Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 20205 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 20205 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 18/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20372/2023 R.G. proposto da : NOME COGNOME elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE -ricorrente- contro
RAGIONE_SOCIALE AMMINISTRATIVA, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
nonchè contro
GATTAMELATA NOME
-intimata- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO VENEZIA n. 575/2023 depositata il 15/03/2023;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 30 giugno 2025 dal Consigliere NOME COGNOME:
Rilevato che:
per quanto ancora d’ interesse, la società Banca Popolare di Vicenza S.p.A. conveniva avanti al Tribunale di Padova le signore NOME COGNOME ed NOME COGNOME per domanda pauliana in relazione a due atti di donazione di nuda proprietà di immobili compiuti in data 16 maggio 2016 dalla prima nei confronti della seconda, sua nuora, adducendo credito verso la COGNOME quale ex consigliere di amministrazione della banca attrice, oggetto di giudizio promosso nel 2017 nei confronti suoi e degli altri ex consiglieri davanti al Tribunale di Venezia.
Il Tribunale di Padova, con sentenza n. 1506/2021, accoglieva la domanda pauliana; proponeva pertanto appello principale la COGNOME e proponeva appello incidentale la COGNOMERAGIONE_SOCIALE Banca Popolare di Vicenza S.p.A. in l.c.a. resisteva.
La Corte d’ Appello di Venezia, con sentenza n. 575/2023, rigettava entrambi gli appelli.
La COGNOME ha proposto ricorso, fondato su tre motivi, da cui si è difesa con controricorso Banca Popolare di Vicenza S.p.A. in l.c.a.; non si è difesa invece la COGNOME.
La ricorrente e la controricorrente hanno depositato memoria.
Considerato che:
Con il primo motivo si denuncia, ex articolo 360, primo comma, n.3 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’articolo 2901 c.p.c. in relazione agli articoli 12 prel., 832 c.c. e 42 Cost., lamentando illegittima individuazione del ‘credito’ quale presupposto per l’azione revocatoria.
1.1 Si deduce l’aver la sentenza impugnata ‘sostanzialmente confermato l’adesione alla ben nota <>, benché in termini … eccentrici, i quali … tradiscono gli insormontabili limiti della stessa e mettono in luce la necessità di rivedere l’indirizzo giurisprudenziale’ pertinente.
In sostanza, la corte territoriale avrebbe seguito un percorso nel senso che ‘non è mai stato ritenuto che sia sufficiente la mera affermazione del credito di essere tale per fondare la sua legittimazione all’azione revocatoria’, e che invece, ‘ben diversamente’, rilevando che ‘non occorre un accertamento giudiziale della ragione creditoria fatta valere’, essendo infatti ‘sufficiente una situazione nella quale la deduzione del credito non appaia prima facie pretestuosa e che possa valutarsi come probabile, anche se non definitivamente accertata’.
Nel caso in esame, essendo risultate pacifiche, l’appartenenza della ricorrente al consiglio d’amministrazione della banca e ‘l’esistenza di procedimenti sanzionatori a carico di questa’ avrebbero potuto costituire ‘elementi indiziari al fine di escludere la manifesta pretestuosità della pretesa risarcitoria della procedura’; e così sarebbe stata confermata la sussistenza del presupposto del credito nell’azione pauliana.
La ricorrente osserva che tale credito non può essere accertato come conseguenza di una mera asserzione di parte, bensì deve essere il frutto del vaglio degli ‘elementi addotti dall’attore’, nel senso di accertarli come ‘tali da delineare il credito in termini sufficienti a raggiungere la ‘soglia’ richiesta’.
Il ‘problema’ sarebbe allora ‘l’individuazione di tale soglia’, che, ad avviso della ricorrente, la corte territoriale identifica nell’accertamento che ‘la deduzione del credito non appaia prima facie pretestuosa e che possa valutarsi come probabile’. La ricorrente critica ciò, lamentando che ‘ prima facie non pretestuosa’ e ‘probabile’ costituirebbero una endiadi che miscelerebbe tutte le categorie dell’ipotetico e quindi creerebbe una soglia ‘inafferrabile’. Ne deduce che la conseguente ‘indeterminatezza che affligge una siffatta ricostruzione giurisprudenziale’ verrebbe, pertanto, a imporre un superamento di questa: l’orientamento richiamato dalla corte territoriale, e ‘senz’altro consolidato’, meriterebbe un ripensamento, considerato pure che è inequivoco l’articolo 2901 c.c. laddove ‘fa riferimento anche al <>’. E la prima dottrina sviluppatasi su questa norma aveva infatti ritenuto che quanto essa consentiva per i crediti portatori di crediti condizionali o soggetti a termine non avrebbe dovuto effettuarsi nel caso di credito litigioso, in cui non sarebbe stato ‘possibile riconoscere l’esistenza di una qualsiasi aspettativa, o per lo meno di una probabilità di credito’ in quanto ‘il vero’ sarebbe soltanto l’esistenza o l’inesistenza del credito. Si dovrebbe dunque comprendere come ‘si sia partiti dalla norma codicistica e si sia pervenuti a … una <> … così da far estendere l’ambito dell’azione revocatoria anche alla fattispecie in cui manca il primo dei presupposti della stessa’. Le ragioni di tale orientamento sarebbero individuabili nella funzione dell’azione pauliana, che, ‘siccome priva di effetti restitutori e sorretta da finalità conservative del patrimonio del ‘debitore’, consentirebbe l’accesso allo strumento anche a chi non vanti alcun credito’, bensì soltanto una ‘aspettativa’. Quindi, la ‘concezione lata del credito’ sarebbe venuta a insorgere da un”esigenza eminentemente pratica’.
