Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 4813 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 4813 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/02/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 4479/2019 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE; -ricorrente- contro
COGNOME , elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE;
-controricorrente-
nonchè contro
RAGIONE_SOCIALE
-intimato- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di MILANO n. 5220/2018, depositata il 27/11/2018.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 24/10/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Sentito il Pubblico Ministero, la sostituta procuratrice generale NOME COGNOME che ha chiesto alla Corte di respingere il ricorso.
Sentiti gli Avvocati delle parti, che si sono riportati alle conclusioni formulate con il ricorso e il controricorso.
FATTI DELLA CAUSA
NOME COGNOME e la società RAGIONE_SOCIALE hanno stipulato un accordo che ha poi avuto esecuzione attraverso la stipulazione di ulteriori negozi, tra cui due contratti preliminari relativi alla cessione dalla prima alla seconda di diversi immobili, il cui prezzo andava corrisposto attraverso la permuta di una ‘porzione di villetta bifamiliare’ da edificare a spese della società acquirente su un terreno di proprietà di COGNOME, oltre al versamento di euro 20.000. RAGIONE_SOCIALE ha poi con contratto d’appalto affidato alla società RAGIONE_SOCIALE i lavori di costruzione della villetta. RAGIONE_SOCIALE ha corrisposto a RAGIONE_SOCIALE la somma di euro 127.000; RAGIONE_SOCIALE Fumagalli ha sospeso l’esecuzione dei lavori, in quanto la committente non aveva pagato il residuo importo dovuto all’appaltatrice e non aveva onorato tre effetti cambiari rilasciati per la somma di euro 103.715,49, firmati per avallo dai suoi soci COGNOME e COGNOME. RAGIONE_SOCIALE era rimasta inadempiente nei confronti di COGNOME non avendo consegnato la porzione di villetta nel termine pattuito; COGNOME e RAGIONE_SOCIALE hanno raggiunto un accordo in relazione ai rapporti contrattuali tra loro intercorsi. A seguito di un procedimento cautelare ex art. 700
c.p.c. introdotto da Buzzi, RAGIONE_SOCIALE COGNOME ha consegnato alla medesima il cantiere libero da persone cose e COGNOME ha affidato ad altra impresa i lavori di edificazione dell’immobile rimasti incompiuti. Nel 2014 il Tribunale di Monza ha dichiarato il fallimento di RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE COGNOME ha convenuto in giudizio COGNOME e il Fallimento RAGIONE_SOCIALE, chiedendo al Tribunale di Monza, in ordine all’intervenuta esecuzione delle opere di edificazione della villa per un importo riferibile al solo valore dei materiali e della manodopera pari a euro 286.560, di condannare COGNOME ai sensi dell’art. 936 c.c. al pagamento in proprio favore del residuo credito, pari a euro 159.560, ovvero, in via subordinata, di condannarla al pagamento della predetta somma ai sensi degli artt. 2038 e 2041 c.c.
Con sentenza n. 348 del 2017 il Tribunale di Monza ha rigettato le domande dell’attrice. Il Tribunale ha anzitutto escluso l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 936 c.c., avendo RAGIONE_SOCIALE COGNOME eseguito l’opera su suolo altrui (il terreno di proprietà di Buzzi) in adempimento di un contratto di appalto stipulato con RAGIONE_SOCIALE e conseguentemente ha respinto la domanda di risoluzione del contratto di appalto in quanto strumentale e funzionale alla domanda di condanna ex art. 936 c.c.; ha poi ritenuto non applicabile neanche in astratto le disposizioni di cui agli artt. 2038 e 2041 c.c., in quanto l’attrice aveva la possibilità di agire nei confronti di COGNOME e COGNOME obbligati in solido con Skyline per avere avallato le cambiali rilasciate dalla società.
La sentenza è stata impugnata da RAGIONE_SOCIALE. Con la sentenza n. 5220 del 2018, la Corte d’appello di Milano ha respinto il gravame.
Avverso la sentenza RAGIONE_SOCIALE ricorre per cassazione.
Resiste con controricorso NOME COGNOME.
Il Fallimento RAGIONE_SOCIALE non ha proposto difese.
Memoria è stata depositata dalla ricorrente.
RAGIONI DELLA DECISIONE
I. Il ricorso è articolato in sei motivi.
Il primo motivo eccepisce la ‘nullità del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., art. 360 comma 1, n. 4 c.p.c. ; violazione e/o falsa applicazione degli artt. 100 c.p.c. e 1454 ss. c.c., art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.’, per avere la Corte d’appello omesso ogni pronuncia sulla domanda di risoluzione del contratto fra essa appaltatrice e la committente dei lavori per inadempimento di quest’ultima, avendo l’attrice interesse alla pronuncia quale antecedente logico della domanda principale ex art. 936 c.c. e della subordinata ex art. 2041 c.c.
Il motivo è infondato. Come ha sottolineato la Corte d’appello, la società ricorrente non ha formulato una domanda autonoma diretta a ottenere una pronuncia di risoluzione per inadempimento del contratto d’appalto, ma ha inserito l’accertamento dell’intervenuta risoluzione del contratto nell’ambito della domanda svolta in via principale ai sensi dell’art. 936 c.c., come presupposto della stessa (cfr. le conclusioni dell’atto introduttivo del processo, trascritte alla pag. 10 del ricorso, con le quali la ricorrente ha chiesto, ‘previ gli opportuni accertamenti e declaratorie anche in ordine all’intervenuta esecuzione da parte dell’attrice delle opere di edificazione di una villetta bifamiliare, alla sussistenza di un residuo credito dell’attrice, all’intervenuta risoluzione del contratto d’appalto stipulato tra l’attrice e RAGIONE_SOCIALE a far data dal 13 febbraio 2014 per effetto della mancata ottemperanza da parte della stessa alla diffida ad adempiere, all’intervenuta ritenzione da parte di COGNOME delle opere eseguite dall’attrice, condannare la convenuta COGNOME al pagamento ex art. 936 c.c. in favore dell’attrice della predetta somma di euro 159.560′).
Il rigetto della domanda di condanna ai sensi dell’art. 936 c.c., pertanto, ha determinato l’assorbimento della richiesta di accertamento dell’avvenuta risoluzione del contratto, formulata non
per ottenere gli effetti restitutori e ripristinatori della situazione anteriore al contratto, ma solo quale mero presupposto dell’azione introdotta in via principale. Lo stesso vale per la domanda subordinata ex art. 2041 c.c., in relazione alla quale la ricorrente ha chiesto, ‘fermi gli accertamenti e declaratorie ivi richiesti, unitamente all’accertamento dell’incapienza del patrimonio del Fallimento RAGIONE_SOCIALE ai fini del soddisfacimento delle pretese creditorie di RAGIONE_SOCIALE COGNOME, di dichiarare tenuta la convenuta COGNOME e per l’effetto condannarla al pagamento in favore dell’attrice ex artt. 2038 e 2041 c.c. della predetta somma di euro 159.560′ (v. le pagg. 10 e 11 del ricorso).
2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la ‘violazione e/o falsa applicazione dell’art. 936 c.c., art. 360 comma 1, n. 3 c.p.c.’, per avere la Corte d’appello erroneamente ritenuto inapplicabile l’art. 936 c.c., dato che l’applicabilità delle regole sulla cessione consegue all’invalidità o risoluzione di qualsiasi rapporto negoziale intercorso tra il terzo e il soggetto cui il proprietario aveva concesso il godimento del fondo; la Corte d’appello ha posto in essere un errore di prospettiva, non avendo considerato che COGNOME oltre che il ruolo di proprietaria del suolo, ha rivestito il ruolo di effettiva committente delle opere.
