Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 9349 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 9349 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3225/2023 R.G. proposto da:
NOME e NOME COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE;
-ricorrenti-
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del Presidente del Consiglio d’amministrazione e legale rappresentate, NOME COGNOME elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO TRIESTE, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE e NOME COGNOME (CODICE_FISCALE;
-controricorrente-
-intimato- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di TORINO n. 1209/2022, depositata il 16/11/2022 e notificata il 21/11/2022. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 07/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Bene Banca Credito Cooperativo RAGIONE_SOCIALE (d’ora in avanti RAGIONE_SOCIALE, creditrice nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE, in forza del decreto ingiuntivo n. 6191/2017, agiva ex art. 2901 cod.civ. nei confronti della debitrice principale e dei suoi fideiussori, NOME COGNOME e NOME COGNOME per ottenere la declaratoria di inefficacia relativa dell’atto con cui NOME COGNOME aveva trasferito, a titolo gratuito, il 50% del diritto di usufrutto sugli immobili di sua proprietà siti in Sommariva Perno (CN) a NOME COGNOME e di quello con cui aveva trasferito al prezzo di euro 135.000,00 la nuda proprietà degli stessi immobili al genero NOME COGNOME, marito della figlia NOME COGNOME, socia, insieme con il fratello NOME COGNOME, della società di famiglia RAGIONE_SOCIALE I convenuti NOME e COGNOME, costituitisi, chiedevano, in via preliminare, la sospensione del processo ex art. 295 cod.proc.civ. in attesa della definizione del procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo n. 6191/2017 innanzi al Tribunale di Torino, ovvero, in ogni caso, del procedimento di accertamento negativo del credito vantato dall’istituto bancario e pendente innanzi al Tribunale di Cuneo (R.G. n. 5516/2015), nel merito, domandavano il rigetto delle domande attoree, rilevando che il trasferimento della nuda proprietà immobiliare era finalizzato a reperire liquidità così da scongiurare il fallimento della società di famiglia, tant’è che il denaro ricavato dalla vendita era stato dato ai figli-soci che lo avevano versato sul conto corrente della società al fine di ripianare la sua posizione debitoria.
Anche NOME COGNOME chiedeva il rigetto della domanda, insistendo circa l’assenza di consapevolezza da parte sua che l’atto dispositivo avrebbe pregiudicato le ragioni creditorie, non potendo la stessa essere desunta dal semplice rapporto di parentela con il debitore alienante.
Con sentenza n. 478/2020, il Tribunale di Asti dichiarava inefficace nei confronti della banca attrice esclusivamente l’atto di trasferimento della nuda proprietà in favore di NOME COGNOME.
Detta pronuncia è stata confermata, con sentenza n. 1209/2022, depositata il 16/11/2022, notificata il 21/11/2022, dalla Corte d’appello di Torino, all’esito del giudizio d’appello sulle impugnazioni riunite proposte, rispettivamente, da NOME COGNOME e dai coniugi NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Segnatamente, per quanto ancora di interesse, il giudice a quo ha confermato la tutelabilità con l’art. 2901 cod.civ. anche di una nozione lata di credito, comprensiva della ragione o aspettativa creditizia, con conseguente irrilevanza dei normali requisiti di certezza, di liquidità e di esigibilità; ha accertato che l’atto dispositivo era successivo al sorgere del credito e che aveva determinato l’ eventus damni , posto che: i) la vendita della nuda proprietà aveva comportato una mutazione qualitativa del patrimonio della debitrice, sostituendo ad un cespite immobiliare facilmente aggredibile il suo equivalente monetario; ii) i convenuti non avevano fornito prova dell’esistenza di altri cespiti in grado di soddisfare le pretese creditorie; iii) l’asserito impiego del ricavato della vendita per appianare l’esposizione debitoria non aveva fatto venir meno l’elemento del pregiudizio alle ragioni creditorie, perché parte consistente della somma ricevuta, euro 120.000,00, era stata versata su un conto intestato alla società RAGIONE_SOCIALE presso un altro istituto di credito; ha ritenuto sia i fideiussori sia il terzo acquirente consapevoli del pregiudizio arrecato alle ragioni creditorie: i primi, perché erano sicuramente a conoscenza delle
difficoltà della società garantita e della sua esposizione debitoria, come emergeva dalle lettere inviate anche ai fideiussori con le quali l’istituto di credito lamentava lo sconfinamento rispetto al fido, il secondo, perché era coniuge di NOME COGNOME, socia della debitrice principale, nonché impiegato presso la stessa in qualità di venditore.
NOME COGNOME e NOME COGNOME ricorrono per la cassazione di detta sentenza, formulando due motivi.
RAGIONE_SOCIALE resiste con controricorso, illustrato con memoria.
NOME è rimasto intimato.
La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis 1 cod.proc.civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1) Con il primo motivo si denunzia <>, per non avere la corte d’appello applicato correttamente la distribuzione dell’onere della prova con riferimento all’esercizio dell’azione revocatoria che pone a carico di chi agisce per ottenere la declaratoria di inefficacia dell’atto dispositivo l’onere di dimostrare la consapevolezza del debitore/disponente e del terzo acquirente di arrecare pregiudizio alle ragioni creditore e per non avere correttamente applicato il ragionamento inferenziale, non essendo gli elementi esaminati sufficienti a far presumere l’esistenza della scientia damni in capo al terzo acquirente: il rapporto di parentela di per sé, in assenza di prova del rapporto di convivenza e di stretta frequentazione con il debitore autore dell’atto dispositivo posto in essere, non avrebbe dovuto essere considerato un indizio grave, preciso e concordante, perciò la corte
d’appello sarebbe incorsa nella violazione del divieto della praesumptio de preasumpto , avendo inferito il consilium fraudis del terzo dal rapporto di coniugio e di convivenza con la figlia dell’alienante; inoltre, non avrebbe dato conto di avere esaminato tutte le prove raccolte e in particolare le dichiarazioni rese dai teste escussi, NOME COGNOME (figlio dell’odierno ricorrente) e NOME COGNOME (segretaria presso la società debitrice principale), i quali avevano escluso che NOME COGNOME fosse a conoscenza dei debiti della società per la quale lavorava prima della notifica dell’atto di citazione; di conseguenza, la presunzione di conoscenza, essendo relativa, era stata vinta dalle prove testimoniali, di cui, però, né il tribunale né la corte d’appello avevano tenuto conto; il che esporrebbe la sentenza a cassazione per vizio di motivazione, per non il giudice a quo effettivamente esposto le ragioni alla base della decisione né il quadro probatorio esaminato.
Parte ricorrente aggiunge che, dato che le presunzioni si basano su fatti secondari decisivi, l’omesso esame degli stessi, in grado di fondare una presunzione semplice, avrebbe dato luogo ad un ulteriore vizio della sentenza, censurabile ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 5 cod.proc.civ.
Il motivo è complessivamente infondato.
La deduzione del vizio di cui all’art. 360, 1° comma, n. 5 cod.proc.civ. era preclusa, nel caso di specie, dalla previsione di cui all’art. 348 ter , ult. comma, cod.proc.civ., a mente della quale quando la sentenza di appello sia conforme in facto (fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata) a quella di prime cure non è deducibile il vizio di cui all’art. 360, n. 5, cod.proc.civ. Il ricorrente per evitare l’inammissibilità del motivo avrebbe dovuto indicare -e ciò non è stato fatto nella specie -le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di
rigetto dell’appello, dimostrandone la diversità (v., ex plurimis , Cass. 28/02/2023, n. 5947).
Non può farsi a meno di ribadire, in aggiunta, che: i) agli effetti dell’art. 360, 1° comma, n. 5, cod. proc. civ., non costituisce fatto una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. 6/09/2019, n. 22397; Cass. 8/09/2016, n. 17761; Cass., Sez. Un., 23/03/2015, n. 5745; Cass. 4/04/2014, n. 7983; Cass. 5/03/2014, n. 5133). Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio di cui alla richiamata norma del codice di rito le argomentazioni, supposizioni o deduzioni difensive (Cass. 18/10/2018, n. 26305; Cass. 14/06/2017, n. 14802); gli elementi istruttori (Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. Data pubblicazione 20/11/2024 8053); una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (Cass. 21/10/2015, n. 21439; Cass. 29/10/2018, n. 27415), sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo oltre i limiti descritti (v. Cass. 25/07/2023, n.22273); ii) il fatto che il giudice a quo non abbia dato conto di avere esaminato le risultanze della prova testimoniale non integra il vizio denunciato, essendo pacifico che <<l'apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento. Sono infatti riservate al giudice del merito l'interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell'attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, per cui è insindacabile, in sede di legittimità, il
"peso" dei singoli elementi probatori, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato (v. Cass. 23/08/2024, n. 23055); iii) il percorso inferenziale della corte d'appello è piuttosto articolato, avendo fatto leva: a) sul rapporto tra il debitore e il terzo che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, è di norma tale da rendere estremamente inverosimile che il terzo acquirente non fosse a conoscenza della situazione debitoria dell'alienante, vieppiù nel caso di specie ove <>; b) sulla circostanza, rafforzativa della valenza probatoria derivante dal suddetto vincolo, che il COGNOME lavorava come venditore presso la debitrice principale e che non risultava nemmeno avesse allegato <>.
Non può che ribadirsi che spetta al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzarne la rilevanza, l’attendibilità e la concludenza al fine di saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche e compete sempre al giudice del merito procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi indiziari precedentemente selezionati ed accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione, e non piuttosto una visione parcellizzata di essi, sia in grado di fornire una valida prova presuntiva tale da ingenerare il convincimento in ordine all’esistenza o, al contrario, all’inesistenza del fatto ignoto; la delimitazione del campo affidato
al dominio del giudice del merito consente innanzi tutto di escludere che chi ricorre in cassazione in questi casi possa limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva non conduca necessariamente all’esito interpretativo raggiunto nei gradi inferiori (v., ex plurimis , Cass. 21/03/2022, n. 9054).
2) Con il secondo motivo la ricorrente prospetta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132, 2° comma, n. 4 cod.proc.civ., avendo la corte d’appello reso una motivazione contraddittoria, in quanto, dapprima, ha ritenuto sufficiente la prova della scientia damni anche da parte del terzo acquirente, trattandosi di un atto dispositivo a titolo oneroso posto in essere successivamente rispetto al sorgere del credito (p. 20), poi, ha reputato sussistente e provata la partecipatio fraudis del terzo acquirente (p. 22).
Inoltre, le viene rimproverato di aver richiamato una pronuncia di questa Corte, la n. 1286/2019, al fine di giustificare la tesi secondo cui il consilium fraudis del terzo può desumersi dal rapporto di parentela tra le parti, che invece aveva dato rilievo al <> sussistente tra alienante e acquirente, essendo il terzo acquirente coobbligato solidale con i disponenti per la fideiussione rilasciata. Detto errore giustificherebbe la cassazione dell’impugnata sentenza per motivazione apparente.
Il motivo è infondato.
Non si ravvisa alcuna contraddittorietà nel percorso argomentativo della corte d’appello che possa avere indotto parte ricorrente a dubitare della fattispecie decisa: è inequivoco che la corte territoriale abbia ritenuto revocabile l’atto dispositivo per cui è causa, reputandolo un atto a titolo oneroso posto in essere dopo la nascita del credito, per il quale, quanto al terzo, ha considerato sufficiente la prova che egli fosse consapevole del pregiudizio
arrecato alle ragioni creditorie (art. 2901, 1° comma, n. 2 cod.civ.).
Il dubbio di parte ricorrente sembrerebbe trarre origine dall’impiego da parte del giudice d’appello dell’espressione partecipatio fraudis che nella giurisprudenza di questa Corte, come è dimostrato dal recente intervento sul punto delle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 27/01/2025, n. 1898), non è – e non è mai stata indicativa in maniera univoca della pretesa di un dolo specifico, inteso alla stregua di una compartecipazione del terzo all’intento di frodare il creditore.
Né ricorrono i presupposti per imputare al giudice a quo di avere falsamente applicato l’art. 2901 cod.civ., per avere evocato un principio di diritto non confacente, perché la pronuncia n. 1286/2019 ha accolto il motivo di ricorso con cui parte ricorrente lamentava che la corte d’appello non avesse ritenuto sussistente il consilium fraudis del terzo acquirente, ridimensionando la valenza del rapporto di stretta parentela fra venditori ed acquirente, quando invece tale vincolo rendeva estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente, perché il giudice a quo <>.
All’infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo in favore della controricorrente, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al solidale pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi euro 10.200,00, di cui euro 10.000,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori come per legge, in favore della controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, come modif. dalla l. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti all’ufficio del merito competente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella Camera di Consiglio del 7 febbraio 2025 dalla