Ciò contrasta, però, anzitutto il testo del codice, che non è stato mutato, e in secondo luogo con il fatto che chi si trova esposto a una più o meno fondata pretesa altrui si trova sostanzialmente paralizzato o comunque gli è profondamente circoscritto il diritto di efficacemente disporre dei propri beni oggetto di revocatoria. Perciò l’interpretazione avrebbe violato il limite invalicabile di cui all’articolo 12 prel., nonché l’articolo 832 c.c. ‘laddove questo in termini fondamentali dell’ordinamento scandisce il contenuto del diritto di proprietà, qualificato anche dal diritto del proprietario <>’; e ancora, ‘detta prassi giurisprudenziale’ porterebbe ad una ‘palese violazione’ dell’articolo 42 Cost.
In conclusione, la sentenza d’appello sarebbe ‘minata alla radice da una erronea ed illegittima applicazione dell’art. 2901 c.c.’, per cui sarebbe illegittima; e ciò non verrebbe a meno per la ‘costante giurisprudenza’ fin qui censurata.
1.2 Il motivo si fonda, come si è visto, su un’ampia argomentazione che, tuttavia, è tanto seducente quanto infondata. Il vero nucleo della censura è l’ormai ampiamente tradizionale interpretazione in senso lato dell’articolo 2901 c.c., che non esige un accertamento compiuto e completo per costituire il presupposto rappresentato dal credito. La ricorrente si sforza ad inficiare questo consolidato esito ermeneutico facendo perno, come contrapposizione, sull’espresso riferimento a ‘condizione’ o ‘termine’ ut supra visto, nel senso di dedurne a contrario che, se viene espressamente concessa l’azione anche in presenza di tali elementi, per così dire, riduttivi dell’esistenza del credito attuale, al di là di tali fattispecie il credito dovrebbe essere inteso nel senso maggiormente rigoroso e automatico, ovvero un’entità pienamente accertata per giustificare il ricorso all’azione pauliana; e quindi dalla presenza di una species discenderebbe l’obbligo di interpretare in modalità formalistica il genus .
L’impostazione offerta, prima ancora che giuridica, non è logica, guardando – per così dire – il sistema con cui tenta di coordinarsi: se il credito dovesse già essere tale, si potrebbe ben fruire dello strumento esecutivo, per cui non emergerebbe alcun interesse in relazione a quel che è uno strumento preventivo per la tutela dei crediti. La logica giuridica esige che l’istituto di cui all’articolo 2901 c.c. sia riconducibile, in termini funzionali e quindi anche ontologici, alle cautele: e le cautele, ovviamente, sono dirette a tutelare laddove l’accertamento del diritto di credito non è ancora sussistente per attuarlo esecutivamente.
Superfluo è richiamare, invero, l’ampia e solida giurisprudenza che si è elaborata a proposito del dispositivo di tutela delineato dall’articolo 2901 c.c.: se il credito dovesse già essere pienamente accertato, non sarebbe identificabile l’interesse oggettivo/sistemico sotteso all’azione pauliana, ovvero la ratio legis , poiché, appunto, sarebbe già aperta la strada dell’azione esecutiva.
Nessun rilievo di illegittimità costituzionale, quindi, è identificabile in questo istituto così come tradizionalmente percepito dalla giurisprudenza, ovvero di natura preventiva, cioè non fondato su un accertamento giuridico già raggiunto; e non è neppure sostenibile che l’interpretazione giurisprudenziale confligga con il testo letterale, poiché questo va sempre inteso alla luce della ratio della norma, e non può quindi essere letto in modo astratto e deprivato dalla ratio stessa.
La ratio legis , come già si è detto, qui risiede nell’impedire che una garanzia specifica inclusa nel compendio dell’articolo 2740 c.c. la norma della garanzia generale ‘sfugga’ al creditore, nel caso in cui non sono sussistenti i differenti, e già più avanzati quali segnali di rischio, presupposti del sequestro conservativo. Se la norma dovesse intendersi come prospetta la ricorrente e non si fossero sviluppati i – più severi, appunto presupposti di quest’ultimo strumento di cautela, un creditore potrebbe difendersi da una
eventuale attività di ‘spoglio’ avviata dal debitore soltanto in termini fallimentari (qui si tratta di persona fisica): ma anche questo è ictu oculi insostenibile, necessitando presupposti ancor più rigorosi e globali.
L’infondatezza nei suindicati termini del primo motivo, rende manifestamente infondati anche i profili, più o meno espressi, di illegittimità costituzionale prospettati dalla ricorrente.
Con il secondo motivo la ricorrente lamenta, ex articolo 360, primo comma, n.3 c.p.c., violazione o falsa applicazione degli articoli 295 c.c. ( rectius c.p.c.) e 2901 c.c., nonché degli articoli 91-92 c.p.c., 100 c.p.c., 111, secondo comma, Cost. (principio di economia processuale) quanto ai presupposti per la sospensione del processo in relazione ad altro processo riguardante l’accertamento del preteso ‘ed è insussistente’ credito della banca nei confronti dell’attuale ricorrente.
2.1 Osserva che la sentenza d’appello ‘ha ritenuto infondata l’istanza di sospensione’ ex articolo 295 c.p.c. che aveva avanzato in relazione al giudizio di accertamento della pretesa della banca nei propri confronti. La corte territoriale ha infatti dichiarato che l’accertamento del credito ‘non costituisce l’indispensabile antecedente logico-giuridico della pronuncia sulla domanda revocatoria, essendo d’altra parte da escludere l’eventualità di un conflitto di giudicati tra la sentenza che, a tutela dell’allegato credito litigioso, dichiari nei suddetti limiti inefficace l’atto di disposizione della sentenza negativa sull’esistenza del credito’, trattandosi, ormai, di jus receptum . E ‘ininfluente’ sarebbe la questione relativa alla condanna alle spese, in quanto ‘esistono comunque nel sistema processuale meccanismi in grado di porre rimedio a quanto lamentato dagli appellanti (art. 366, co.2, c.p.c.)’.
Oppone la ricorrente che il richiamo all’articolo 366, secondo comma, c.p.c. sarebbe ‘oscuro’, come lo sarebbe ‘il riferimento a
quelli che sarebbero i meccanismi del sistema processuale idonei a neutralizzare il problema’. In realtà, ‘l’azione del creditore … in sede di merito per veder accertato il credito e in sede revocatoria per vederlo garantito è un’azione sostanzialmente unitaria che riposa su un presupposto unitario’; e la causa revocatoria senza il credito sarebbe uno strumento giuridicamente astratto ed errato, che violerebbe non solo l’articolo 2901 c.c., ma pure gli articoli 91 -92 c.p.c. e il principio dell’interesse ad agire di cui all’articolo 100 c.p.c. Si sarebbe, infatti, ‘di fronte ad una sentenza produttiva di -pesanti -effetti a carico del soggetto che, in ipotesi di accertamento dell’inesistenza del credito, non è affatto soccombente, ma, al contrario, vincitore nel processo, anche revocatorio’.
Per evitare una situazione così ‘aberrante’ il sistema processuale offrirebbe proprio la sospensione del processo ai sensi dell’articolo 295 c.p.c., il quale rispetta pure il principio dell’economia processuale, ‘pacificamente esistente nell’ordinamento e fondato sull’art. 111 Cost.’.
2.2 Il motivo in parte ripropone quanto è già stato agevolmente superato nel motivo precedente.
Quanto poi all’articolo 295 c.p.c., a tacer d’altro (sull’istituto della sospensione articolo 295 c.p.c. e sui suoi limiti di obbligatorietà cfr. da ultimo Cass. sez. 2, 9 maggio 2025 n. 12258, conforme a S.U. 29 luglio 2021 n. 21763), è agevole rilevare che nel giudizio ex articolo 2901 c.c. è -e deve essere, per litisconsorzio necessario presente una parte diversa rispetto a quelle componenti l’accertamento ex professo del credito, cioè il soggetto a cui viene trasferita la proprietà del bene; e questo sine dubio esclude l’obbligatorietà della sospensione .
Il motivo, pertanto, va rigettato.
Con il terzo motivo si denuncia, ex articolo 360, primo comma, n.3 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’articolo 2901 c.p.c. e
degli articoli 2727-2729 c.c. in relazione alla illegittima applicazione della prova presuntiva.
3.1 Il motivo verte sul preteso utilizzo di una inammissibile praesumptio de praesumpto per accertare la responsabilità della ricorrente quale componente del consiglio d’amministrazione della banca, con asserita violazione appunto della normativa sulla presunzione e, in ultima analisi, con asserita infondatezza dell’accertamento della responsabilità dall’attuale ricorrente.
3.2 Il motivo è infondato.
E’ del tutto evidente che la prova relativa alla responsabilità della COGNOME non è stata soltanto presuntiva, come cerca di dimostrare la censura stessa, bensì è stata tratta pure da elementi probatori del tutto diversi da quelli presuntivi, come, appunto, gli accertamenti già effettuati dalla Banca d’Italia e dalla Consob (sentenza, pagina 9), ictu oculi del tutto sufficienti considerato che l’accertamento nell’azione pauliana, come sopra si è visto, non occorre sia completo, arrestandosi a un livello cautelare.
All’infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo in favore della controricorrente Banca Popolare di Vicenza S.p.A. in l.c.a., seguono la soccombenza
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi euro 4.000,00, di cui euro 3.800,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge, in favore della controricorrente Banca Popolare di Vicenza S.p.A. in l.c.a.
Ai sensi dell’articolo 13, comma 1 quater, d.p.r. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari
a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 30 giugno 2025