Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 21346 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 21346 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12275/2022 R.G. proposto da :
COGNOME con domicilio telematico all’indirizzo PEC del proprio difensore, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME
-ricorrente-
contro
COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
-intimati- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di NAPOLI n. 4032/2021 depositata il 29/10/2021;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20/06/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. Nel novembre 2003, NOME e NOME COGNOME convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Napoli, NOME COGNOME e i figli, in qualità di eredi di NOME COGNOME nonché NOME COGNOME e NOME COGNOME esponendo di aver svolto, sin dal 1973, attività commerciali in forma associativa con i fratelli NOME e NOME.
Secondo quanto allegato dagli attori, gli utili derivanti da tali attività erano stati costantemente reinvestiti nella costituzione di un capitale comune, destinato all’acquisto di beni mobili, immobili e partecipazioni societarie, sulla base di un accordo di comunione patrimoniale con riparto delle quote in misura paritaria (25% per ciascun fratello).
A fondamento delle proprie pretese, gli attori richiamavano una scrittura privata del 3.12.1993, sottoscritta da tutti i fratelli, e successivamente accettata dalle rispettive consorti in data 29.3.1994, nella quale si dava atto dell’esistenza della comunione familiare su beni acquisiti nel tempo con i proventi dell’attività comune.
A seguito del decesso di NOME COGNOME avvenuto il 3.5.1994, insorgevano contrasti con i suoi eredi, sfociati in un primo giudizio introdotto nel 1997. In tale giudizio, il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 8675 del 24.7.2003, accoglieva parzialmente la domanda attorea, dichiarando la comproprietà di NOME e NOME COGNOME nella misura di un quarto ciascuno su beni mobili, partecipazioni sociali e titoli azionari.
La domanda relativa agli immobili veniva invece rigettata, in quanto la scrittura del 3.12.1993 era priva dei requisiti di forma scritta pubblica richiesti ad substantiam per il trasferimento di diritti reali immobiliari.
La sentenza veniva confermata dalla Corte d’appello di Napoli con decisione n. 279 del 14.2.2007, che successivamente passava in
giudicato con il rigetto del ricorso per cassazione, reso con sentenza della Corte Suprema n. 20107 del 02/09/2013.
Nella presente controversia, introdotta successivamente a quest’ultima, NOME e NOME COGNOME deducevano di aver appreso, solo dopo l’instaurazione del primo giudizio, dell’avvenuto acquisto, tra il 1993 e il 1995, di ulteriori sette beni immobili, cinque dei quali successivamente alienati, formalmente intestati a NOME COGNOME vedova di NOME COGNOME
Assumevano che anche tali cespiti fossero stati acquisiti con fondi comuni provenienti dall’attività imprenditoriale familiare e, pertanto, rientrassero nella comunione patrimoniale originaria, con quota paritaria del 25% per ciascun fratello, in forza dell’accordo già oggetto della scrittura del 3.12.1993.
Gli attori chiedevano, quindi, il riconoscimento della comproprietà sulle nuove unità immobiliari e, per quelle già alienate, il pagamento dell’equivalente valore a titolo risarcitorio. In via subordinata, proponevano domanda di indennizzo ex art. 2041 c.c., riferita sia ai nuovi beni, sia a quelli già compresi nel primo giudizio, richiamando la declaratoria di nullità del pactum fiduciae per difetto di forma scritta, ritenendo così integrati i presupposti dell’azione di arricchimento senza causa per insussistenza di rimedi contrattuali.
Il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 319/2015, dichiarava l’improponibilità della domanda principale relativa ai beni mobili e partecipazioni sociali, in quanto già oggetto di precedente giudicato, rigettava la domanda principale avente ad oggetto il riconoscimento della comproprietà su beni immobili e respingeva, in parte, la domanda subordinata di arricchimento senza causa, dichiarandola inammissibile per il resto.
2. Avverso la sentenza del Tribunale di Napoli proponeva appello il solo NOME COGNOME contestando il rigetto della domanda
subordinata di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. e la conseguente condanna alle spese.
Si costituivano in giudizio gli appellati NOMECOGNOME NOME e NOME COGNOME nonché NOME COGNOME i quali contestavano l’appello e proponevano appello incidentale quanto alle spese.
Restavano contumaci NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
2.1. La Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 4032 del 29.10.2021, rigettava l’appello principale di NOME COGNOME e, accogliendo l’appello incidentale, condannava NOME COGNOME al pagamento delle spese di primo grado e di appello in favore degli eredi NOME e del RAGIONE_SOCIALE della RAGIONE_SOCIALE
Per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME affidato a sei motivi.
3.1. Le parti intimate non hanno svolto attività difensiva.
3.2. Tutte le parti hanno depositato memoria.
3.3. il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
4.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2041, 2042 e 1418 c.c., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c.
Lamenta che la Corte d’appello abbia erroneamente ritenuto improponibile l’azione di arricchimento senza causa per difetto del requisito della sussidiarietà, individuando come astrattamente esperibile una pretesa contrattuale risarcitoria fondata su un pactum fiduciae avente ad oggetto beni immobili. Deduce la erroneità di tale ultima qualificazione, nella misura in cui essa
prescinde dalla circostanza, definitivamente accertata con sentenza del Tribunale di Napoli n. 8675/2003 (confermata in appello e passata in giudicato con la sentenza della Corte di cassazione n. 20107/2013), che ha dichiarato la radicale nullità dell’accordo fiduciario per difetto della forma scritta ad substantiam .
Secondo il ricorrente, l’accertata nullità del negozio esclude la possibilità di fondare alcuna pretesa risarcitoria di natura contrattuale, venendo meno il presupposto del vincolo negoziale. Di conseguenza, la pretesa fatta valere nel presente giudizio potrebbe essere esercitata soltanto in via sussidiaria mediante l’azione di arricchimento senza causa, avendo egli subito un depauperamento patrimoniale in favore di soggetti che hanno tratto vantaggio dalla nullità del patto, senza corrispettivo o giustificazione giuridica.
Assume, pertanto, che la Corte territoriale abbia violato i principi che regolano la sussidiarietà dell’azione ex art. 2041 c.c., nonché omesso di considerare un fatto decisivo, costituito dal passaggio in giudicato della declaratoria di nullità del pactum fiduciae , con conseguente insussistenza di rimedi contrattuali e attualità dell’interesse all’azione di ingiustificato arricchimento.
4.2. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2041, 2042 e 1418 c.c., nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c.
Lamenta che la Corte d’appello abbia erroneamente qualificato la domanda proposta come azione volta all’adempimento di un preteso accordo di comunione (inottemperanza all’accordo di comunione), senza considerare che l’unica azione effettivamente introdotta aveva natura di azione generale di arricchimento senza causa, fondata sull’accertata nullità del pactum fiduciae in relazione ai beni immobili oggetto di causa.
Evidenzia che, secondo i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, l’azione ex art. 2041 c.c. è esperibile in via sussidiaria proprio nei casi in cui l’invalidità del contratto precluda qualsiasi tutela fondata sul vincolo negoziale, come nel caso di specie, in cui la nullità del pactum fiduciae è stata definitivamente accertata con sentenza passata in giudicato.
Rileva inoltre che nel caso concreto risultano integrati tutti i presupposti dell’arricchimento senza causa: l’arricchimento patrimoniale degli odierni resistenti (per effetto dell’intestazione e/o alienazione di beni acquistati con fondi comuni); il correlativo depauperamento del ricorrente, che ha contribuito a costituire, con risorse comuni, il patrimonio oggetto di controversia; la mancanza di una giusta causa giuridica, discendente dalla nullità del vincolo negoziale; e, infine, la sussidiarietà dell’azione, attesa l’impossibilità di esperire rimedi di natura contrattuale.
Assume quindi che la qualificazione giuridica data dalla Corte territoriale sia errata, in quanto fondata su un presupposto non più sussistente (validità dell’accordo negoziale), e che l’omessa considerazione della reale natura e struttura della domanda determini una violazione delle norme sostanziali e un vizio motivazionale rilevante ex art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.
4.3. Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2041, 2042, 1418 e 2909 c.c., nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c.
Censura la decisione impugnata nella parte in cui la Corte d’Appello ha ritenuto inammissibile l’azione di arricchimento senza causa sul presupposto della violazione del giudicato formatosi con la Sentenza n. 20107/2013 della Corte di cassazione, che ha
definitivamente confermato la nullità del pactum fiduciae relativo ai beni immobili, per difetto della forma scritta ad substantiam .
Il ricorrente contesta tale impostazione, osservando che il giudicato in questione si è limitato a dichiarare l’inefficacia traslativa del contratto fiduciario con riguardo agli immobili, ma non ha precluso la possibilità di far valere, in via autonoma e sussidiaria, una pretesa restitutoria o indennitaria fondata sull’arricchimento senza causa, quale conseguenza proprio della nullità dell’accordo negoziale.
Evidenzia che l’azione proposta non ha ad oggetto l’accertamento della proprietà o la ricostituzione del vincolo negoziale già ritenuto invalido, bensì la tutela patrimoniale accordata dall’art. 2041 c.c. in presenza di un depauperamento ingiustificato, derivante dalla destinazione di risorse comuni alla formazione di un patrimonio intestato a terzi, senza contropartita.
Deduce, pertanto, che la Corte territoriale ha errato nel ritenere che il giudicato ostasse all’esame dell’azione di arricchimento, confondendo l’ambito oggettivo della preclusione (relativo alla proprietà degli immobili e all’efficacia del pactum) con quello del diritto a un indennizzo per lo squilibrio patrimoniale derivante dalla nullità dell’accordo, che costituisce una domanda distinta, autonoma e fondata su una causa petendi diversa.
Sottolinea, infine, l’omesso esame di tale profilo da parte della Corte d’appello, che avrebbe trascurato un fatto decisivo -l’orientamento giurisprudenziale che ammette l’azione di arricchimento anche in presenza di un contratto nullo – nonostante fosse stato oggetto di specifica discussione tra le parti.
Sostiene che l’oggetto della presente azione di arricchimento non è la scrittura privata del 3.12.1993, ma il negozio fiduciario del 1973 (di cui la scrittura è solo prova). Tale negozio, in relazione agli immobili, è stato dichiarato nullo e inefficace per mancanza di
forma scritta con sentenza passata in giudicato. Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello, pur riconoscendo la nullità del pactum fiduciae in altro giudizio, abbia erroneamente negato la proponibilità dell’azione di arricchimento per difetto di sussidiarietà, quando la nullità del titolo rendeva tale azione l’unico rimedio esperibile per il depauperamento subito
4.4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2041, 2042 e 2909 c.c., nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c.
Censura la statuizione della Corte d’appello nella parte in cui ha ritenuto inammissibile l’azione di arricchimento senza causa, in quanto preclusa dal giudicato formatosi sulla nullità del pactum fiduciae , in applicazione dell’art. 2909 c.c.
Il ricorrente osserva che tale interpretazione si fonda su una fuorviante estensione dell’efficacia preclusiva del giudicato. Evidenzia, infatti, che la precedente decisione, passata in giudicato, si è limitata ad accertare la nullità radicale del negozio fiduciario avente ad oggetto beni immobili, per difetto di forma scritta, senza pronunciarsi sull’esistenza o meno di un indebito arricchimento e, quindi, senza investire in alcun modo la domanda ex art. 2041 c.c., che costituisce una pretesa diversa per causa petendi e petitum .
Sottolinea che, in coerenza con il principio della sussidiarietà dell’azione di arricchimento, la declaratoria di nullità del titolo negoziale non solo non impedisce, ma anzi legittima l’azione restitutoria fondata sull’assenza di giusta causa del vantaggio patrimoniale realizzato da controparte, trattandosi di effetto autonomo della nullità.
4.5. Con il quinto motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2041 e 2042 c.c., nonché dell’art. 112 c.p.c., oltre all’omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di
discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c.
Contesta la statuizione della Corte d’appello che ha confermato il rigetto della domanda di arricchimento senza causa sul presupposto della carenza di allegazioni specifiche circa l’ammontare degli utili d’impresa eventualmente percepiti dai convenuti, considerati come indice dell’arricchimento lamentato.
Deduce che tale motivazione si fonda su una erronea ricostruzione del presupposto contenutistico dell’art. 2041 c.c., secondo cui l’indennizzo dovuto non va determinato sulla base dell’esatto profitto ottenuto dall’arricchito (nella specie, gli utili d’impresa), bensì deve essere commisurato, secondo criteri equitativi, al minor valore tra il depauperamento subito e l’arricchimento realizzato, in un’ottica di riequilibrio patrimoniale.
Sostiene, in particolare, che l’elemento fondante della domanda era costituito dall’allegata partecipazione del ricorrente alla formazione di un capitale comune, utilizzato per l’acquisto di beni immobili successivamente intestati a terzi, e che la stima del valore di tali immobili, quantificato in Euro 2.870.000,00 dal consulente tecnico d’ufficio sulla base della documentazione di acquisto, rappresentava un parametro oggettivo per la determinazione del vantaggio ottenuto dai convenuti.
Aggiunge che la Corte d’appello ha omesso di valutare tale aspetto, pur oggetto di specifiche deduzioni difensive, incorrendo così in violazione dell’art. 112 c.p.c. (per omessa pronuncia su una domanda ritualmente formulata) nonché in un vizio motivazionale per omesso esame di fatti decisivi ai fini della decisione.
4.6. Con il sesto motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2041, 2042 e 2909 c.c., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e la violazione delle norme sul giudicato, in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5, c.p.c.
Lamenta che la Corte d’appello abbia omesso di considerare l’efficacia preclusiva del giudicato formatosi sulla sentenza della Corte di cassazione n. 20107 del 2 settembre 2013, che, nel confermare le precedenti pronunce di merito, ha accertato la titolarità dei beni mobili e delle partecipazioni sociali in capo a NOME e NOME COGNOME riconoscendo l’esistenza di un rapporto fiduciario originatosi nel 1970.
Evidenzia che tale accertamento giudiziale ha riconosciuto l’esistenza di una comunione familiare di beni – sia mobili che immobili – fondata su un accordo fiduciario tra fratelli volto alla gestione unitaria del patrimonio comune. Sebbene la validità del pactum fiduciae sia stata esclusa con riguardo ai beni immobili per mancanza di forma scritta ad substantiam , l’accertamento della sua esistenza rispetto ai beni mobili e ai rapporti societari conserva efficacia vincolante e costituisce premessa logico-fattuale non superata dalla Corte territoriale.
Secondo il ricorrente, da tale ricostruzione consegue non solo l’ammissibilità, ma anche la fondatezza dell’azione di arricchimento proposta, in quanto avente ad oggetto il depauperamento patrimoniale subito in conseguenza dell’intestazione e/o alienazione di beni acquistati con risorse comuni, in assenza di un valido titolo negoziale e senza possibilità di far valere diritti contrattuali.
Aggiunge che la Corte d’appello ha del tutto omesso di valutare il contenuto e gli effetti di tale giudicato, incorrendo in un vizio di omessa pronuncia (art. 112 c.p.c.), nonché in una violazione dell’art. 2909 c.c., per non aver riconosciuto l’efficacia preclusiva della pronuncia definitiva su un punto centrale della vicenda, rilevante ai fini dell’ammissibilità e della sussistenza dell’azione ex art. 2041 c.c.
Premessa l’irrilevanza della disamina della ritualità della instaurazione del contraddittorio in questa sede alla stregua dei
principi affermati fin da Cass. Sez. U. 6826/10 e successive, nella prospettiva del concreto esito del ricorso, va rilevato che il primo, il secondo, il terzo, il quarto e il sesto motivo – da scrutinarsi congiuntamente, poiché tutti relativi alla asserita proponibilità dell’azione ex art. 2041 c.c. – non meritano accoglimento.
5.1. È appena il caso di ribadire, in proposito, che costituiscono elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 2041 c.c.: a) l’arricchimento (c.d. ‘locupletatio’) a favore di un soggetto; b) l’impoverimento (c.d. ‘depauperatio’) subìto da un altro soggetto; c) il nesso di correlazione tra locupletatio e depauperatio ; d) l’assenza di una giusta causa dell’arricchimento; e) la mancanza di qualsiasi altra azione in favore dell’impoverito che consenta di ottenere la reintegrazione patrimoniale.
Nel dettaglio, con riferimento a tale ultimo requisito, la valutazione di residualità dell’azione di arricchimento senza causa va svolta alla stregua della più recente giurisprudenza di questa Corte in argomento (Sez. U, Sentenza n. 33954 del 05/12/2023, Rv. 669447 – 01), secondo la quale «la domanda di ingiustificato arricchimento (avanzata autonomamente ovvero in via subordinata rispetto ad altra domanda principale) è proponibile ove la diversa azione -sia essa fondata sul contratto ovvero su una specifica disposizione di legge ovvero ancora su clausola generale – si riveli carente ab origine del titolo giustificativo, restando viceversa preclusa ove quest’ultima sia rigettata per prescrizione o decadenza del diritto azionato o per carenza di prova del pregiudizio subito o per nullità derivante dall’illiceità del titolo contrattuale per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico».
Orbene, un simile scrutinio, nel caso ci occupa, non dà esito positivo, di guisa che l’azione di ingiustificato arricchimento risulta
improponibile, come ha correttamente dichiarato la Corte territoriale.
