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Azione di arricchimento: la banca deve restituire

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna di un istituto di credito a restituire una somma incassata tramite un assegno poco prima della dichiarazione di fallimento di una società. La Corte ha stabilito che, in assenza di una specifica contabilizzazione della somma a decurtazione del debito, l’unica via percorribile per il Fallimento era l’azione di arricchimento senza causa, respingendo le eccezioni della banca sulla competenza e sulla presunta esistenza di altri rimedi legali.

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Azione di arricchimento: la banca deve restituire l’assegno incassato prima del fallimento

L’azione di arricchimento senza causa rappresenta uno strumento giuridico cruciale quando una parte subisce un danno economico a vantaggio di un’altra senza una valida giustificazione legale. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha chiarito i contorni applicativi di questo istituto in un contesto complesso come quello fallimentare, coinvolgendo un istituto di credito e una società fallita. La vicenda riguarda l’incasso di un assegno da parte della banca pochi mesi prima della dichiarazione di fallimento, somma che non era stata correttamente contabilizzata a riduzione del debito della società. Vediamo come i giudici hanno risolto la questione.

I Fatti di Causa: un assegno non contabilizzato

Una società, successivamente dichiarata fallita, vedeva un proprio assegno di circa 34.000 euro incassato da un istituto bancario circa quattro mesi prima della dichiarazione di insolvenza. Il curatore fallimentare, analizzando la documentazione postuma, scopriva che tale somma, pur essendo stata incassata dalla banca, non era mai stata registrata a decurtazione del debito che la stessa banca aveva insinuato nel passivo fallimentare.

Di fronte a questa anomalia, il Fallimento citava in giudizio la banca, esercitando un’azione di indebito arricchimento per recuperare la somma e reintegrarla nell’attivo fallimentare. Sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello davano ragione al Fallimento, condannando l’istituto di credito alla restituzione dell’importo. La banca, tuttavia, decideva di ricorrere in Cassazione, basando la sua difesa su tre motivi principali.

L’analisi della Cassazione sull’Azione di arricchimento

La Suprema Corte ha esaminato punto per punto le doglianze della banca ricorrente, rigettandole integralmente e fornendo importanti chiarimenti sull’applicazione dell’azione di arricchimento.

La Questione della Competenza Territoriale

In primo luogo, la banca sosteneva l’incompetenza territoriale del Tribunale adito dal Fallimento. Secondo la difesa, l’obbligazione non era ‘liquida’ e, pertanto, il foro competente non poteva essere quello del domicilio del creditore (il Fallimento). La Cassazione ha respinto questa tesi, affermando che l’obbligazione era da considerarsi liquida, poiché il suo ammontare corrispondeva esattamente all’importo dell’assegno incassato, senza necessità di ulteriori calcoli o accertamenti discrezionali. Di conseguenza, la competenza era correttamente radicata presso il tribunale del domicilio del creditore.

Il Carattere Sussidiario dell’Azione di Arricchimento

Il secondo motivo di ricorso, e forse il più rilevante, riguardava la natura sussidiaria dell’azione di arricchimento. La banca sosteneva che il Fallimento avrebbe dovuto utilizzare altri strumenti legali specifici, come la revocatoria fallimentare o l’impugnazione dello stato passivo, e che l’azione ex art. 2041 c.c. fosse quindi inammissibile.

Anche su questo punto, la Corte ha dato torto alla ricorrente. I giudici hanno sottolineato che l’azione è improponibile solo quando un’altra azione è in astratto ipotizzabile. Nel caso di specie, tuttavia, la revocatoria fallimentare non era concretamente esperibile. Questo perché la somma derivante dall’assegno non era mai transitata sul conto corrente in sofferenza sulla base del quale la banca si era insinuata al passivo. Mancando questa contabilizzazione, mancava il presupposto stesso per una rimessa revocabile. Pertanto, l’azione di arricchimento era l’unico rimedio effettivamente a disposizione della curatela.

La Prova dell’Arricchimento Senza Causa

Infine, la banca lamentava la mancata prova dei presupposti per l’azione di arricchimento. La Cassazione ha ritenuto il motivo infondato, evidenziando come la Corte d’Appello avesse ampiamente motivato la sua decisione. Era stato provato che la banca aveva trattenuto e incassato l’assegno senza fornire alcuna giustificazione plausibile o documentazione che comprovasse una causa lecita (ad esempio, la copertura di un fido specifico o l’esistenza di un rapporto extra-conto). La mancanza di una causa che giustificasse il versamento e il conseguente arricchimento della banca a danno della massa dei creditori era, quindi, palese.

Le Motivazioni

La Corte Suprema ha motivato la sua decisione sulla base di principi consolidati. In primis, ha ribadito che il carattere di sussidiarietà dell’azione di arricchimento va valutato in concreto: se le altre azioni tipiche (come la revocatoria) non sono esperibili per le specifiche modalità del fatto, l’azione ex art. 2041 c.c. diventa l’unica via per ripristinare l’equilibrio patrimoniale leso. Inoltre, la Corte ha confermato che l’onere della prova della giusta causa dell’arricchimento grava su chi ha ricevuto la prestazione, ovvero la banca. Non avendo quest’ultima fornito alcuna prova di un titolo che giustificasse l’incasso dell’assegno, la domanda del Fallimento è stata correttamente accolta.

Le Conclusioni

La decisione in commento rafforza la tutela dell’attivo fallimentare e chiarisce i confini tra i diversi strumenti a disposizione del curatore. Stabilisce che un istituto di credito non può trattenere somme senza una chiara e documentata giustificazione contabile, specialmente in prossimità di una crisi d’impresa. Per le curatele, la sentenza conferma che l’azione di arricchimento è uno strumento flessibile e potente per recuperare risorse distratte senza un titolo valido, anche quando le vie legali più tradizionali risultano impraticabili a causa delle specifiche circostanze del caso.

Quando è ammissibile un’azione di arricchimento in un contesto fallimentare?
L’azione di arricchimento è ammissibile quando il curatore fallimentare non dispone, in concreto, di altri rimedi legali specifici per recuperare un bene o una somma a vantaggio della massa dei creditori. Se, ad esempio, un’azione revocatoria non è proponibile per l’assenza dei suoi presupposti tecnici (come la mancata contabilizzazione di una somma su un conto), l’azione di arricchimento diventa l’unica via percorribile.

Perché l’eccezione di incompetenza territoriale della banca è stata respinta?
L’eccezione è stata respinta perché l’obbligazione di restituire la somma era considerata ‘liquida’, ovvero determinata nel suo esatto ammontare (pari all’importo dell’assegno). Per le obbligazioni pecuniarie liquide, la legge stabilisce che il foro competente è quello del domicilio del creditore, che in questo caso era il Fallimento.

Cosa deve provare il curatore per avere successo in un’azione di arricchimento contro una banca?
Il curatore deve dimostrare l’avvenuto spostamento patrimoniale (l’incasso della somma da parte della banca) e il conseguente impoverimento della società fallita. Sarà poi onere della banca, che si è arricchita, provare l’esistenza di una ‘giusta causa’ che legittimi tale incasso, come un debito specifico o un accordo contrattuale. Se la banca non fornisce tale prova, l’arricchimento si considera ingiustificato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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