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Attività professionale riservata: limiti e società

Due professionisti hanno citato in giudizio due società, una pubblica “in house” e la sua controllata, accusandole di svolgere illecitamente attività professionale riservata di analisi chimiche. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, stabilendo che tali analisi, se svolte come “controlli interni” per conto degli enti pubblici soci e da personale dipendente qualificato, non costituiscono esercizio abusivo di professione né concorrenza sleale, data l’assenza di un monopolio assoluto e l’operatività al di fuori del mercato.

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Attività professionale riservata: la Cassazione sui limiti per le società in house

La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 23726 del 2024, offre un’importante analisi sui confini dell’attività professionale riservata, in particolare quando questa viene svolta da società a partecipazione pubblica. La pronuncia chiarisce quando l’esecuzione di analisi chimiche non costituisce esercizio abusivo della professione né concorrenza sleale, delineando i criteri per distinguere l’attività interna alla pubblica amministrazione da quella offerta sul libero mercato.

I fatti del caso

La vicenda giudiziaria ha origine dalla causa intentata da due professionisti, un chimico e un biologo, contro due società. La prima era una società cosiddetta “in house”, interamente partecipata da enti pubblici locali, mentre la seconda era una sua controllata al 100%. Secondo i professionisti, le due società svolgevano analisi chimiche e biologiche sulle acque, rilasciando relative certificazioni, senza possedere i requisiti di legge e ponendo in essere atti di concorrenza sleale. Essi sostenevano che tali prestazioni rientrassero nell’ambito dell’attività professionale riservata agli iscritti ai rispettivi albi.

I tribunali di primo e secondo grado avevano già respinto le domande dei professionisti. La Corte d’Appello, in particolare, aveva sottolineato che le società operavano come organismi della pubblica amministrazione, eseguendo controlli interni per conto degli enti soci, e che si avvalevano di personale dipendente qualificato e regolarmente iscritto agli albi (come periti chimici), agendo quindi al di fuori delle logiche di mercato.

La questione dell’attività professionale riservata e la concorrenza

I ricorrenti hanno portato il caso dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando principalmente la violazione delle norme che tutelano le professioni di chimico e biologo. Il fulcro della loro tesi era che determinate analisi e certificazioni non potessero essere svolte da società, ma solo da professionisti abilitati, e che l’operato delle convenute integrasse una forma di concorrenza illecita.

La Corte Suprema è stata chiamata a decidere se l’attività di analisi delle acque, svolta da società partecipate da enti pubblici per gli stessi enti, rientri nell’alveo di una attività professionale riservata e se possa configurare concorrenza sleale nei confronti dei liberi professionisti.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando le decisioni dei gradi precedenti e fornendo motivazioni dettagliate su ciascuno dei punti sollevati.

Le motivazioni

La Corte ha smontato la tesi dei ricorrenti basandosi su tre pilastri argomentativi fondamentali.

1. Assenza di un monopolio professionale assoluto

Innanzitutto, la Cassazione ha ribadito un principio consolidato: non esiste una riserva assoluta e monopolistica per le analisi chimiche e biologiche a favore esclusivo di chimici e biologi. La normativa ammette una concorrenza di competenze. Anche altre figure, come i periti industriali con specializzazione in chimica, sono abilitati a svolgere tali analisi. La Corte ha sottolineato che le sfere di competenza professionale possono essere sovrapposte e integrate, escludendo interpretazioni restrittive e monopolistiche che non trovano fondamento nella legge.

2. La natura dell’attività: controlli interni e non libera professione

Il secondo punto cruciale riguarda la qualificazione dell’attività svolta. I professionisti che operavano nei laboratori delle società erano dipendenti, non liberi professionisti. La loro attività non era imputabile a loro personalmente come prestazione professionale autonoma, ma alla società stessa, nell’ambito della sua organizzazione interna.
Inoltre, le analisi non erano offerte sul libero mercato, ma rappresentavano “controlli interni” che gli enti gestori del servizio idrico sono tenuti per legge (D.Lgs. 31/2001) a effettuare. Si trattava, quindi, di una forma di cooperazione tra enti pubblici e le loro società strumentali, finalizzata a garantire un interesse pubblico (la potabilità delle acque), e non di un servizio commerciale.

3. Esclusione della concorrenza sleale

Di conseguenza, non potendosi configurare un’attività economica sul mercato, viene a mancare il presupposto stesso della concorrenza sleale. Le società “in house”, agendo come articolazioni della pubblica amministrazione (longa manus), operano in un regime diverso da quello dei professionisti privati. La loro attività non mira a sottrarre clientela, ma a soddisfare le esigenze istituzionali degli enti proprietari.

Le conclusioni

La sentenza n. 23726/2024 della Corte di Cassazione stabilisce un principio chiaro: una società, in particolare se “in house”, non invade il campo dell’attività professionale riservata se esegue prestazioni tecniche, come le analisi delle acque, per conto degli enti pubblici soci, utilizzando proprio personale dipendente qualificato. Tale attività, qualificata come “controllo interno” e non come servizio offerto al mercato, non costituisce né esercizio abusivo di professione né concorrenza sleale. Questa decisione consolida l’orientamento giurisprudenziale che interpreta le competenze professionali in chiave non monopolistica e riconosce la specificità operativa delle società a controllo pubblico.

L’analisi chimica e biologica delle acque è un’attività professionale riservata esclusivamente a chimici e biologi?
No. Secondo la Corte di Cassazione, non sussiste una riserva assoluta o un monopolio a favore di queste due figure. La legge ammette una concorrenza di competenze, e anche altre figure professionali, come i periti industriali chimici, sono autorizzati a svolgere tali analisi.

Una società “in house” che svolge analisi per gli enti pubblici soci commette concorrenza sleale verso i liberi professionisti?
No. La Corte ha escluso la concorrenza sleale perché l’attività non è offerta sul libero mercato. Si tratta di “controlli interni” svolti nell’ambito di una cooperazione tra la pubblica amministrazione e le sue società strumentali, al di fuori di una logica concorrenziale.

I professionisti dipendenti di una società devono essere considerati come se svolgessero una libera professione?
No. L’attività svolta da un professionista come dipendente di una società è imputabile all’organizzazione aziendale e non costituisce un’attività libero-professionale autonoma. L’operato si inquadra nel settore operativo della società, che in questo caso era la tutela ambientale e la gestione di impianti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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