Ed invero, la doglianza mossa dai ricorrenti, secondo la quale la Corte d’appello ha errato là dove ha ritenuto che gli attori avrebbero potuto esperire l’azione risarcitoria in base ad un accordo ritenuto nullo, non coglie nel segno, poiché trascura che il Giudice d’appello ha dichiarato, per vero, che l’accordo era nullo quanto alla natura traslativa, ma non quanto a quella obbligatoria. La Sentenza del Tribunale di Napoli n. 8675/2003 (confermata in grado d’appello e passata in giudicato a seguito della Sentenza n. 20107/2013 di questa Corte) ha infatti dichiarato la radicale nullità ad substantiam quanto alla sola efficacia reale. Ciò in quanto, secondo i principi desumibili dalla disciplina in tema di trasferimento di diritti reali immobiliari, il contratto deve essere concluso in forma scritta, a dell’accordo fiduciario per difetto della forma scritta pena di nullità (art. 1350 c.c.).
Diversa soluzione deve invece predicarsi, secondo l’orientamento accolto dalle Sezioni Unite di questa Corte con la Sentenza n. 6459 del 06/03/2020, con riferimento al c.d. pactum fiduciae .
In tale occasione, questa Corte, risolvendo un precedente contrasto sul punto, ha infatti affermato che tale patto, spiegando effetti meramente obbligatori, non necessita della forma scritta e può essere concluso – come sovente accade nella prassi – verbalmente, valorizzandosi l’esigenza di riservatezza e segretezza che in concreto muove le parti.
Al contempo, le Sezioni Unite hanno ricusato quella tesi, lumeggiata anche in dottrina, che, facendo leva sul dato per cui dal patto fiduciario nasce, tra l’altro, un obbligo del fiduciario di (ri)trasferire la proprietà, invocava l’art. 1351 c.c. sulla forma del contratto preliminare e affermava, anche per il pactum fiduciae , la necessità della c.d. forma per relationem , secondo un criterio di
simmetria (conclusione che, secondo tale tesi, doveva predicarsi anche per il mandato immobiliare a vendere o acquistare). Nella specie, le Sezioni Unite hanno passato in rassegna, anzitutto, le differenze, strutturali e funzionali, tra la figura del pactum fiduciae e il contratto preliminare. Nella fiducia c.d. romanistica, infatti, si realizza prima l’effetto traslativo della proprietà, tramite apposito contratto, cui poi accede il pactum , che limita l’effetto reale e prevede, altresì, un obbligo di ri-trasferimento della proprietà; all’opposto, il contratto preliminare, più che limitare un trasferimento già avvenuto, programma un trasferimento che avverrà (solo col definitivo). Sicché, mentre il preliminare favorisce il trasferimento, il patto fiduciario lo limita. Trattasi, pertanto, di una diversità di collocazione temporale della vicenda traslativa e di una diversità di funzione.
Del resto, non può sottacersi che l’art. 1351 c.c. è norma eccezionale, poiché limita il generale principio di libertà delle forme negli scambi tra privati (arg. ex art. 1325, n. 4, c.c.), per la qual cosa non può essere oggetto di applicazione analogica.
Venendo, quindi, al caso di specie, il giudicato sceso sull’intera vicenda ha invero escluso (come pure sembra riconoscere lo stesso ricorrente nella illustrazione del terzo motivo) la sola efficacia traslativa, ma ha lasciato impregiudicato l’esperimento di un’eventuale azione risarcitoria da violazione di accordi pattizi in favore del ricorrente. In tal senso, infatti, la vicenda processuale, conclusasi con la sentenza della Cassazione del 2013, ha riconosciuto l’esistenza di un rapporto fiduciario originatosi nel 1973; rapporto sulla cui base l’odierno ricorrente avrebbe dovuto intraprendere la strada della tutela risarcitoria.
La effettiva e riconosciuta possibilità in capo al ricorrente di attivare la tutela risarcitoria esclude, quindi, invariabilmente, la
proponibilità dell’azione di indebito arricchimento, per difetto di sussidiarietà, ai sensi degli artt. 2041 e 2042 c.c.
Sulla base di tali premesse, le censure formulate dall’odierno ricorrente risultano perciò destituite di fondamento, avendo la Corte d’appello fatto corretta applicazione dei principi dinanzi richiamati, non ravvisandosi neppure, per le ragioni diffusamente illustrate, quella ‘fuorviante estensione del giudicato’ denunciata dal ricorrente.
5.2. A tanto si aggiunga, quale ulteriore ragione di inammissibilità, che le questioni poste dal quarto e dal sesto motivo non risultano, in base a quanto si desume dal solo rilevante ricorso, essere state sottoposte, negli esatti termini qui rappresentati, ai giudici del merito, con conseguente carenza di prova della loro non novità.
Il quinto motivo deve ritenersi assorbito dall’inammissibilità dei precedenti motivi.
L’ indefensio degli intimati non richiede la condanna alle spese.
P. Q. M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1quater, dell’art. 13 del d.p.r. n. 115/2002.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza