RAGIONE_SOCIALE), posta in amministrazione straordinaria e dichiarata insolvente, propose azione revocatoria fallimentare nei confronti di tre pagamenti ricevuti da RAGIONE_SOCIALE, ritenendoli effettuati nel periodo sospetto anteriore all’apertura della procedura e quindi in violazione della par condicio creditorum , di cui la ricevente era consapevole.
Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale di Bologna respinse la domanda, ritenendo che la procedura fosse decaduta da ll’azione per il decorso del triennio di cui all’art. 69 -bis legge fall., individuato a tal fine il dies a quo nel giorno della pubblicazione della domanda di ammissione al concordato preventivo che aveva preceduto l’amministrazione straordinaria.
La sentenza di primo grado, impugnata dall’attuale controricorrente, venne riformata dalla Corte d’Appello di Bologna, che, in accoglimento della domanda, condannò RAGIONE_SOCIALE al pagamento del complessivo importo di € 49.600, oltre agli interessi e alle spese di giudizio.
Contro la sentenza della Corte territoriale RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione articolato in quattro motivi.
RAGIONE_SOCIALE in RAGIONE_SOCIALE si è difesa con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data fissata per la trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 -bis .1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si denunciano «errata interpretazione e, quindi, falsa applicazione di norme in diritto
ai sensi dell ‘ art 360, comma 1, n. 3 c.p.c., in contrasto con il consolidato indirizzo di legittimità e di merito sugli effetti del principio di continuità delle procedure concorsuali sul termine di decadenza per l’esperimento dell’azione revocatoria di cui all’art. 69 -bis , comma 2, legge fall.».
La ricorrente ribadisce la tesi secondo cui dal consolidato principio di consecuzione tra le procedure concorsuali, elaborato dalla giurisprudenza di legittimità e fatto proprio dal legislatore con l’introduzione nella legge fallimentare del secondo comma dell’art. 69 -bis (art. 33, comma 1, lett. a -bis , d.l. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 134 del 2012), discenderebbe che anche il termine d i tre anni per l’esercizio delle azioni revocatorie posto dal primo comma del medesimo art. 69 -bis decorre «dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese», nel caso in cui a tale domanda «segua la dichiarazione di fallimento».
La Corte territoriale ha invece statuito che tale termine decorre comunque «dalla dichiarazione di fallimento» (nel caso di specie, trattandosi di grande impresa assoggettata ad amministrazione straordinaria, dalla data di dichiarazione della insolvenza: art. 49, comma 2, d.lgs. n. 270 del 1999); il che l’ha portat a a decidere che l’azione promossa era tempestiva, perché esperita entro il triennio da tale data.
1.1. La censura è infondata.
1.1.1. L’art. 69 -bis , comma 2, legge fall. pone la regola della decorrenza «dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese» solo per i termini a ritroso che definiscono il periodo sospetto «di cui agli articoli 64, 65, 67, primo e secondo comma, e 69». Pertanto, anche sul
piano della stretta interpretazione letterale, la regola non è dettata con riferimento ai termini di cui al primo comma del medesimo art. 69 -bis e, in particolare, al termine di tre anni, per il quale tale disposizione fissa chiaramente il dies a quo della decorrenza «dalla dichiarazione di fallimento».
1.1.2. Ma è soprattutto sul piano della logica e dei principi generali che si apprezza l’impossibilità di fare decorrere il termine per l’esercizio delle azioni recuperatorie fallimentari da un momento in cui quelle azioni ancora non sono in astratto ammissibili e non possono pertanto essere esercitate. Si tratta, infatti, nella maggior parte dei casi, di azioni che sorgono con la dichiarazione di fallimento e che possono essere esercitate solo dal curatore. Pertanto, non può non trovare applicazione il principio generale di cui è espressione -con specifico riferimento all ‘estinzione dei diritti per prescrizione -l’art. 2935 c.c. («La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere»).
Ma anche laddove si tratta di azioni preesistenti alla dichiarazione di fallimento (azioni revocatorie ordinarie ex art. 66 legge fall.), il destinatario della disposizione che pone un termine perentorio per il loro esercizio è chiaramente il curatore fallimentare, nell’interesse, da un lato, della massa dei creditori ad un rapido realizzo dell’attivo e, dall’altro lato, dei potenziali convenuti a non rimanere troppo a lungo nell’incertezza sulla stabilità degli atti da essi compiuti (v. Cass. n. 8757/2024). È pertanto solo dal momento in cui assume l’incarico il curatore che può iniziare a decorrere il termine per l’esercizio delle azioni da parte dello stesso organo.
1.1.3. Né una diversa soluzione può ritenersi imposta dal principio di consecuzione delle procedure avviate con riguardo alla medesima situazione di insolvenza di un imprenditore.
La rilevanza della consecuzione, infatti, oltre a non avere carattere generale (v. Cass. nn. 5090/2022; 33364/2021), in ogni caso non reca in sé alcuna necessità logica di derogare al citato e stringente principio per cui non può darsi corso a un termine per l’esercizio di un diritto o di un’azione prima del momento in cui quel diritto (o quell’azione) «può essere fatto valere».
Il secondo motivo censura «violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ai sensi dell’art. 360 , comma 1, n. 5, c.p.c., per l’errato riconoscimento della scientia decoctionis in capo alla RAGIONE_SOCIALE, con mancata considerazione di documenti, elementi ed istanze istruttorie decisivi, volti a dimostrare l’assenza di tale requisito ».
Nell’illustrare i l motivo la ricorrente sostiene che «Il contenuto dei documenti versati in atti attesta l ‘e satto contrario di quanto sommariamente considerato dal Giudice d ‘ Appello a chiosa del ragionamento con cui ha erroneamente valutato la sussistenza del requisito della scientia decoctionis ». E a tale affermazione segue una critica alla motivazione con cui la Corte d’Appello ha ritenuto provata in giudizio la conoscenza dello stato di insolvenza nelle date in cui furono effettuati i tre pagamenti oggetto di causa.
2.1. Il motivo è inammissibile, perché non si ravvisa alcuna pertinenza tra il vizio denunciato («violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato») e la critica svolta nella successiva illustrazione . Quest’ultima , infatti,
non è altro che una censura nel merito alla valutazione delle prove e quindi a ll’accertamento del fatto ; oggetto di censura tanto evidente, quanto improponibile in sede di legittimità.
Il terzo motivo è rubricato «errata interpretazione e, quindi, falsa applicazione di norme in diritto ai sensi dell ‘ art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per mancata esclusione dalla revocabilità, ex art. 67, comma 3, legge fall., dei tre pagamenti oggetto di causa».
La ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare i tre pagamenti ricevuti come esentati dall’azione revocatoria ai sensi dell’art. 67, comma 3, lett. a , legge fall.
3.1. Il motivo è infondato, perché basato su una non condivisibile interpretazione della norma di diritto che si assume violata.
La ricorrente evidenzia che i tre pagamenti «appaiono chiaramente riconducibili alla continuità dell’attività d’impresa », ma l ‘esenzione dell’art. 67, comma 3, lett. a , legge fall. non opera in genere per tutti «i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa», bensì soltanto per quelli che veng ono effettuati «nei termini d’uso» .
Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha evidenziato che i primi due pagamenti furono effettuati nel febbraio 2015 ed andarono a coprire solo parzialmente « un’unica fattura d’acconto , ove era prevista la rimessa diretta», e che era « risalente all’agosto 2014» . Nulla a che vedere, quindi, con i pagamenti regolari e tempestivi nell’ambito di un normale rapporto commerciale.
L’ultimo dei tre pagamenti venne addirittura effettuato tramite un soggetto terzo: la committente dell’opera che COGNOME stava realizzando in regime d’appalto e alla quale RAGIONE_SOCIALE aveva collaborato in veste di subappaltatrice. In mancanza di rapporto contrattuale diretto tra la committente e RAGIONE_SOCIALE, il pagamento deve intendersi effettuato per conto dell’appaltatrice COGNOME ed è evidente che un pagamento fatto con l’ intervento di un terzo, debitor debitoris , non può certo annoverarsi tra «i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso» .
E ciò anche a prescindere dalla circostanza, cui fa cenno la sentenza, che tale modalità di pagamento fosse stata pretesa da RAGIONE_SOCIALE rifiutandosi di consegnare la parte dell’opera da essa eseguita. In ogni caso, anche ipotizzando che tale modalità di pagamento fosse stata oggetto di « un’intesa scritta antecedente, comprensiva di forme e tempi di pagamento, perfezionatasi su espressa richiesta della committente principale RAGIONE_SOCIALE», quello che qui conta è che si è evidentemente al di fuori dall’ambito della esenzione dalla revocatoria di cui all’art. 67, comma 3, lett. a , legge fall.
3.2. Quanto poi alla mera affermazione che «non sussiste alcun pregiudizio nei pagamenti per cui è causa», contenuta nella parte iniziale dell’illustrazione del motivo, basterà ricordare che nell ‘ azione revocatoria fallimentare, a differenza che in quella ordinaria, la nozione di danno non è assunta in tutta la sua estensione, perché il pregiudizio alla massa -che può consistere anche nella mera lesione della par condicio creditorum o, più esattamente, nella violazione delle regole di collocazione dei crediti -è presunto in ragione del solo fatto dell ‘ insolvenza, cosicché grava sul convenuto in revocatoria
l’onere di dimostrarne l’insussistenza (Cass. n. 13002/2019, 4206/2006, 16915/2003).
Con il quarto motivo la ricorrente censura «omesso esame di un fatto storico decisivo ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. costituito dalla mancata dimostrazione, da parte della procedura, dell’esercizio di azioni di regresso da parte del terzo RAGIONE_SOCIALE dopo il pagamento revocato di € 43.500 ».
La ricorrente osserva che «la controparte non ha in alcun modo provato, né chiesto di provare che committente abbia esercitato azioni di regresso, verso la RAGIONE_SOCIALE, prima dell’apertura della procedura concorsuale ».
4.1. Il motivo è inammissibile, perché non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata.
Secondo la Corte d’Appello il terzo dei pagamenti per cui è causa fu effettuato direttamente a RAGIONE_SOCIALE dalla committente RAGIONE_SOCIALE, ad estinzione del debito che quest’ultima aveva maturato verso RAGIONE_SOCIALE In tal modo RAGIONE_SOCIALE ottenne il pagamento di un credito maturato nei confronti di una società che non sarebbe stata in grado di pagarlo, a causa del suo stato di insolvenza, violando così la par condicio creditorum .
Non si comprende, data la fattispecie, a quali possibili «azioni di regresso» di RAGIONE_SOCIALE nei confronti di RAGIONE_SOCIALE si faccia riferimento con questo motivo di ricorso.
Rigettato il ricorso, per l’infondatezza del primo e del terzo motivo e per l’inammissibilità degli altri due motivi, le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
Si dà atto che, in base al l’esito del giudizio, sussiste il presupposto per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 7.000 , per compensi, oltre alle spese generali al 15%, a € 200 per esborsi e agli accessori di legge; dà atto, ai sensi dell ‘ art.13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell ‘ ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio