Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 17638 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 17638 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 9804/2023 R.G. proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME tutti rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, domicilio digitale ex lege ;
-ricorrenti- contro
RAGIONE_SOCIALE quale mandataria con rappresentanza di RAGIONE_SOCIALE in persona del procuratore speciale, NOME COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE e NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, domicilio digitale ex lege ;
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di PALERMO n. 446/2023, depositata il 2/03/2023 e notificata il 6/03/2023. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/05/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Marsala, con sentenza n.143/2018, disattendeva ex officio le domande di revocatoria della banca Monte dei Paschi di Siena avente ad oggetto tre atti costitutivi di altrettanti fondi patrimoniali, posti in essere, rispettivamente, da NOME, da NOME e da NOME COGNOME, costituitisi fideiussori della RAGIONE_SOCIALE, dichiarandole inammissibili per la «mancata produzione da parte di MPS dell’estratto dell’atto di matrimonio dei convenuti COGNOME con evidenziata l’annotazione a margine del costituito fondo patrimoniale e conseguente inammissibilità dell’azione revocatoria proposta da MPS (sulla scorta di quanto statuito dalla Suprema Corte di Cassazione Sezioni Unite -Sentenza 13/10/2009 n. 21658)».
La Corte d’appello di Palermo, all’esito del giudizio di appello proposto dalla banca Monte dei Paschi di Siena che agiva quale procuratrice speciale di RAGIONE_SOCIALE a sua volta cessionaria pro soluto dei crediti pecuniari intestati alla banca Monte dei Paschi di Siena, con la sentenza n. 446/2023, depositata il 2/03/2023 e notificata il 6/03/2023, per quanto ancora di interesse:
ha riformato la decisione del tribunale, escludendo che tra i presupposti applicativi del rimedio di cui all’art. 2901 cod.civ. rientri la prova dell’opponibilità al creditore procedente dell’atto revocando;
ha ritenuto revocabili gli atti costitutivi dei fondi patrimoniali, precisando che gli stessi, anche se effettuati da entrambi i coniugi,
non integrano adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatori per legge, e li ha considerati atti a titolo gratuito, non trovando contropartita in un’attribuzione a favore dei disponenti;
ha accertato, non essendo stata contestata, la ricorrenza di una posizione creditoria in capo all’appellante, derivant e dai mutui concessi a RAGIONE_SOCIALE per l’importo complessivo di euro 1.1187.258,17, essendosi i fratelli COGNOME costituiti garanti della società mutuataria in ordine all’adempimento degli obblighi assunti con la stipulazione dei mutui;
-ha escluso l’applicazione dell’art. 1341 cod.civ. invocata dagli appellati, perché: a) le pattuizioni censurate erano di dubbia riconducibilità al novero di quelle aventi carattere vessatorio, anche in ragione dell’atipicità della garanzia fideiussoria che presentava carattere di autonomia rispetto all’obbligazione garantita, ed erano state inserite nell’atto notarile ; quindi, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ancorché vessatorie, non necessitavano di specifica approvazione per iscritto; b) erano presenti numerosi indicatori dell’avvenuta negoziazione congiunta del regolamento negoziale;
essendo i fratelli COGNOME già soci e componenti del consiglio di amministrazione della società garantita ha negato loro la qualifica di consumatori, presupponendo tale qualifica l’assenza di un collegamento funzionale tra la persona fisica che ha assunto la veste di fideiussore e la società garantita;
non essendo stata la fideiussione per cui è causa conclusa per adesione o attraverso la sottoscrizione di moduli uniformi e/o formulari, ha escluso che essa costituisse la concretizzazione a valle di una intesa anticoncorrenziale, ai sensi dell’art. 2 della l. n. 287/1990, aggiungendo che neppure erano state precisamente identificate le clausole conformi allo schema predisposto dall’Abi, sanzionato dalla Banca d’Italia, e gli elementi che inducevano ad affermare detta conformità;
ha considerato implausibile il richiamo ai doveri di informazione della banca, data la qualità di soci e di amministratori della società debitrice principale assunta dai fratelli COGNOME;
ha reputato inapplicabili le regole di cui agli artt. 1938 e 1956 cod.civ., non essendo l’oggetto della garanzia un’ obbligazione futura o indeterminata e avendo piuttosto i fideiussori assunto la garanzia contestualmente all’erogazione del credito;
ha accertato che i contratti di finanziamento erano stati frutto di un’attenta trattativa ed erano stati perfezionati in conformità con il business plan predisposto dalla RAGIONE_SOCIALE con l’ausilio dei suoi advisor , al duplice scopo di ristrutturare i debiti e di provvedere alle necessità finanziarie della mutuataria ed ha concluso che i fideiussori non potevano dolersi dell’impiego delle somme mutuate per ripianare la situazione debitoria della società, non essendo tale finalità illecita;
-ha escluso l’invalidità dei contratti ipotizzata dai ricorrenti , fondata solo sull’assunto che la banca avrebbe tenuto un comportamento contrario a buona fede e diligenza, confondendo le regole di invalidità con le regole di comportamento;
-ha ritenuto sussistente l’ eventus damni , avendo i fideiussori conferito nei fondi patrimoniali quasi la metà del loro patrimonio personale, rendendo più difficile il soddisfacimento delle ragioni creditorie, e non avendo dimostrato che il patrimonio residuo fosse tale da escludere il rischio potenziale provocato dagli atti dispositivi;
-ha disatteso l’eccezione di legittimazione passiva delle coniugi dei fideiussori, in aderenza alla consolidata giurisprudenza di questa Corte;
ha escluso la legittimazione passiva dei figli dei disponenti, rigettando l’eccezione di lesione dell’integrità del contraddittorio.
NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME ricorrono per la cassazione di detta sentenza, formulando undici motivi di ricorso.
RAGIONE_SOCIALE quale mandataria con rappresentanza di RAGIONE_SOCIALE resiste con controricorso, illustrato con memoria.
La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis 1 cod.proc.civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1) Con il primo motivo -indicato come motivo 1.1. – i ricorrenti denunziano «Violazione o falsa applicazione di norme di diritto nonché omesso, ovvero insufficiente, esame circa un fatto decisivo per la controversia, in relazione all’art. 348 bis», avendo la corte territoriale rigettato, asseritamente senza motivazione, l’eccezione di inammissibilità dell’appello per avere la sentenza appellata deciso questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte e per non avere l’esame dei motivi di gravame offerto elementi per mutarne l’orientamento. La corte d’appello, secondo i ricorrenti, ha rigettato l’eccezione d’inammissibilità «argomentando a contrario al riguardo dei principi giurisprudenziali consolidati espressi sul punto dalla Suprema Corte».
La censura è infondata.
La corte territoriale ha ritenuto fondato l’appello, tant’è che ha accolto il gravame proposto da Monte dei Paschi di Siena S.p.A., precisando altresì che il gravame era stato ritenuto implicitamente infondato avendo disposto per la precisazione delle conclusioni la fissazione di una successiva udienza; ciò costituisce inequivocabilmente una motivazione idonea.
Deve, a tal proposito, osservarsi che «la definizione del gravame nel merito, tra l’altro con il suo accoglimento, è scelta del giudice dell’appello che non può dirsi proceduralmente viziata sul presupposto che si sarebbe dovuta affermare l’inammissibilità per
assenza di ragionevole probabilità di accoglimento; tale inammissibilità, derivante da una valutazione ictu oculi di infondatezza, ha comunque i tratti propri di un apprezzamento sul merito della pretesa azionata e pertanto, una volta non assunta, essa resta assorbita nella successiva decisione assunta con sentenza e ciò non solo se la pronuncia finale sia comunque di rigetto del gravame, ma anche se esso venga accolto; l’ iter procedurale di cui alla norma in esame ha finalità semplificatorie che si realizzano, comportando l’impugnabilità diretta per cassazione della sentenza di primo grado nelle forme speciali regolate dall’art. 348ter , co. 4, c.p.c., solo quando il giudice prescelga tale percorso decisorio e si esauriscono con la scelta del giudice stesso, in quanto la decisione sul merito supera e rende ininfluente ogni apprezzamento prognostico sul merito stesso; allorquando la decisione ai sensi dell’art. 348-ter, co. 1, c.p.c. non sia assunta, l’unico provvedimento impugnabile è la sentenza che definisce l’appello, ma per vizi suoi propri, in procedendo o in iudicando, e non per il solo fatto del non esservi stata decisione nelle forme semplificate» (Cass. 29/11/2021, n. 37272).
