Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 27366 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 27366 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/10/2024
ORDINANZA
sul ricorso 5620-2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso L’UFFICIO DI RAPPRESENTANZA DELLA RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME COGNOME NOME, domiciliato ope legis in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, con diritto di ricevere le comunicazione all’indirizzo PEC de ll’avvocato NOME COGNOME, che lo rappresenta e difende
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 234/2018 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 09/11/2018 R.G.N. 278/2017;
R.G.N. 5620/2019
COGNOME.
Rep.
Ud. 25/09/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/09/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
Rilevato che
Con ricorso ex art. 414 c.p.c. NOME COGNOME esponeva di aver partecipato ad un concorso indetto dalla RAGIONE_SOCIALE di Udine nel gennaio del 2000 per la copertura di sei posti di collaboratore professionale amministrativo di 5^ qualifica funzionale, risultando idoneo non vincitore e di essere stato assunto solo successivamente, in seguito allo scorrimento della graduatoria, con decorrenza 1.5.2004, con inquadramento in posizione B1 sulla base del c.c.r.l. entrato in vigore il 2.8.2002, a differenza degli idonei vincitori assunti, invece, con inquadramento nella 5^ qualifica funzionale e, di conseguenza, in B6.
Rappresentava di aver maturato il diritto ad un trattamento economico uguale a quello dei vincitori, per effetto della clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 35, comma 1, del c.c.r.l. del 2.8.2002, ma di non aver ricevuto l’assegno personale riassorbibile previsto dalla innanzi indicata normativa. Precisava, infine, di aver beneficiato dell’accorpamento delle posizioni B1, B2 e B3 nella nuova posizione B1 in base al c.c.r.l. del 26.11.2004 e poi di una progressione economica in B2, senza mai percepire alcun assegno ad personam .
Sulla base di tali premesse, ricordato il contenuto normativo del citato art. 35 che, per le assunzioni effettuate successivamente, ma sulla base di selezioni indette in precedenza, prevedeva il riconoscimento di un assegno ad personam riassorbibile pari al differenziale tra il trattamento economico corrispondente alla qualifica funzionale prevista nel bando e il trattamento economico iniziale conseguente all’effettivo inquadramento in applicazione del nuovo contratto collettivo – il ricorrente chiedeva l’accertamento del suo diritto alla percezione
dell’assegno personale e la condanna della RAGIONE_SOCIALE al pagamento di quanto dovuto nei limiti della prescrizione quinquennale.
Il Tribunale di Udine, affermata l’applicabilità dell’art. 35, comma 1, del c.c.r.l. del 1.8.2002, rigettava la domanda sul presupposto dell’intervenuto assorbimento dell’assegno ad personam già nell’anno 2006, in conseguenza dei miglioramenti economici nel frattempo intervenuti.
La Corte di Appello di Trieste, in riforma della pronunzia di primo grado, in accoglimento della domanda, ritenuta la maturazione del giudicato interno sull’applicabilità del più volte ricordato art. 35, condannava la RAGIONE_SOCIALE di Udine a corrispondere al lavoratore le differenze retributive a lui spettanti, nei limiti della prescrizione quinquennale e quindi dal gennaio del 2008 fino al completo assorbimento dell’assegno.
La sentenza di appello nega, a differenza di quella del Tribunale di Udine, essere intervenuto il riassorbimento dell’assegno ad personam a far tempo dall’anno 2006, perché afferma che la quantificazione dell’assegno deve tener conto anche dei successivi sviluppi economici delle posizioni in comparazione. In altri termini, la Corte territoriale ritiene che il parametro di riferimento con cui effettuare il confronto al fine di verificare il diritto alla percezione dell’assegno personale non è il parametro fisso, il livello economico B6, poi divenuto B4, alla data di assunzione del dipendente, ma piuttosto un parametro variabile che tenga conto dei successivi sviluppi economici delle fasce più elevate.
Avverso questa decisione propone ricorso per cassazione la regione Autonoma Friuli Venezia Giulia con tre motivi.
Resiste con controricorso il lavoratore indicato in epigrafe.
Entrambe le parti depositano memorie.
Considerato che
Con il primo motivo di ricorso per cassazione si deduce la violazione del giudicato, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.
Si rappresenta che la Regione Friuli Venezia Giulia è subentrata alla RAGIONE_SOCIALE di Udine in tutte le funzioni declinate dall’art. 32 della l.r. n. 26 del 2014, allegato B, l.r. n. 26 del 2014, funzioni tra le quali va annoverata anche quella in materia ambientale, non più di competenza della RAGIONE_SOCIALE a far tempo dal 1.1.2017, con la conseguenza che, poiché l’atto di appello è stato notificato dopo oltre un anno di distanza dal trasferimento delle funzioni dal primo al secondo ente territoriale, la notificazione effettuata alla RAGIONE_SOCIALE è stata compiuta nei confronti di un soggetto non legittimato, secondo l’orientamento espresso anche giudice di legittimità, in particolare, in Cass. n. 5637/2014.
Il motivo è infondato e va rigettato.
Va premesso che nel caso di specie non si è verificato alcun fenomeno interruttivo, sicché risulta inconferente il richiamo a Cass. n. 5637 del 2014 evocata dalla parte ricorrente per sostenere la necessità della notifica della sentenza di primo grado alla Regione Friuli Venezia Giulia.
In applicazione dell’art. 32 cit. si è, infatti, realizzato il trasferimento alla Regione di una parte delle competenze e del personale originariamente facente capo alla RAGIONE_SOCIALE di Udine.
Quella in rilievo è, quindi, una ipotesi di successione a titolo particolare e non un’ipotesi di successione a titolo universale, come insistito anche nella memoria ex art. 378 c.p.c.
Ne consegue l’applicazione dell’art. 111 c.p.c., con prosecuzione del processo tra le parti originarie, fatta salva l’applicazione dei commi 3 e 4 della norma innanzi richiamata.
Conferma quanto innanzi anche Sez. U. n. 21690 del 2019, rv. 65503501, in cui si afferma che ‘ per effetto della l.r. Calabria n. 34 del 2002 e della delibera della Giunta regionale dell’11 novembre 2005, alla data del 1° gennaio 2006 era stato trasferito alla RAGIONE_SOCIALE di Catanzaro l’effettivo esercizio delle funzioni di gestione, cura e manutenzione dei corsi d’acqua insistenti sul territorio della RAGIONE_SOCIALE medesima, con conseguente legittimazione passiva di questo ente territoriale in relazione alle domande di risarcimento del danno per
fatti verificatisi successivamente; pertanto, a seguito della riassunzione delle predette funzioni da parte della Regione e del subentro di quest’ultima nei rapporti attivi e passivi in corso, ai sensi degli artt.1 della l.r. Calabria n. 14 del 2015 e 1 della l. n. 56 del 2014, si è determinato, in relazione ai processi pendenti, un fenomeno successorio regolato dall’art.111 c.p.c., nel quale al trasferimento del rapporto controverso non si è accompagnata l’estinzione per qualsiasi causa dell’ente trasferente, cui dunque deve riconoscersi la conservazione della qualità di parte e la titolarità dell’interesse alla proposizione dei mezzi di impugnazione, salva la possibilità di intervento volontario o la chiamata in causa dell’ente subentrante’.
Conseguentemente l’appello è stato notificato correttamente alla RAGIONE_SOCIALE di Udine e non alla Regione, sicché alcun giudicato è caduto sulla sentenza di primo grado ed il motivo, come anticipato, va rigettato.
Con la seconda censura viene dedotta, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione di norme e contratti collettivi; la violazione degli artt. 35 e 25 del contratto collettivo regionale di lavoro di 1^ livello del 1^ agosto del 2002, nonché la violazione dell’art. 1362 et ss. oltre che la contraddittorietà della motivazione.
Il motivo deduce l’erroneità dell’interpretazione del c.c.r.l. cit. sostenendo che l’interpretazione fornita dal giudice di merito è contraria sia alla volontà delle parti che alle regole dell’ermeneusi contrattuale. Nel mezzo si evidenzia che l’art. 35 del c.c.r.l. del 2002 non ha equiparato (a differenza di quanto ritenuto dai giudici di seconde cure) la posizione degli idonei assunti per scorrimento a quella dei vincitori, sicché i primi non possono godere e fruire del medesimo trattamento economico dei secondi.
La censura, che parte dall’assunto che l’art. 35 cit. disciplini (come ritenuto dai giudici di merito, senza che il capo della sentenza sia stato oggetto di specifico motivo di censura) la fattispecie qui all’attenzione,
offre, nella sostanza, una interpretazione alternativa della norma contrattuale rispetto a quella offerta dalla sentenza di appello.
Si insiste che l’assegno personale doveva essere parametrato e cristallizzato al momento dell’assunzione, senza una rivalutazione del diritto al godimento dello stesso in ragione delle dinamiche retributive successivamente intervenute nel corso del rapporto.
La doglianza è inammissibile in entrambe le sue articolazioni. Deve essere innanzitutto richiamato l’orientamento, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, ai sensi dell’art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., come modificato dal d.lgs. n. 40 del 2006, la denuncia della violazione e falsa applicazione dei contratti collettivi di lavoro è ammessa solo con riferimento a quelli di carattere nazionale, con la conseguenza che l’esegesi del contratto collettivo di ambito territoriale è riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale o per vizi della motivazione, nei limiti in cui questi rilevano secondo la normativa processuale applicabile ratione temporis (cfr . fra le tante Cass. n. 32368/2021, Cass. 33399/2019, Cass. nn. 156 e 85 del 2018 che richiamano Cass. n. 17716/2016, Cass. 7671/2016, che ha escluso l’applicabilità dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001 e dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. al CCRL per il personale dirigenziale della Regione Sardegna, Cass. n. 24865/2005 che ha ritenuto inapplicabile la disciplina dettata dal d.lgs. n. 165/2001 per i contratti nazionali ai contratti stipulati dalle province e dalle regioni a statuto speciale).
Quanto alle modalità di applicazione alla contrattazione collettiva dei criteri ermeneutici dettati dagli artt. 1362 e ss. c.c., si è detto, ed il principio deve essere qui ribadito, che, seguendo un percorso circolare, l’interprete dovrà tenere in conto, in modo equiordinato, di tutti i canoni previsti dal legislatore, sia di quelli tradizionalmente definiti soggettivi che di quelli oggettivi, confrontando il significato desumibile dall’utilizzo del criterio letterale con quello promanante dall’intero atto negoziale e
dal comportamento complessivo delle parti, coordinando tra loro le singole clausole alla ricerca di un significato coerente con tutte le regole interpretative innanzi dette (si veda in tal senso, tra le più recenti, la massimata Cass. n. 30141/2022, rv. 66575901).
Conseguentemente, essendo denunziato il c.c.r.l. per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, la parte ricorrente in cassazione avrebbe dovuto precisare in quale modo il ragionamento del giudice di appello abbia deviato da detti criteri, essendo inammissibile un motivo che faccia un generico richiamo ai canoni interpretativi, senza alcun’altra specificazione e/o critica, con mera prospettazione nel motivo di un risultato interpretativo diverso da quello accolto dalla sentenza impugnata (cfr. Cass. 12104/2004, rv. 57402701 e successive conformi).
Ebbene, nel caso di specie, alla luce di quanto innanzi, il mezzo va dichiarato inammissibile in quanto la doglianza non prospetta affatto la violazione dei canoni ermeneutici, ma si limita a proporre, inammissibilmente, una interpretazione alternativa del contratto collettivo regionale diversa da quella fornita dalla Corte territoriale, non consentita nel giudizio di legittimità; non vi è, conclusivamente, alcuna indicazione delle regole interpretative violate dalla Corte territoriale, né indicazione alcuna delle ragioni per le quali la Corte si sarebbe discostata dai suddetti canoni interpretativi.
A tanto va breviter aggiunto che in alcun modo, a differenza di quanto del pari dedotto nella doglianza, la motivazione è viziata da contraddittorietà avendo invece specificato i giudici di appello, sulla scorta dell’interpretazione offerta del più volte ricordato art. 35 del c.c.r.l. del 2002, le ragioni per le quali hanno ritenuto che l’assegno personale, dovendo tener conto dei successivi sviluppi economici, non fosse stato riassorbito e dovesse quindi esser liquidato nei limiti della prescrizione quinquennale.
Con il terzo motivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., viene denunziata la violazione e falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c. e dei principi civilistici in tema di onere della prova ex art. 2697 c.c.
Si insiste nel mezzo che il datore di lavoro, RAGIONE_SOCIALE di Udine, fin dalla prima difesa, aveva dedotto l’intervenuto riassorbimento dell’assegno ad personam e che tale assunto non era stato tempestivamente contestato dalla controparte, di modo che doveva ritenersi provato il riassorbimento dell’assegno personale come dedotto dal datore.
Il motivo è infondato.
Va preliminarmente evidenziato che il tema di indagine qui non attiene al riparto degli oneri probatori, quanto piuttosto all’operatività ed all’ambito applicativo del principio circolare di non contestazione.
Al riguardo, sulla scorta del Cass. n. 21690 del 2023, rv. 65503501, va preliminarmente ricordato che effettivamente l’attore ha l’onere di specifica e tempestiva contestazione, entro l’udienza del 420 c.p.c., dei fatti estintivi specificamente dedotti dal convenuto in comparsa di risposta e rientranti nella sua sfera di conoscibilità.
Tuttavia, il richiamato principio di non contestazione non è affatto applicabile alla fattispecie in esame.
Infatti, allegato dall’attore il diritto all’assegno ad personam, nessun altro onere sullo stesso poteva incombere, in assenza della deduzione di un fatto estintivo.
Più chiaramente, la difesa della parte datoriale, nel sostenere l’intervenuto riassorbimento dell’assegno personale, non ha allegato un fatto estintivo del diritto dell’attore – che avrebbe effettivamente imposto la contestazione – ma ha semplicemente offerto una lettura diversa rispetto a quella prospettata dalla difesa del lavoratore dell’art. 35 cit.
In estrema sintesi alcun onere di contestazione, stante le allegazioni del ricorso ex art. 414 c.cp. incombeva sull’attore.
Conclusivamente il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1bis , dello stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso;
condanna parte ricorrente al pagamento in favore della parte controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1bis , dello stesso art. 13.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 25.9.2024