Il motivo è infondato. La Corte d’appello ha correttamente escluso che la fattispecie in esame -nella quale l’appaltatrice chiede il pagamento del saldo a lei spettante per lavori di parziale costruzione di una villa, eseguiti sulla base di un contratto di appalto, non alla committente dei medesimi, ma alla proprietaria del suolo, suolo oggetto di un contratto di permuta concluso da quest’ultima con la committente possa essere sussunta sotto la disposizione di cui all’art. 936, comma secondo c.c. Tale disposizione, secondo cui il proprietario del fondo che preferisce ritenere le opere fatte da un terzo con materiali propri deve pagare a sua scelta il valore dei materiali e il prezzo della mano d’opera
oppure l’aumento di valore recato al fondo, è infatti disposizione che ha il fine di regolare i conflitti di interessi relativi alla proprietà
delle opere edificate su fondo altrui e agli acquisti per accessione. L’art. 936 c.c. può pertanto trovare applicazione solo quando le opere siano state eseguite da ‘un terzo e, cioè, da colui che non abbia alcun rapporto giuridico di natura reale o personale con il proprietario del fondo, tale da consentirgli la facoltà di costruire sul suolo’ (Cass. n. 11835/2003). Se è vero che tale condizione, la terzietà del soggetto che pone in essere le opere, deve ritenersi sussistente non solo nell’originaria assenza di qualunque vincolo contrattuale, ma anche quando un preesistente contratto sia venuto meno per invalidità o per risoluzione, in considerazione dell’efficacia retroattiva tra le parti della relativa pronuncia (v. al riguardo, per tutte, Cass. n. 4623/2001 e Cass. n. 11835/2003, appena menzionata), ciò non vale quando l’opera è stata eseguita in adempimento di un contratto stipulato con persona diversa dal proprietario. In tale ipotesi l’esecutore materiale entra in relazione con la cosa in via esclusivamente secondaria, a seguito e per l’effetto dell’incarico conferitogli e l’attività costruttiva esprime non già l’esercizio di un diritto, bensì l’adempimento di un’obbligazione e in caso di inadempimento e conseguente risoluzione l’esigenza normativa non è l’assegnazione della proprietà di un bene, quanto il ripristino delle rispettive posizioni economiche delle parti contraenti (cfr. Cass. n. 21895/2023, si vedano pure Cass. n. 27900/2017 e Cass. n. 1378/2012). Ciò significa, per il caso in esame, che una eventuale risoluzione del contratto di appalto stipulato tra la ricorrente e RAGIONE_SOCIALE non può rendere terza la ricorrente ai sensi dell’art. 936 c.c., operando la risoluzione unicamente sulla relazione secondaria con la cosa da parte dell’esecutore materiale.
Ne consegue -come ha sostenuto il Pubblico Ministero nelle sue conclusioni scritte -che, dovendosi escludere che la ricorrente
fosse terza rispetto alla proprietaria del bene edificato, nel senso prescritto dall’art. 936 c.c., il rigetto della domanda proposta a tale titolo prescinde del tutto dall’accertamento della risoluzione del contratto in questione.
Il terzo e il quarto motivo attengono alla conferma da parte della Corte d’appello del rigetto della domanda, proposta dalla ricorrente nei confronti di COGNOME di condanna ai sensi dell’art. 2041 c.c. (il rigetto della domanda ex art. 2038 c.c., come precisa la Corte d’appello, non è stato oggetto di censura in sede di gravame):
-con il terzo motivo la ricorrente denuncia ‘errore di percezione sul contenuto oggettivo della prova; nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 115 c.p.c., art. 360 comma 1, n. 4 c.p.c.’, per avere la Corte erroneamente ritenuta non provata l’insolvenza degli obbligati cambiari;
-con il quarto motivo la ricorrente contesta ‘nullità del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., art. 360 comma 1, n. 4 c.p.c.; violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2041 c.c., art. 360 comma 1, n. 3 c.p.c.’, per avere la Corte omesso ogni pronuncia sul motivo di appello con cui l’appellante aveva impugnato il capo della sentenza di primo grado con il quale il Tribunale aveva affermato che l’arricchimento di COGNOME era contenuto entro il valore dei titoli cambiari avallati dai soggetti indicati in sentenza.
I motivi non possono essere accolti. Secondo l’insegnamento di questa Corte, l’azione di ingiustificato arricchimento di cui all’art. 2041 c.c. può essere proposta solo quando ricorrano due presupposti:
(a) la mancanza di qualsiasi altro rimedio giudiziale in favore dell’impoverito;
(b) la unicità del fatto costitutivo causativo dell’arricchimento di un soggetto e della diminuzione patrimoniale a carico di un altro soggetto, con conseguente esclusione dei casi di c.d. arricchimento
indiretto, nei quali l’arricchimento è realizzato da persona diversa rispetto a quella cui era destinata la prestazione dell’impoverito, esclusione che trova due sole eccezioni, ossia quando l’arricchimento indiretto è stato conseguito dalla pubblica amministrazione o da un privato a titolo gratuito (v. al riguardo la pronuncia delle sezioni unite n. 24772/2008).
Nel caso in esame, ove pure l’arricchimento denunciato dalla ricorrente è indiretto, dato che il soggetto che si sarebbe arricchito (COGNOME) è diverso da quello con il quale chi ha compiuto la prestazione aveva un rapporto diretto (RAGIONE_SOCIALE), così che l’eventuale arricchimento costituisce solo un effetto indiretto o riflesso della prestazione eseguita (v. al riguardo Cass. n. 11835/2003 e Cass. n. 11051/2002), i giudici di merito si sono fermati al rilievo della mancanza del primo presupposto dell’azione di ingiustificato arricchimento. Richiamato il carattere di residualità dell’azione (su cui cfr. per tutte la pronuncia delle sezioni unite n. 33954/2023), che ‘ne postula l’inammissibilità ogni qualvolta il danneggiato, per farsi indennizzare del pregiudizio subito, possa esercitare, tanto contro l’arricchito che nei confronti di una diversa persona, altra azione’ (così, ex multis , Cass. n. 29988/2018 e Cass. n. 26199/2017, nonché da ultimo Cass. n. 4246/2024), la Corte d’appello ha sottolineato come la ricorrente avesse un’azione sperimentabile nei confronti dei due soci della RAGIONE_SOCIALE obbligati in solido con la società per avere avallato le cambiali della medesima, e come la ricorrente si fosse limitata a notificare ai debitori un atto di precetto, ma non avesse ‘mai tentato in alcun modo di escutere i loro patrimoni, né risulta che abbia effettuato ricerche per individuare eventuali beni da pignorare’.
La conclusione della Corte d’appello è contestata dalla ricorrente con il terzo motivo sotto il profilo dell’errore ‘sulla cognizione del contenuto oggettivo della prova’, perché la Corte non avrebbe considerato che il credito, per oltre euro 103.000 era ‘per certo
difficilmente realizzabile nell’ambito di una procedura esecutiva mobiliare’. La censura non può essere accolta: a parte che si chiede a questa Corte una inammissibile rivalutazione di elementi di fatto, non si considera che il giudizio sulla sussistenza di un altro rimedio giudiziale in favore dell’impoverito è un giudizio che il giudice deve svolgere ‘in astratto e prescindendo, quindi, dal relativo esito’ (Cass. n. 29988/2018, già menzionata).
Con il quarto motivo la ricorrente lamenta la mancata pronuncia da parte della Corte d’appello della censura ad essa proposta in relazione all’affermazione del Tribunale secondo cui ‘l’eventuale responsabilità della signora COGNOME ex art. 2041 c.c. sarebbe comunque contenuta nei limiti dell’arricchimento di quest’ultima’, arricchimento che ‘sarebbe in ogni caso contenuto entro il valore dei titoli cambiari avallati dai signori COGNOME e COGNOME. Il denunciato vizio di omessa pronuncia non sussiste. La Corte d’appello, confermata la mancanza del presupposto dell’azione di indebito arricchimento essendo in astratto esercitabile l’azione contro i due soci, ha correttamente considerato tale ratio decidendi assorbente ‘rispetto ad altro motivo’: l’affermazione del Tribunale censurata dalla ricorrente in appello era infatti semplicemente rafforzativa di tale ratio decidendi , avendo il giudice unicamente puntualizzato che la responsabilità di COGNOME ex art. 2041 c.c. sarebbe in ogni caso stata limitata al proprio ‘arricchimento’.
4. Restano assorbiti i restanti quinto e sesto motivo, che riguardano la mancata ammissione delle prove circa i lavori eseguiti, prove che sarebbero state decisive ai fini della quantificazione dell’effettivo arricchimento conseguito da COGNOME (il quinto motivo è rubricato ‘erronea valutazione in ordine all’ammissibilità e rilevanza dei mezzi istruttori dedotti da RAGIONE_SOCIALE nel giudizio di primo grado e reiterati nel giudizio d’appello; violazione e/o falsa applicazione degli artt. 210, 244 e 245 c.p.c., ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c.’; il sesto motivo è
rubricato ‘nullità del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., ex art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c.’ e ribadisce l’ammissibilità e rilevanza delle deduzioni istruttorie formulate dalla ricorrente).
II. Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/ 2002, si d à atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M .
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore della controricorrente, che liquida in euro 8.700, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.
Sussistono, ex art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio seguita alla pubblica