2) Il secondo motivo – indicato come motivo 1.2. – è rubricato «Violazione o falsa applicazione di norme di diritto nonché omesso ovvero insufficiente esame circa un fatto decisivo per la controversia, in relazione agli art.2901 c.c., art. 2697 c.c., art.162 ultimo comma c.c., art. 100 c.p.c., art.115 c.p.c., art 116 c.p.c.».
Secondo la corte d’appello, l’art. 2901 c.c. non annovera, tra i suoi presupposti applicativi la prova dell’opponibilità ai creditori dell’atto dispositivo, essendo, piuttosto, incardinata intorno ai due presupposti dell’eventus damni e della scientia , partecipatio e consilium fraudis (oltre, che naturalmente, alle due precondizioni fattuali dell’esistenza di un credito non soddisfatto e del compimento di un atto di disposizione del patrimonio ad opera del debitore). Dunque, l’opponibilità degli atti costitutivi dei fondi
patrimoniali non è stato ritenuto uno dei «presupposti dell’azione promossa» né il difetto della relativa prova avrebbe potuto condurre alla declaratoria di inammissibilità dell’azione ex art. 2901 c.c. per carenza di interesse ad agire dovendosi, peraltro, attribuire, per giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. Civ. Sez. I, 10/5/2019 n. 12545) all’annotazione del vincolo in calce all’estratto di matrimonio funzione meramente dichiarativa, rilevante ai fini dell’opponibilità del medesimo atto ai terzi e priva di effetto sulla validità o efficacia dell’atto».
I ricorrenti censurano il suddetto ragionamento, perché non avrebbe tenuto conto che l’istituto del fondo patrimoniale è stato introdotto nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia; di conseguenza, i presupposti dell’azione revocatoria avrebbero dovuto essere «ricalibrati », tenendo conto di quanto dispone l’art. 162, ultimo comma, cod.civ. relativamente all’opponibilità ai terzi delle convenzioni matrimoniali; di talché il creditore procedente avrebbe dovuto dimostrare anche l’opponibilità a sé dell’atto revocando, pena l’inammissibilità della domanda ex art.100 cod.proc.civ. per carenza di interesse ad agire o, sotto altra prospettiva, per mancata allegazione ab origine dell’oggetto del contendere.
Il motivo è infondato.
Non vi è ragione di discostarsi da quanto questa Corte ha in proposito già statuito e cioè che «il fondo patrimoniale non annotato sull’atto di matrimonio non è opponibile ai terzi (Cass. 10/07/2008, n. 18870; Cass. 08/10/2008, n. 24798), è privo di effetti nei loro confronti, con la conseguenza, che per i creditori i beni conferiti nel fondo patrimoniale non sono in realtà mai stati conferiti, e dunque sono rimasti nel patrimonio dei debitore, che il creditore può, nelle forme ordinarie, aggredire»; tuttavia, «la mancata annotazione, a margine dell’atto di matrimonio, dell’atto di costituzione di un bene in fondo patrimoniale ovvero il difetto
della relativa prova risultano irrilevanti al fine di paralizzare l’azione revocatoria promossa avverso l’iscrizione di un bene immobile nel fondo, perché il sistema di pubblicità di cui all’art. 163, comma 3, c.c., fondato sull’annotazione, ha la finalità di rendere la convenzione matrimoniale opponibile ai terzi, ma l’azione revocatoria non ha tra i suoi elementi costitutivi la circostanza che l’atto in relazione al quale è domandata sia opponibile ai creditori» (Cass. 6/03/2019, n. 6450).
In aggiunta, Cass. 16/11/2020, n. 25853 ha osservato che «la circostanza che, in difetto di annotazione a margine dell’atto di matrimonio, l’atto costitutivo non sia opponibile ai creditori non vale ad elidere il fatto che la convenzione è stata comunque posta in essere e che la stessa potrebbe divenire, in ogni momento, opponibile ai creditori tramite fa successiva annotazione»; ciò in quanto «la destinazione del bene nel fondo patrimoniale, a prescindere dalla annotazione, può essere sufficiente a rendere. più incerta e difficile la realizzazione del diritto. Del resto, nell’azione revocatoria ordinaria il presupposto costituito dal pregiudizio alle ragioni del creditore include anche il pericolo di danno, la cui valutazione è rimessa alla discrezionalità del giudice (Cass. 22/12/2015, n. 25733), così che l’atto, anche se non opponibile al momento, può comportare un pericolo di danno a cagione della sempre concreta possibilità di annotarlo e dunque di renderlo opponibile. Infine, la non opponibilità dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale, dovuta alla mancata annotazione di quest’ultimo, è situazione diversa dalla inefficacia dell’atto a seguita della revocazione, così che quest’ultima mira ad un effetto diverso: non già a rimuovere l’inopponibilità dell’attodovuta al difetto di pubblicità- bensì a rendere l’atto del tutto inefficace verso il creditore. In tal modo la revocatoria assicura l’inefficacia dell’atto, anche per l’ipotesi che esso, venendo poi trascritto, risulti opponibile ai terzi» (Cass. 21/02/2023, n. 5356);
Con il terzo motivo -indicato come motivo 1.3 – parte ricorrente denunzia «Violazione e falsa interpretazione di norme di diritto nonché omesso ovvero insufficiente esame circa un fatto decisivo per la controversia, in relazione alle spese di lite ex art. 91 c.p.c.».
La censura investe la statuizione di condanna al pagamento delle spese di lite: il Tribunale di Marsala aveva condannato la banca procedente al pagamento delle spese del giudizio di primo grado, liquidandole in euro 6.700,00. Secondo i ricorrenti, la corte d’appello, ponendo interamente a loro carico sia le spese del primo grado (liquidate in euro 19.710,00) sia di quelle d’appello (liquidate in euro 18.556,00) -quelle di primo grado in misura maggiore di quanto aveva previsto il tribunale – non avrebbe tenuto conto che il giudice di primo grado le aveva quantificate sottolineando «la mancanza di fase istruttoria» nonché l’opportunità di «riduzione per le restanti fasi, per il fatto che i convenuti non avevano argomentato in alcun modo su quanto rilevato d’ufficio dal Giudice al fine della decisione adottata».
Il motivo è infondato.
Con riferimento al regolamento delle spese di lite il sindacato di questa Corte è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa (eventualità che non si è verificata nel caso in esame), con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti (v., di recente, Cass. 24/04/2024, n. 11098).
I ricorrenti non hanno neppure prospettato che i limiti massimi di quantificazione delle spese siano stati superati (Cass. 21/06/2019, n. 16770).
La censura mossa alla gravata sentenza in punto di quantificazione delle spese di lite è dedotta senza confronto con il principio secondo cui, in tema di liquidazione delle spese processuali ai sensi del d.m. n. 55 del 2014, l’esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo, non è soggetto a sindacato di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella (cfr. Cass 27/03/2023, n. 8561; Cass. 13/07/2021, n. 19989; Cass. 10/05/2019, n. 12537).
Va aggiunto che:
se la liquidazione delle spese è contenuta tra il minimo e il massimo dei parametri previsti, i doveri motivazionali del giudice sul punto si caratterizzano per un minore rigore argomentativo ( ex multis cfr. Cass. 20/02/2023, n.5289);
ii) i parametri di determinazione del compenso per la prestazione defensionale in giudizio e le soglie numeriche di riferimento costituiscono criteri di orientamento e individuano la misura economica standard del valore della prestazione professionale e impongono al giudice solo in caso di scostamento apprezzabile dai valori medi della tabella allegata al D.M. n. 55 del 2014 di indicare i parametri che hanno guidato la liquidazione del compenso, fermo il divieto di liquidare, al netto degli esborsi, somme praticamente simboliche e non consone al decoro della professione (Cass. 23/04/2020, n. 8146; Cass. 28/12/2023, n. 36270);
iii) la corte d’appello ha giustificato la quantificazione delle spese avuto riguardo per l’effettiva complessità delle questioni trattate e per l’entità economica delle ragioni di credito alla cui tutela l’azione revocatoria era diretta (p. 23 dell’impugnata sentenza).
Con il quarto motivo -indicato come motivo 2.1. – parte ricorrente denunzia «Violazione e falsa interpretazione di norme di diritto: art. 1341 c.c. ed articoli 2699 c.c. (atto pubblico) e 2702 c.c. (scrittura privata autenticata) e legge notarile 16/2/1913 n. 89, art. 28 – primo comma – », per avere il giudice a quo ritenuto i
contratti di mutuo conclusi dalle RAGIONE_SOCIALE e la fideiussione prestata a garanzia degli stessi stipulati con rogito notarile nella forma dell’atto pubblico. I contratti erano stati invece stipulati inter partes con scritture private con le sole firme delle parti contraenti autenticate dal notaio; detto errore avrebbe portato la corte d’appello a ritenere non applicabile la disciplina della vessatorietà che, invece, avrebbe dovuto trovare applicazione.
Il motivo è inammissibile.
Il giudice a quo non ha basato la statuizione con cui ha concluso nel senso della non necessaria approvazione specifica delle clausole per cui è causa («la garanzia omnibus senza limitazione di importo, la rinuncia a beneficio della preventiva escussione dell’obbligato principale, l’obbligo di pagamento c.d. ‘a prima richiesta’, la deroga all’art. 1957c.c., la dichiarazione di postergazione e di subordinazione di ogni proprio diritto di rivalsa nei confronti della mutuatari alla piena soddisfazione delle ragioni di credito del mutuante, l’acquiescenza (rinuncia) avverso il mancato o ritardato esercizio da parte del ceto bancario mutuante di diritti o azioni allo stesso spettanti») su una sola ratio decidendi (l’essere state inserite in contratti stipulati per atto pubblico: inserimento che secondo la giurisprudenza di questa Corte, quand’anche le clausole inserite si conformino alle condizioni poste da uno dei contraenti e pur se vessatorie, non necessitano di specifica approvazione: Cass. 16/07/2020, n.15253), ma anche sulla loro dubbia riconducibilità nell’alveo dell’elencazione tassativa di quelle vessatorie ex art. 1341 cod.civ. (v. amplius p. 16 dell’impugnata sentenza) e sul fatto che non erano state predisposte unilateralmente dalla banca procedente, ma erano state il risultato di una trattativa intercorsa tra le parti (a p. 17 dell’impugnata sentenza, cui si rinvia, il giudice a quo ne ha dato ampio riscontro).
Giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità l’impugnazione di una decisione basata su una motivazione strutturata in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi l’uno dallo altro, e ciascuno, di per sé solo, idoneo a supportare il relativo dictum , per poter essere ravvisata meritevole di ingresso, deve risultare articolata in uno spettro di censure tale da investire, e da investire utilmente, tutti gli ordini di ragioni cennati, posto che la mancata critica di uno di questi o la relativa attitudine a resistere agli appunti che le sono rivolte comporterebbe che la decisione dovrebbe essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurato e priverebbe il gravame dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (v., tra le pronunce più recenti, Cass. 26/02/2024, n. 5102).
Di conseguenza, pur essendo vero -del resto, risulta anche dall’impugnata sentenza che i contratti erano stati stipulati con scrittura privata e non con atto pubblico -che la corte d’appello ha erroneamente applicato la giurisprudenza che ritiene non necessaria la specifica approvazione per iscritto delle clausole vessatorie inserite in un atto pubblico, i ricorrenti hanno omesso di confutare le ulteriori rationes decidendi poste a fondamento della statuizione di non vessatorietà delle clausole indicate che, pertanto, resiste alle loro censure.
5) Con il quinto motivo -indicato come motivo 2.2 – i ricorrenti denunziano «Violazione e falsa interpretazione di norme di diritto: art. 1341 c.c. in relazione agli articoli 1337 – 1374 -1375 c.c.».
La tesi è che la normativa che regola il sistema bancario imponga, a tutela del sistema stesso e dei soggetti che vi sono inseriti, comportamenti in parte tipizzati, in parte enucleabili caso per caso, la cui violazione può costituire culpa in omittendo , al punto da ipotizzare che gli artt. 1218 e 2729 c.c. introducano «una vera e
propria presunzione di responsabilità della banca in caso di azione diretta a far dichiarare l’inadempimento contrattuale invertendo altresì l’onere della prova: spetterà quindi alla banca, utilizzando ogni mezzo di prova, dimostrare di aver adottato la diligenza necessaria sufficiente a dimostrare il proprio adempimento». Inoltre, il D.Lgs.n.58/1998 detta criteri generali di comportamento, in relazione anche al disposto degli artt. 1176, 2° comma, 2236 e 1175 cod.civ., a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge (Cass. n.12310/99). Orbene, la banca nei due contratti di finanziamento (e nelle successive erogazioni) sarebbe venuta meno ai «doveri informativi imposti dalla normativa vigente e dall’osservanza dei principi di buona fede e del grado maggiore di diligenza imposta all’operatore professionale bancario, esercente un’attività di pubblico interesse, dato che la sintesi estrema ma sostanziale della negoziazione contrattuale intercorsa, desumibile ampiamente dalla piattaforma contrattuale imbastita dal ceto bancario di fronte alle difficoltà economiche e finanziarie della parte mutuataria RAGIONE_SOCIALE, risulta per tabulas essere stata sostanzialmente la seguente: ‘prendere o lasciare’, firmare quanto predisposto dalle banche con clausole vessatorie o soccombere definitivamente !».
Le argomentazioni addotte a supporto della censura qui scrutinata omettono qualunque confronto con l’impugnato provvedimento che dà ampiamente conto delle ragioni per le quali la corte territoriale ha escluso che i contratti di finanziamento fossero stati predisposti unilateralmente dalla banca e/o che fossero stati imposti (pp. 1718).
Il che condanna la censura all’inammissibilità, in quanto è meramente riproduttiva delle tesi disattese dalla corte d’appello; con i motivi di ricorso per cassazione la parte non può limitarsi a riproporre le tesi difensive svolte nelle fasi di merito e
motivatamente disattese dal giudice dell’appello, senza considerare le ragioni offerte da quest’ultimo, poiché in tal modo si determina una mera contrapposizione della propria valutazione al giudizio espresso dalla sentenza impugnata che si risolve, in sostanza, nella proposizione di un “non motivo”, come tale inammissibile ex art. 366, 1° comma, n. 4, c.p.c. (Cass. 24/09/2018, n. 22478; Cass. 25/08/2000, n. 11098; Cass. 23/09/2003, n. 12632).
6) Con il sesto motivo -indicato come motivo 2.3 – i ricorrenti si dolgono della «Violazione e falsa interpretazione di norme di diritto: D.Lgs. n. 206/2005 (c.d. codice del consumo)», per avere la corte d’appello ritenuto che, in quanto soci e componenti del consiglio di amministrazione di RAGIONE_SOCIALE non potessero avvalersi della qualifica di consumatori, « presupponendo questa l’assenza di ogni collegamento funzionale tra la persona fisica costituitasi garante delle obbligazioni assunte dalla società commerciale nei confronti dell’ente creditizio e la società medesima ».
Diversamente da quanto statuito dalla corte territoriale, secondo i ricorrenti, avrebbe dovuto trovare applicazione l’orientamento della Corte di Giustizia UE del 19 novembre 2015 che ammette l’applicabilità della disciplina consumeristica per l’ipotesi di contratto di garanzia immobiliare o di fideiussione stipulato tra persona fisica e banca a garanzia di obbligazioni contratte da una società commerciale.
Il motivo è infondato.
Sulla questione evocata dai ricorrenti questa Corte è intervenuta con la pronuncia, emessa a Sezioni Unite, n. 5868 del 27/02/2023, stabilendo, in conformità con l’orientamento maggioritario precedente (Cass. 13/12/2018, n. 32225; Cass. 16/01/2020, n. 742; Cass. 24/01/2020, n. 1666; Cass. 03/12/2020, n. 27618), che «nel contratto di fideiussione i requisiti soggettivi per l’applicazione della disciplina consumeristica devono essere valutati con riferimento alle parti di esso, senza considerare il contratto
principale, come affermato dalla giurisprudenza unionale (CGUE, 19 novembre 2015, in causa C74/15, Tarcau, e 14 settembre 2016, in causa C-534/15, COGNOME, secondo cui nel caso di una persona fisica che abbia garantito l’adempimento delle obbligazioni di una società commerciale, spetta quindi al giudice nazionale determinare se tale persona abbia agito nell’ambito della sua attività professionale o sulla base dei collegamenti funzionali che la legano a tale società, quali l’amministrazione di quest’ultima o una partecipazione non trascurabile al suo capitale sociale, o se abbia agito per scopi di natura privata. Gli articoli 1, paragrafo 1, e 2, lettera b), della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che tale direttiva può essere applicata a un contratto di garanzia immobiliare o di fideiussione stipulato tra una persona fisica e un ente creditizio al fine di garantire le obbligazioni che una società commerciale ha contratto nei confronti di detto ente in base a un contratto di credito, quando tale persona fisica ha agito per scopi che esulano dalla sua attività professionale e non ha alcun collegamento di natura funzionale con la suddetta società.
«Ne deriva che il fideiussore, persona fisica, non è un professionista ‘di riflesso’, non essendo quindi tale solo perché lo sia il debitore garantito» (così Cass., Sez. Un., n. 5868/2023).
Posto che, secondo la giurisprudenza unionale la nozione di «consumatore», ai sensi dell’articolo 2, lettera b), della direttiva 93/13, ha un carattere oggettivo, essa deve essere determinata alla luce di un criterio funzionale consistente nel valutare se il rapporto contrattuale in esame rientri nell’ambito di attività estranee all’esercizio di una professione (v. ord. C-74/15, punto 27 e giurisprudenza citata).
Spetta al giudice nazionale, investito di una controversia relativa a un contratto idoneo a rientrare nell’ambito di applicazione di tale
direttiva, verificare, tenendo conto di tutte le circostanze della fattispecie e di tutti gli elementi di prova, se il contraente in questione possa essere qualificato come «consumatore» ai sensi della suddetta direttiva.
Dalla giurisprudenza comunitaria, che pure rinvia all’accertamento di merito del giudice nazionale, emergono due circostanze che devono essere oggetto di valutazione: la eventuale qualità di amministratore della società garantita assunto dal fideiussore e la detenzione di una partecipazione non trascurabile al capitale sociale di tale società.
Sul punto, deve trovare applicazione l’insegnamento di questa Corte secondo cui «in tema di contratti del consumatore, ai fini della identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della tutela di cui al vecchio testo dell’art. 1469 bis c.c. (ora art. 33 del Codice del consumo, approvato con D.Lgs. n. 206 del 2005), la qualifica di consumatore spetta solo alle persone fisiche e la stessa persona fisica che svolga attività imprenditoriale o professionale potrà essere considerata alla stregua del semplice consumatore soltanto allorché concluda un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività; correlativamente devono essere considerate professionisti tanto la persona fisica quanto quella giuridica, sia pubblica sia privata, che utilizzino il contratto non necessariamente nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa o della professione, ma per uno scopo connesso all’attività imprenditoriale o professionale» ( Cass. 26/03/2019, n. 8419).
Applicazioni dei principi della ricordata giurisprudenza comunitaria in fattispecie simili a quella qui esaminata si rinvengono nelle seguenti pronunce di questa Corte:
Cass. 2/9/2024, n.23533, che in ipotesi di contratto di fideiussione concluso da congiunto in favore dell’impresa di famiglia ha ritenuto esclusi i requisiti soggettivi di applicabilità della
disciplina consumeristica, stante l’interessamento all’attività sociale in ragione del rapporto familiare, a prescindere dall’entità della partecipazione al capitale sociale, nonché dall’aver ricoperto incarichi gestionali nella compagine sociale;
Cass. 24/1/2020, n. 1666 , che ha ravvisato la qualità di consumatore in capo al fideiussore in ragione della sua qualità di professoressa di lettere collocata a riposo e in assenza di prova circa la sua partecipazione all’attività d’impresa del garantito; Cass. 13/12/2018, n. 32225 che ha confermato la pronuncia di merito che aveva escluso la qualità di consumatore in capo al fideiussore detentore del 70% del patrimonio sociale della società garantita, ancorché non amministratore della stessa, ed in assenza di prove idonee ad escludere il collegamento tra la fideiussione e lo svolgimento dell’attività professionale.
Orbene, nella specie i requisiti soggettivi per l’applicazione della disciplina consumeristica sono stati ritenuti insussistenti per la peculiare posizione nella vicenda in esame assunta dai fideiussori, soci ed amministratori della società garantita (v. pp. 16 e 17 della impugnata decisione), essendosi correttamente escluso che abbiano concluso il contratto quali consumatori e ritenuto che abbiano per converso agito nell’àmbito della propria attività professionale, stipulando il contratto di garanzia al fine di rafforzare la loro posizione sul mercato, onde allo svolgimento di quella la prestazione fideiussione si presenta come strettamente funzionale, costituendo proprio un atto espressivo di tale attività.
7) Con il settimo motivo -indicato come motivo 2.4 – i ricorrenti prospettano «Violazione e falsa interpretazione di norme di diritto: artt. 1956 e 1938 c.c.», per avere la corte d’appello ritenuto che «la qualità di soci e amministratori della debitrice principale pacificamente rivestita dai garanti sin dal momento dell’erogazione del credito rende poco plausibile il richiamo operato dai convenuti ai doveri di informazione della banca, va altresì considerato che
nemmeno appaiono applicabili alla fattispecie concreta le regole di cui agli artt. 1938 e 1956 c.c., non essendo oggetto della garanzia prestata dai Foraci una obbligazione futura o indeterminata e avendo, piuttosto, i fideiussori assunto la garanzia personale contestualmente all’erogazione del credito ».
La prospettazione dei ricorrenti è che la corte d’appello abbia deciso in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «La banca che concede finanziamenti al debitore principale, pur conoscendone le difficoltà economiche, fidando nella solvibilità del fideiussore, senza informare quest’ultimo dell’aumento del rischio e senza chiedere la preventiva autorizzazione, viola gli obblighi di buona fede» (Cass. n. 16827/2016).
La banca procedente (unitamente ad altre banche) aveva erogato due finanziamenti a medio termine alla società RAGIONE_SOCIALE nonostante il suo conto economico ed i suoi risultati di esercizio dimostrassero che versava in una situazione di palese sofferenza per la pesantissima esposizione debitoria che generava costi per interessi passivi non sopportabili dalla gestione tipica corrente dell’impresa. I ricorrenti insistono nel ritenere che non si era trattato di mutui, ma di un’operazione di rifinanziamento di debiti esistenti a breve termine, crescenti ed effettivamente lievitati, portati a medio-lungo termine con la speranza, per le banche, di rifinanziare acquisendo nuove tutele e garanzie reali e personali, senza le comunicazioni dovute per legge ai fideiussori sull’aggravamento del debito e sull’insolvenza delle prime rate scadute dei detti mutui, non pagate dal debitore principale. In particolare, ritengono che la corte territoriale avrebbe dovuto applicare la giurisprudenza di questa Corte secondo cui nel caso «di fideiussione per obbligazione futura (art.1938 cod.civ.), la garanzia fideiussoria è nulla ogni qual volta il comportamento della banca beneficiaria della fideiussione non sia improntato, nei confronti del fideiussore, al rispetto dei principi di correttezza e buona fede
nell’esecuzione del contratto. Il che si verifica quando la nuova concessione di credito sia avvenuta nonostante il peggioramento delle condizioni economiche e finanziarie del debitore principale, cosicché possa ritenersi che la banca abbia agito nella consapevolezza di un’irreversibile situazione di insolvenza e, quindi, senza la dovuta attenzione anche all’interesse del fideiussore » (Cass. 394/2006; 11979/2013).
Con questo ordine di valutazioni critiche i ricorrenti si dolgono, dunque, dell’assunzione da parte della banca di un comportamento scorretto e della ricorrenza dei presupposti per la liberazione del fideiussore, ai sensi degli artt. 1955.
La censura è infondata.
È vero che Cass. 18/2/2022, n. 5423 ritiene che l’obbligazione futura è solo quella i cui elementi costitutivi si verificano integralmente in futuro, cioè quella che al momento della prestazione della garanzia non veda già esistente alcuno dei suoi fatti costitutivi e che non ha alcun rapporto di derivazione da eventi che originino dallo svolgimento delle obbligazioni del debitore esistenti al momento dell’assunzione della garanzia da parte del garante, escludendo che tale possa considerarsi quella che sorge al momento della stipula del contratto garantito, anche se è sottoposta a termine per quanto riguarda i canoni da pagare alle singole scadenze, ma l’indirizzo prevalente è opposto.
Infatti, evocando il principio di buona fede e di correttezza Cass. 2/3/2005, n. 4458 ha cassato la decisione di appello che non aveva considerato che, ai fini dell’art. 1956 cod. civ., far credito non è solo mettere la controparte nella possibilità di disporre di somme di denaro da restituire, ma anche lasciare che un rapporto a prestazioni corrispettive si svolga in modo che la controparte continui a ricevere la prestazione a suo favore, senza dal canto suo eseguire la propria.
Detto principio è stato più volte applicato.
Cass. 13/02/2009, n. 3525, rispetto ad un’obbligazione di pagamento del canone di locazione che matura dopo la conclusione del contratto e la concessa fideiussione con cadenza mensile, una volta che si determina la morosità, ha ritenuto giustificata l’applicazione dell’art. 1956 cod.civ., nel senso di imporre al locatore di riferire al garante della morosità del conduttore, sì da farsi autorizzare ad attendere il pagamento e così sostanzialmente a fare credito al conduttore con la garanzia del fideiussore.
Del pari, evocando il principio di correttezza e di buona fede, si è ritenuto scorretto il comportamento di una banca che, anziché sospendere l’esecuzione della propria prestazione, una volta venuta a conoscenza del peggioramento delle condizioni patrimoniali della controparte, aveva continuato ad aprire nuove linee di credito ad un debitore a rischio di insolvenza, scaricandone il rischio sul fideiussore, e non si era avvalsa, ricorrendone gli estremi, degli strumenti di tutela a sua disposizione che un comportamento improntato a buona fede le avrebbe imposto di utilizzare per evitare un incremento dell’esposizione debitoria di cui il fideiussore ignaro ed incolpevole aveva finito per sopportare il rischio: così Cass. 22/10/2010, n. 21730.
Cass. n. 21730/2010 ha affermato che, pur essendo una facoltà per il creditore -in particolare una forma di autotutela -quella di avvalersi dell’art. 1461 cod.civ., essa si trasforma per il medesimo in un comportamento dovuto, quando vi sia stata la prestazione da parte del fideiussore di garanzia per debiti futuri del terzo, trattandosi in questo caso di tutelare anche e soprattutto il garante, nel quadro del principio di buona fede e del connesso dovere di tutela dell’altro contraente; premurandosi di ribadire che obbligazione futura è tanto quella inerente ad un rapporto già sorto, ma che avrà modo di venire a scadenza dopo che la fideiussione è prestata, quanto quella inerente ad un rapporto contemplato dalle parti e che sorgerà se il rapporto verrà in essere,
ribadendo che il «far credito», ai fini della norma citata, è stato inteso non solo come il mettere la controparte nella possibilità di disporre di somme di denaro da restituire, ma, ad esempio, anche il lasciare che un rapporto a prestazioni corrispettive si svolga in modo che la controparte continui a ricevere la prestazione a suo favore.
Nondimeno, anche ammettendo la non correttezza del comportamento della banca, essa da sola non porta alla liberazione del fideiussore.
Pur sussistendo il fatto del debitore, rilevante ai sensi dell’art. 1955 cod.civ., la liberazione richiede la prova che da esso sia derivato un pregiudizio giuridico e non solo economico che deve concretizzarsi nella perdita del diritto di surrogazione, ex art. 1949 cod.civ., o di regresso, ex art. 1950 cod.civ., e non già nella mera maggiore difficoltà di attuarlo per le diminuite capacità satisfattive del patrimonio del debitore (Cass. 19/02/2020, n. 4175; cui adde , senza pretesa di esaustività, Cass. 05/12/2008, n. 28838; Cass. 20/09/2017, n. 21833; Cass.16/06/2003, n. 9634).
I ricorrenti non hanno dunque fornito la prova che la banca abbia provocato la perdita del diritto di surrogazione (Cass. 11/12/2018, n. 31945).
8) Con l’ottavo motivo indicato come motivo 2.5 – i ricorrenti denunziano «Violazione e falsa applicazione di norme di diritto nonché omesso ovvero insufficiente esame circa un fatto decisivo per la controversia: art. 1957 c.c. – prescrizione e/o decadenza ed estinzione della fideiussione per fatto del creditore».
Pur essendo stato evidenziato ed eccepito che la banca non ha proposto entro sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione principale di pagamento del mutuo (rimasta inadempiuta) le proprie istanze contro il debitore principale e che nemmeno le aveva continuate con diligenza (la stessa banca MPS aveva correttamente ammesso in citazione che l’inadempimento contrattuale, e quindi la scadenza
inadempiuta dell’obbligazione principale dei mutui risaliva alla data del 30.9.2014), e pur risultando per tabulas che solo dopo lungo tempo (20.5.2016) ha agito in executivis (in separato giudizio) contro RAGIONE_SOCIALE escutendo con pignoramento immobiliare la garanzia ipotecaria prestata per il mutuo, e pertanto ben oltre i sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione prescritti dal primo comma del citato art.1957 cod.civ., la corte d’appello non ha dichiarato l’estinzione della garanzia fideiussoria.
Né ha accertato l’inadempimento degli obblighi di cui all’art. 119, D.Lgs. n. 385 del 1993 e delle Istruzioni di Vigilanza di Banca d’Italia, Tit. X, Cap. 1, non avendo la banca fornito ai fideiussori per iscritto alla scadenza del contratto e, comunque, almeno una volta all’anno, una comunicazione analitica che desse una completa e chiara informazione sullo svolgimento del rapporto.
Il motivo è inammissibile.
Le questioni dedotte prospettano inammissibili profili di novità.
Giusta principio consolidato i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio d’appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio. Il ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione avanti al giudice del merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito: Cass. 1°/07/2024, n. 1818.
Nella specie la corte territoriale non si è occupata della questione, i ricorrenti non hanno dimostrato di avergliela sottoposta, né in verità hanno dimostrato la sussistenza dei presupposti per evocare
l’applicazione dell’art. 1957 cod.civ. Secondo questa Corte, infatti, non basta addurre la scadenza dell’obbligazione principale, occorrendo anche la prova che la fideiussione era correlata alla scadenza dell’obbligazione principale e non al suo integrale adempimento, perché in tale ultimo caso l’obbligazione del fideiussore non è soggetta a decadenza (Cass. 20/09/2023, n. 26906).
9) Con il nono motivo -indicato come motivo 2.6 – i ricorrenti denunziano «Violazione e falsa interpretazione di norme di diritto: art.1418 c.c., art.1421 c.c.», per avere il giudice a quo ritenuto che « l’eventuale utilizzazione, nell’ambito dell’autonomia privata, del contratto di finanziamento per ripianare pregresse esposizioni debitorie della stessa cliente non individua in sé uno schema negoziale vietato dalla legge, mentre eventuali profili di invalidità della complessiva operazione sono ravvisabili soltanto se ed in quanto lo schema prescelto sia finalizzato o ad aggirare un divieto posto da norme imperative (c.d. negozio in frode alla legge), ovvero qualora il rapporto sottostante, che vale a racchiudere in sé la causa del mutuo, sia viziato da nullità ex art. 1418 c.c. tali da generare un debito illegittimo».
I ricorrenti lamentano di avere eccepito la nullità del mutuo, siccome carente di causa in concreto, erogato non per finanziare il richiedente mettendo a disposizione del medesimo la somma oggetto del contratto, bensì per estinguere preesistenti debiti della società finanziata verso la banca mutuante. Hanno dunque richiamato la pronunzia n. 9482/2013 che avrebbe ritenuto invalido il mutuo contratto dalle banche al fine di fare rientrare la parte mutuataria da altro debito (magari) meno garantito.
Deducono che la corte territoriale ha ritenuto fondata l’eccezione, riproposta in grado d’appello, di inefficacia della garanzia ipotecaria, accordata in sede di conclusione di un mutuo, affermando tra l’altro che al contratto dedotto in giudizio non
poteva riconoscersi natura giuridica di mutuo fondiario, in quanto le somme mutuate, anziché essere destinate alla funzione tipica di tale categoria di mutuo (che è quella di favorire, grazie alla concessione del prestito, la conservazione e la ripresa dell’attività produttiva dell’impresa mutuataria) non erano state poste nella disponibilità delle imprese del gruppo, ma erano servite unicamente ad estinguere le pregresse esposizioni debitorie delle banche mutuanti, derivanti da un primo finanziamento ponte e da due successivi prefinanziamenti non assistiti da garanzia ipotecaria, in modo da far acquisire alle creditrici una prelazione che in precedenza non avevano; derivava da ciò la mancanza della causa tipica e la conseguente invalidità del contratto di mutuo con la nullità (e revocabilità) dell’ipoteca iscritta a garanzia.
Il motivo è infondato.
La corte d’appello ha correttamente escluso la nullità dei mutui per cui è causa.
Va al riguardo ribadito:
che il mutuo fondiario non è mutuo di scopo, non risultando per la relativa validità previsto che la somma erogata dall’istituto mutuante debba essere necessariamente destinata ad una specifica finalità che il mutuatario sia tenuto a perseguire, né l’istituto mutuante deve controllare l’utilizzazione che viene fatta della somma erogata (Cass. 20/04/2007, n.9511);
che la stipulazione di un contratto di mutuo, ove non risulti destinata a procurare al mutuatario un’effettiva disponibilità, essendo egli già debitore in virtù di un rapporto obbligatorio non assistito da garanzia reale, può dar luogo a «un procedimento negoziale indiretto, nell’ambito del quale l’importo pattuito viene effettivamente erogato ed utilizzato per l’estinzione del precedente debito chirografario: in tal caso, l’intera operazione è impugnabile per revocatoria, in presenza dei relativi presupposti, in quanto diretta per un verso ad estinguere con mezzi anormali la
precedente obbligazione, e per altro verso a costituire una garanzia per il debito preesistente, dovendosi ravvisare il vantaggio conseguito dalla banca non già nella stipulazione del mutuo fondiario in sé, ma nell’impiego dello stesso come mezzo per la ristrutturazione di un passivo almeno in parte diverso (cfr. Cass. 25/07/2018, n. 19746; Cass. 21/02/2018, n. 4202; 29/02/2016, n. 3955).
Risulta pertanto superato il precedente indirizzo che, ravvisando nella fattispecie in esame un fenomeno simulatorio (caratterizzato dalla circostanza che le somme erogate non erano destinate a procurare un’effettiva disponibilità al mutuatario) o un accordo negoziale contraddistinto da un motivo illecito comune (consistente nell’intento di ledere la par condicio creditorum ), perveniva alla duplice conclusione della revocabilità della garanzia, in quanto costituita per un debito preesistente, e, in caso di fallimento, dell’impossibilità di ammettere al passivo il credito della banca (cfr. Cass. 9/10/2012, n. 17200; Cass. 7/01/2004, n. 12; Cass. 19/11/1997, n. 11495).
Questa Corte, nel ribadire l’assoggettabilità a revocatoria del mutuo ipotecario stipulato per l’estinzione di un precedente debito chirografario, ha infatti precisato che «l’elemento caratteristico di tali operazioni è l’effettiva erogazione di nuova liquidità da parte della banca, funzionale non solo (e non tanto), quindi, all’azzeramento della preesistente esposizione debitoria, tutelando la banca mediante un’ipoteca configurabile come garanzia non contestuale, ma a rimodulare, per il tramite di nuove condizioni negoziali per esempio afferenti il tasso di interesse o rinnovate tempistiche dei pagamenti, l’assetto complessivo del debito nel contesto di una nuova veste giuridico-economica degli anteriori rapporti»; la banca si limita a svolgere la sua funzione istituzionale, fornendo all’impresa nuove disponibilità in conformità alle regole di corretta gestione di un rischio
contestualmente assunto, e per questa nuovo (cfr. Cass. 29/02/2016, n. 3955; Cass. 8/04/2020, n. 7740; Cass. 22/02/2021, n.4694).
Mette conto sottolineare che la pronuncia Cass. n. 9482/2913, dai ricorrenti evocata a supporto della mossa censura, non ha enunciato il principio secondo cui il mutuo fondiario è nullo se viene utilizzato per ripianare una pregressa situazione debitoria, ma ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano che aveva proprio contrariamente a quanto preteso affermato che «la mancanza della causa tipica del contratto di mutuo fondiario non comportava (…) la nullità del negozio indiretto stipulato fra le parti, ma solo l’inapplicabilità ad esso delle norme speciali dettate in materia dagli artt. 38 e segg. del T.U. bancario n. 385193, ed, in particolare, del disposto dell’art. 39, che prevede il consolidamento e la non revocabilità dell’ipoteca fondiaria, decorso il termine di dieci giorni dall’iscrizione», con con seguente revocabilità dell’ipoteca iscritta dalla banca nel biennio anteriore all’apertura della procedura concorsuale, a garanzia di un debito precedentemente sorto e non ancora scaduto, ai sensi dell’art. 67, 1° comma, n. 3, l. fall.
Non avendo i ricorrenti addotto una causa giustificativa dell’invalidità del mutuo diversa da quella consistente nell’avere la banca violato gli obblighi imposti di non erogare mutuo per risanare pregresse situazioni debitorie (integrante, peraltro, la violazione di una regola di condotta, come tale non incidente sulla validità del contratto, come giustamente rilevato dal giudice a quo -la statuizione della corte d’appello resiste al loro sforzo confutativo.
10) Con il decimo motivo -indicato come motivo 2.7- i ricorrenti denunziano «Violazione e falsa interpretazione di norme di diritto: art. 1957 c.c. – art. 1418 c.c. -art. 1421 c.c. (Inefficacia e/o nullità del contratto) per violazione del divieto di intese
anticoncorrenziali vietate ex art.2, comma 2, lettera a), legge n.287/1990 (c.d. legge antitrust), da Circolare n.55/2005 Banca d’Italia, da Circolare A.B.I. n.3335/2005 ».
Si dolgono che la corte di merito abbia escluso, «al di là dell’estrema genericità dell’eccezione sollevata dagli appellati con la comparsa conclusionale senza identificare con precisione le clausole ritenute conformi allo schema predisposto dall’Associazione Bancaria Italia e gli elementi che tale conformità consentirebbero di affermare», che la fideiussione abbia attuato (a valle) un’intesa anticoncorrenziale vietata ex art. 2 L. n. 287/1990.
Lamentano non essersi dalla corte di merito considerato che la banca ha fatto loro sottoscrivere nel 2012 uno schema contrattuale di mutuo ipotecario che riproponeva il medesimo tenore delle clausole censurate e dichiarate nulle, chiedendo che ne venga pronunciata la nullità, essendo l’invalidità rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento.
La censura è infondata.
Va, innanzitutto, osservato che le Sezioni Unite di questa Corte si sono occupate ampiamente del problema della rilevabilità d’ufficio delle nullità contrattuali (Cass. 12/12/2014, n. 26242), affermando, tra l’altro, che nel giudizio di appello ed in quello di cassazione il giudice, in caso di mancata rilevazione officiosa in primo grado di una nullità contrattuale, ha sempre facoltà di procedere ad un siffatto rilievo.
Questo principio, però, deve essere applicato tenendo presenti le regole generali del processo civile e la relativa tempistica, onde evitare che l’esercizio di un potere officioso consenta alle parti di rimettersi in pista – per così dire – quando i fatti costitutivi del lamentato vizio negoziale da esaminare ex officio avrebbero potuto e dovuto essere tempestivamente allegati, onde consentire al giudice la necessaria valutazione in diritto. Qualora i fatti costitutivi della dedotta nullità negoziale non risultino già allegati in toto dalla parte che la invoca non è consentito al giudice, in qualsiasi stato e grado del processo, procedere d’ufficio a tali accertamenti, la rilevabilità officiosa della nullità essendo circoscritta alla sola valutazione in iure dei fatti già allegati.
Nel caso in esame, l’accertamento della fondatezza dell’eccezione di nullità in argomento (riguardante la nullità della fideiussione prestata dagli odierni ricorrenti in relazione allo specifico profilo della violazione della normativa antitrust alla stregua di quanto sancito nel provvedimento della Banca d’Italia n. 55/2005) avrebbe richiesto l’osservanza del requisito a pena d’inammissibilità prescritto all’art. 366, 1° comma n. 6 , cod.proc.civ., in quanto detto accertamento poggia su circostanze fattuali riguardanti, tra l’altro:
il contenuto delle clausole contrattuali di cui si invoca la nullità;
la loro esatta corrispondenza con quelle oggetto di esame da parte della Banca d’Italia nel provvedimento in precedenza richiamato;
la concreta riferibilità di quanto sancito in quest’ultimo, frutto di accertamenti che avevano riguardato un intervallo temporale ricompreso tra il 2002 ed il 2005, ad un contratto di fideiussione stipulato, solo successivamente ad esso, nel 2012;
la circostanza che certamente non avrebbero sottoscritto quella fideiussione in assenza delle clausole contestate, ricordandosi, a quest’ultimo proposito, che: i) giusta Cass., Sez.
Un., 30/12/2021, n. 41994, «I contratti di fideiussione “a valle” di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, comma 2, lett. a) della L. n. 287 del 1990 e 101 del TFUE, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, comma 3 della legge citata e dell’art. 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducono quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata -perché restrittive, in concreto, della libera concorrenza -, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti»; ii) come sancito da Cass. 4/07/2023 «Il concetto di nullità parziale, di cui all’art. 1419, comma 1, c.c., esprime il generale favore dell’ordinamento per la conservazione, ove possibile, degli atti di autonomia negoziale, ancorché difformi dallo schema legale, ed il carattere eccezionale dell’estensione all’intero contratto della nullità che ne colpisce una parte o una clausola; conseguentemente, spetta a chi ha interesse alla totale caducazione dell’assetto di interessi programmato l’onere di provare l’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla, mentre è precluso al giudice rilevare d’ufficio l’effetto estensivo della nullità parziale all’intero contratto».
Tanto preclude la rilevazione officiosa della nullità anche parziale del contratto «a valle» dell’intesa anticoncorrenziale, la quale richiede che risultino dagli atti tutte le circostanze fattuali necessarie alla sua integrazione; mentre nella fattispecie i ricorrenti non hanno indicato le clausole della fideiussione corrispondenti allo schema ABI ritenuto contrario alla c.d. legge antitrust dal provvedimento della Banca d’Italia né hanno dedotto alcunché a proposito della riferibilità della fideiussione all’intervallo temporale rilevante secondo detto provvedimento, che non hanno neppure prodotto, come era onere fare (trattandosi di atto regolamentare per cui, non opera il principio iura novit curia : Cass. 19/03/2025, n. 7387; Cass. 15/10/2019, n. 25995) unitamente allo schema ABI
cui il medesimo fa riferimento (v. da ultimo Cass. 01/04/2025, n. 8659).
È necessario che il ricorso contenga l’indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali si fonda il motivo e l’illustrazione del contenuto rilevante, provvedendo alla relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame. Infatti, sulla parte ricorrente grava l’obbligo di precisazione anche dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, e se siano stati rispettivamente acquisiti o prodotti anche in sede di giudizio di legittimità (v. Cass. 4/03/2021, n. 5999; Cass., Sez. un., 23/09/2019, nn. 23552 e 23553; Cass. 18/06/2020, n. 11892), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass. 27/12/2019, n. n. 34469), poiché il compito di questa Corte è quello di procedere a una verifica degli atti stessi, ma non quello di andare alla loro ricerca (v. Cass. 20/07/2021, n. 20753; Cass. 24/06/2020, n. 12498).
11) Con l’undicesimo motivo -indicato come motivo n. 3 – i ricorrenti denunziano «Violazione e falsa interpretazione di norme di diritto: art. 2901 c.c.», articolando tre ordini di censure.
Con la prima i ricorrenti si dolgono che la corte territoriale abbia ritenuto sussistente l’ eventus damni , nonostante la banca procedente non avesse mai escusso la fideiussione, proprio perché «ben sapeva e ben conosceva la possidenza e la situazione patrimoniale di ciascun convenuto Foraci avendo avuto l’opportunità di ‘passare al setaccio’ ogni informazione economica finanziaria utile».
Peraltro, nei fondi patrimoniali, costituiti in data 28.3.2014, cioè molto prima che si manifestasse l’inadempimento della mutuataria RAGIONE_SOCIALE e la messa in liquidazione della stessa società (anno 2016), non era stato conferito il loro intero patrimonio, ma
solo la prima casa di abitazione (di cui avevano mantenuto la proprietà esclusiva) e piccole quote indivise (minoritarie, rispetto al diritto di piena proprietà) di alcuni cespiti immobiliari, rimanendo escluse le ulteriori possidenze e partecipazioni societarie ed aziendali nonché agricole, in aggiunta, nel fondo costituito da NOME COGNOME anche la moglie aveva conferito propri beni patrimoniali perché ciò meglio rispondeva alle esigenze della famiglia.
Il motivo è infondato.
La dimostrazione della capienza del patrimonio residuo, secondo la corte d’appello, è mancata, perché non era insufficiente la prova da parte dei fideiussori di poter contare sulla «possidenza» di altri beni -ribadendo che l’ eventus damni non è integrato esclusivamente dall’integrale compromissione del patrimonio del debitore- e del fatto che la banca era già garantita da ipoteca.
L’orientamento di questa Corte ( cfr. Cass. 28/03/2024, n. 8422; Cass. 1°/02/2024, n. 3020; Cass. 29/01/2024, n.2711; Cass., 27/02/2023, n. 5815; Cass. 26/11/2019, n. 30736), che la corte territoriale ha ben applicato, è nel senso che l’esistenza di un’ipoteca sul bene oggetto dell’atto dispositivo non esclude la ricorrenza dell’ eventus damni ; l’ eventus damni consiste nel pericolo attuale di un danno futuro dipendente dalla lesione dell’interesse del creditore alla conservazione della garanzia generica del credito; per integrarne i presupposti non è necessario che ricorra una effettiva diminuzione del patrimonio del debitore – altrimenti non si spiegherebbe per quale ragione l’azione revocatoria possa essere esperita sol perché il debitore sostituisca beni facilmente aggredibili con altri più difficili da sottoporre all’eventuale e futura azione esecutiva del creditore – né che il debitore si renda insolvente; proprio perché non postula un pregiudizio attuale e certo del creditore medesimo, derivante da uno stato effettivo di insolvenza del debitore, bastando anche il semplice pericolo di insolvenza, e,
cioè, l’eventualità che il patrimonio del debitore non offra adeguate garanzie per il soddisfacimento del credito (Cass. 27/06/1977, n. 2761); «in materia di revocatoria ordinaria, l’esistenza di una ipoteca sul bene oggetto dell’atto dispositivo, ancorché di entità tale da assorbirne, se fatta valere, l’intero valore non esclude l’ eventus damni , atteso che la valutazione tanto della idoneità dell’atto dispositivo a costituire un pregiudizio, quanto della possibile incidenza, sul valore del bene, della causa di prelazione connessa alla ipoteca, va compiuta con riferimento non al momento del compimento dell’atto, ma con giudizio prognostico proiettato verso il futuro, per apprezzare l’eventualità del venir meno, o di un ridimensionamento, della garanzia ipotecaria» (così, in motivazione, Cass. 8/08/2018, n. 20671; nello stesso senso già Cass. 12/03/2018, n. 5860; Cass. 25/05/2017, n. 13172, Cass. 10/06/2016, n. 11892); è stato opportunamente chiarito, del resto, che «condizione essenziale della tutela revocatoria in favore del creditore è il pregiudizio alle ragioni dello stesso, per la cui configurabilità, peraltro, non è necessario che sussista un danno concreto ed effettivo, essendo, invece, sufficiente un pericolo di danno derivante dall’atto di disposizione, il quale abbia comportato una modifica della situazione patrimoniale del debitore tale da rendere incerta la esecuzione coattiva del debito o da comprometterne la fruttuosità» (Cass. 29/03/1999, n. 2971); deve, allora, riconoscersi che una «situazione di pericolo è tale in relazione alla sua potenzialità cagionatrice di un evento dannoso futuro», sicché «la sua esistenza necessariamente va apprezzata proiettandosi con un giudizio verso il futuro», di conseguenza, «non è possibile apprezzarla compiendo una valutazione che si correli al momento dell’atto dispositivo e dunque alla possibile incidenza in quel momento della garanzia ipotecaria esistente ma non ancora fatta valere e della quale dunque non è dato conoscere se e come in futuro inciderà» (Cass. 10/06/2016, n. 11892); non è, dunque,
necessario che il creditore dimostri, onde veder accolta l’ actio pauliana , la concreta possibilità di soddisfazione del credito, atteso che l’azione revocatoria opera a tutela dell’effettività della responsabilità patrimoniale del debitore, ma non produce effetti recuperatori o restitutori, al patrimonio del medesimo, del bene dismesso, tali da richiederne la libertà e capienza, poiché determina solo l’inefficacia dell’atto revocato e l’assoggettamento del bene al diritto del revocante di procedere ad esecuzione forzata sullo stesso; ne consegue che la presenza di ipoteche sull’immobile trasferito con l’atto oggetto di revoca non esclude, di per sé, un pregiudizio per creditore (e, dunque, il suo interesse ad esperire tale azione), posto che le iscrizioni ipotecarie possono subire vicende modificative o estintive ad opera sia del debitore che di terzi; ciò esclude, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, che, ai fini della sussistenza dell’ eventus damni , il creditore che agisce in revocatoria debba dimostrare, al fine di esperire l’azione di cui all’art. 2901 cod. civ., l’effettiva e concreta probabilità di realizzo del proprio credito sul bene oggetto dell’atto di disposizione.
Con un secondo ordine di censure i ricorrenti lamentano che la corte territoriale non abbia preteso dal creditore procedente la prova della consapevolezza che la costituzione del fondo patrimoniale avrebbe arrecato pregiudizio alle ragioni creditorie e insistono nel sostenere che conferire un bene in un fondo patrimoniale significa semplicemente adottare un regime patrimoniale della propria famiglia e non compiere un atto di disposizione dei propri beni e per di più a titolo gratuito ed in danno dei creditori. I beni conferiti nei fondi patrimoniali nel caso di specie non avevano cambiato proprietà o titolarità ex art.168, 1° comma, cod.civ., di conseguenza, la costituzione dei fondi non avrebbe dovuto essere considerato un atto di disposizione, tanto meno a titolo gratuito (ai beni in essi conferiti era stata semplicemente
impressa una disciplina giuridica che tende a tutelare le ragioni di sostentamento della famiglia e dei figli soprattutto minori) e i fondi così costituiti non erano certo volti a danneggiare i creditori o i terzi, mutando il bene semplicemente la destinazione originaria, ma non essendo privato delle funzioni di garanzia generica del proprietario.
La censura è infondata.
Si deve riaffermare che il fondo patrimoniale rappresenta effettivamente – come afferma parte ricorrente – un sistema idoneo a garantire la soddisfazione dei bisogni della famiglia, ma non esclude la possibilità per i creditori di aggredire i beni in esso inclusi, poiché nella definizione del punto di equilibrio tra l’interesse della famiglia e quello dei creditori non si è totalmente obliterato il principio di cui all’art. 2740 cod.civ., ma si è introdotto uno speciale regime di responsabilità patrimoniale. Inoltre, esso non crea uno schermo impermeabile ai rimedi che i creditori possono esperire avverso le attività dirette ad eludere o vanificare in toto la garanzia patrimoniale generica.
Più precisamente, il fondo patrimoniale, costituito ex art. 167 cod.civ., impone un vincolo di destinazione su determinati beni, per far fronte ai bisogni della famiglia, con la conseguenza, in ragione di quanto dispone l’art. 170 cod.civ., che <>. Deve, pertanto, accertarsi in fatto se il debito si possa dire contratto per soddisfare i bisogni della famiglia (o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni), precisando, tuttavia, che, se è vero che tale finalità non si può dire sussistente per il solo fatto che il debito sia sorto nell’esercizio dell’impresa, è vero altresì che tale circostanza non è nemmeno idonea ad escludere, in via di principio, che il debito si possa dire contratto, appunto, per soddisfare tali bisogni
(v. Cass. 28/05/2020 , n. 10166). La rispondenza o meno dell’atto ai bisogni della famiglia richiede una verifica estesa al riscontro di compatibilità con le più ampie esigenze dirette al pieno mantenimento e all’armonico sviluppo familiare, cosicché l’estraneità non può considerarsi desumibile soltanto dalla tipologia di atto (ad es. la fideiussione prestata in favore di una società, come nella vicenda per cui è causa) in sé e per sé considerata (Cass. 25/10/2021, n. 29983).
In sostanza, i creditori vengono distinti, in base alla natura dei bisogni dai quali originava il rapporto obbligatorio e della condizione soggettiva in cui si trovavano al momento dell’insorgenza dell’obbligo, in: i) creditori della famiglia, ai quali è riservata la garanzia generica sui beni attributi al fondo; ii) creditori che ignoravano l’estraneità dei debiti ai bisogni familiari, che dall’art. 170 cod.civ., sono equiparati ai precedenti; iii) creditori che conoscevano tale estraneità, ai quali è preclusa l’esecuzione sui beni del fondo e sui relativi frutti.
Destinare i beni ai bisogni della famiglia significa sottrarli all’azione esecutiva di una specifica categoria di creditori, ferma restando la possibilità per tutti i creditori di agire, se ne ricorrono i presupposti, in revocatoria ordinaria, posto che l’atto di costituzione del fondo patrimoniale è un atto a titolo gratuito, soggetto ad azione revocatoria ai sensi dell’art. 2901 cod.civ., se sussiste la conoscenza del pregiudizio arrecato ai creditori (Cass. 07/03/2005, n. 4933; Cass. 07/07/2007, n. 15310; Cass. 07/10/2008, n. 24757; Cass. 10/02/2015, n. 2530).
L’azione pauliana è diretta a far dichiarare giudizialmente l’inefficacia, nei confronti del creditore procedente, degli atti di disposizione del patrimonio con cui il debitore arrechi pregiudizio alle sue ragioni, per consentire allo stesso di esercitare sui beni oggetto dell’atto azioni esecutive e cautelari. L’accoglimento della domanda proposta ex art. 2901 cod.civ., produce quindi l’effetto di
rendere inopponibile, e solo nei confronti del creditore che ha agito in revocatoria, l’atto dispositivo del debitore, senza incidere sulla validità inter partes dell’atto stesso, né sulla sua opponibilità ai terzi rimasti estranei al giudizio revocatorio (Cass. 13/12/2023, n. 34872), ed assicura la fruttuosità e la speditezza dell’azione esecutiva diretta a far valere la garanzia patrimoniale generica.
Con l’accoglimento della domanda revocatoria banca avrà la possibilità di agire liberamente sui beni del fondo patrimoniale, pur se questo resta validamente costituito.
L’effetto tipico della costituzione del fondo, vale a dire la (parziale) sottrazione dei beni alla garanzia patrimoniale generica, non si produce nei confronti del creditore vittorioso nell’esperimento dell’azione pauliana e non sarà quindi necessario, in questo caso, verificare se il credito per cui si agisce deriva da obbligazione contratta nell’interesse della famiglia e se il creditore ne fosse consapevole o meno.
Correttamente pertanto la corte di merito ha ritenuto revocabili gli atti di costituzione dei fondi patrimoniali, dopo aver accertato la sussistenza dei tre presupposti tipici dell’azione revocatoria ordinaria: il credito del creditore procedente, l’ eventus e la scientia damni (Cass. 13/12/2023, n. 34872).
La costituzione dei fondi patrimoniali è suscettibile « (…) di rendere più incerta o difficile la soddisfazione del credito, giacché, considerate le richiamate limitazioni all’esecuzione poste dall’art. 170 cod.civ., riduce la garanzia generale dei creditori sul patrimonio dei costituenti» (Cass. 07/07/2007, n. 15310), onde escluderne l’ammissibilità i costituenti hanno l’onere di provare l’insussistenza del pericolo di danno costituito dalla eventuale infruttuosità di una futura azione esecutiva (Cass. 17/01/2007, n. 966).
Ulteriore censura mossa alla impugnata sentenza è relativa al difetto di legittimazione passiva delle mogli dei fideiussori: COGNOME e COGNOME
La corte territoriale le avrebbe erroneamente ritenute litisconsorti necessarie.
La tesi dei ricorrenti è che debba trovare applicazione il principio enunciato da Cass., Sez. Un., n. 9660/2009, per cui il coniuge non debitore, che non abbia partecipato all’acquisto o alla vendita di un immobile posto in essere dall’altro coniuge in regime di comunione legale, non è litisconsorte necessario nel giudizio avente ad oggetto la revocatoria dell’atto; i ricorrenti sostengono che «Non si vede allora perché le stesse convenute debbano essere ritenute litisconsorti necessarie riguardo a beni patrimoniali rimasti in proprietà dei rispettivi coniugi … Diversamente opinando anche i figli maggiori d’età avrebbero dovuto essere considerati litisconsorti necessari, poiché anche in loro favore deriva una posizione giuridica soggettiva di vantaggio derivante dal vincolo di destinazione a favore della famiglia impresso ai beni conferiti nel fondo».
Di conseguenza chiedono in via gradata di estendere i litisconsorzio necessario ai figli maggiorenni che minori d’età (con ogni conseguenziale determinazione di legge).
La censura è infondata.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass. 29/01/2024, n.2711; Cass. 22/04/2025, n. 10547), nel contesto dell’azione pauliana relativa alla costituzione di un fondo patrimoniale per i bisogni della famiglia i coniugi sono legittimati a essere convenuti in giudizio come parti passive, anche se l’atto costitutivo del fondo è stato stipulato da uno solo dei coniugi.
La natura reale del vincolo di destinazione impresso sul fondo e la sua efficacia nei confronti di tutti coloro per cui è stato costituito
comportano che entrambi i coniugi abbiano la proprietà dei beni oggetto della convenzione, salvo diversa disposizione nell’atto costitutivo.
Anche nel caso in cui il coniuge non sia proprietario dei beni vincolati, ha comunque interesse a partecipare al giudizio.
Questa Corte (v., in particolare, Cass. 13/02/2018, n.3452), ha viceversa escluso che i figli, minorenni e maggiorenni, siano litisconsorti necessari.
Nel porsi in rilievo che la costituzione del fondo patrimoniale determina soltanto un vincolo di destinazione sui beni confluiti nel fondo, affinché, con i loro frutti, sia assicurato il soddisfacimento dei bisogni della famiglia, ma non incide sulla titolarità dei beni stessi, né implica l’insorgere di una posizione di diritto soggettivo in favore dei singoli componenti del nucleo familiare, neppure con riguardo ai vincoli di disponibilità, si è conseguentemente escluso in particolare che i figli minori del debitore siano litisconsorti necessari nel giudizio promosso dal creditore per sentire dichiarare l’inefficacia dell’atto con il quale si siano costituiti beni in fondo patrimoniale, giacché il fondo patrimoniale non viene costituito a beneficio dei figli ma per far fronte ai bisogni della famiglia, com’è confermato dal fatto che esso cessa con l’annullamento, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio a norma dell’art. 171 c.c. (Cass, 14/3/2018, n. 3641; Cass. 8/2/2024, n.3634).
All’ inammissibilità e infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e sono liquidate in favore della controricorrente nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al solidale pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in
complessivi euro 12.200,00, di cui euro 12.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge, in favore della controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, come modif. dalla l. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti all’ufficio del merito competente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella Camera di Consiglio del 9 maggio 2025 dalla