Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 13328 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 13328 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 14/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16024/2020 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA SPA, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALECODICE_FISCALE rappresentat a e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di BRESCIA n. 190/2020 depositata il 14/02/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 06/03/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Brescia, con sentenza n. 190/2020, depositata il 14.2.2020, ha rigettato l’appello proposto dalla RAGIONE_SOCIALE in liquidazione avverso la sentenza del Tribunale di Mantova n. 990/2017, depositata il 25.10.202017, che -sulla domanda proposta dalla società correntista diretta ad accertare la nullità delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori, di applicazione di interessi ultralegali, nonché l’applicazione di interessi usurari, con conseguenti domande restitutorie – aveva condannato la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. al pagamento della somma di € 70.262,00, oltre accessori di legge.
La Corte d’Appello ha respinto la prospettazione della società correntista in ordine all’esistenza di un ‘affidamento di fatto’ ed ha, altresì, disatteso la doglianza della correntista secondo cui il quesito al CTU – con cui era stato previsto che il calcolo dovesse essere operato ‘ in modo che ciascun versamento o risultato del calcolo potrà produrre interessi creditori in favore del cliente sui saldi attivi in linea capitale solo per la parte eccedente gli interessi passivi debitori sino a quel momento maturati (conteggiati a parte, al fine di depurare il calcolo dell’anatocismo) ‘ -avesse provocato una surrettizia reintroduzione dell’anatocismo.
Quanto alla dedotta usura, il giudice d’appello ha evidenziato che:
che il contratto di conto corrente era stato acceso nel febbraio 1993, prima quindi dell’entrata in vigore della legge sull’usura (L. n. 108/96), con la conseguenza che l’usurarietà del tasso sarebbe eventualmente sopravvenuta;
ii) che la consulenza tecnica d’ufficio aveva comunque concluso nel periodo analizzato (III trimestre 1999 e II trimestre 2005) per l’assenza di superamenti del tasso soglia;
iii) che correttamente il CTU, nella verifica del superamento del tasso soglia antiusura, aveva considerato ‘i numeri debitori forniti dalla banca’ e non quelli risultanti dalle depurazioni di tutte le capitalizzazioni e della commissione di massimo scoperto, dovendo l’indagine riguardare l’operato effettivo della banca.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, affidandolo a dieci motivi. La Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a ha resistito in giudizio con controricorso e ha depositato la memoria ex art. 380 bis.1 cod. proc. civ..
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2727 cod. civ.
Lamenta ricorrente che la Corte d’Appello non ha considerato che vi era la prova in atti delle aperture di credito, oltre a non essere stati valutati gli elementi probatori nel loro complesso.
Inoltre, si duole la ricorrente che il giudice d’Appello non ha considerato che negli estratti conto prodotti di cui è causa era espressamente prevista l’esistenza dell’affidamento e del tasso debitore da applicare nonché tassi di interessi scaglionati in funzione dell’ammontare dell’esposizione, oltre ad addebiti per ‘gestione fido’. Non è stato neppure considerato che l’affidamento era espressamente previsto, anche se non in termini
specificamente quantificati, nel contratto di apertura di credito prodotto in giudizio.
Con il secondo 2° motivo è stata dedotta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., anche in relazione al principio di ‘vicinanza dell’onere della prova’.
Lamenta la ricorrente che la Banca MPS, nel sollevare l’eccezione di prescrizione, avrebbe dovuto circostanziarla indicando quali rimesse fossero solutorie e quali non avessero tale caratteristica. Ribadisce di aver fornito la prova degli affidamenti, che erano comprovati documentalmente.
Con il terzo motivo è stata la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ.
Espone ricorrente che la Banca, nella comparsa di costituzione in appello, aveva ammesso che nel periodo successivo al settembre 1999 -quello non più interessato dalla prescrizione – era stato stipulato un contratto di apertura di credito, revocato nel settembre 2000. Si trattava di una condotta tenuta in giudizio dalla banca da cui il giudice, a norma dell’art. 116 c.p.c. , avrebbe dovuto trarre il convincimento che le aperture di credito esistevano e che le rimesse di cui è causa avevano natura ripristinatorie.
Tutti e tre motivi, da trattare unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, sono inammissibili.
La banca, nel dedurre l’esistenza del contratto di apertura di credito in conto corrente, non fa che svolgere censure di merito in quanto finalizzate a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quella operata dalla Corte territoriale, la quale ha evidenziato che la mera presenza costante di saldi passivi negli estratti conto, così come l’addebito di commissioni di massimo scoperto non consentivano di valutare l’esistenza dell’assunzione di uno specifico obbligo giuridico da parte della banca, e, in ogni caso,
di valutare l’ammontare e l’epoca degli affidamenti asseritamente concessi. Tale valutazione, oltre a non essere censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione – neppure dedotto dalla ricorrente -è coerente con il principio di diritto già affermato dalla questa Corte secondo cui l’inerzia della banca di fronte ai ripetuti sconfinamenti non può essere intesa come implicita autorizzazione all’innalzamento del limite dell’apertura di credito, costituendo piuttosto un atteggiamento di mera tolleranza, in attesa del corretto adempimento da parte del correntista dell’obbligo di rientrare dall’esposizione non autorizzata (vedi Cass. n. 29317/2020).
Infine, quanto al dedotto (dalla correntista) onere della banca di individuare e precisare, nel sollevare l’eccezione di prescrizione, le rimesse ritenute solutorie, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 15895/2019, hanno affermato che la Banca può limitarsi ad allegare l’inerzia dell’attore in ripetizione, e dichiarare di volerne profittare, così come, in modo simmetrico, ai fini della validità domanda di ripetizione dell’indebito, è sufficiente l’allegazione da parte del correntista dell’esistenza di versamenti, da intendersi come pagamenti, indebiti e la richiesta di restituzione in riferimento ad un dato conto e ad un tempo determinato (vedi parr. 7 e 3 S.U. citata).
Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 360 comma 1° n. 3 c.p.c. per violazione, nel quesito sottoposto al ctu, dell’art. 1283 cod. civ.. Secondo la ricorrente, il quesito, già riportato in narrativa, comportava l’imputazione di ogni rimessa prima agli interessi scaduti, e poi, ove vi fosse un residuo, al capitale, determinando così la capitalizzazione degli interessi ad ogni rimessa del correntista.
Con il quinto motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 comma 1° n. 4 c.p.c. in conseguenza della violazione dell’art. 112
c.p.c. , per omessa pronuncia della Corte territoriale (o comunque per motivazione apparente) sul motivo d’appello relativo al quesito sottoposto al CTU, nel quale si lamentava l’adozione di un sistema di calcolo che determinava l’anatocismo degli interessi.
Il quarto e quinto motivo, da esaminare unitariamente, in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, sono infondati.
In primo luogo, la dedotta violazione dell’art. 360 comma 1° n. 4 c.p.c. è insussistente. La Corte d ‘ Appello ha reso una motivazione che, seppur succinta, soddisfa il requisito del ‘minimo costituzionale’ (vedi pag. 25 sentenza impugnata, primo capoverso).
L’affermazione che il quesito al CTU, darebbe luogo, surrettiziamente all’anatocismo, è priva di fondamento. Il quesito non ha previsto che gli interessi passivi, di cui è stato previsto il conteggio a parte proprio per evitare l’anatocismo, concorrano alla determinazione degli ulteriori interessi passivi (e che quindi vengano capitalizzati), ma che i saldi attivi in linea capitale del cliente, su cui applicare gli interessi creditori, siano determinati detraendo gli interessi passivi sino a quel momento maturati, in modo tale da verificare l’effettivo credito del cliente su cui applicare gli interessi attivi. Tale meccanismo non determina l’anatocismo.
Con il sesto motivo è stata dedotta la violazione, nel quesito sottoposto al CTU, dell’art. 1194 cod. civ.
Ad avviso della ricorrente, il quesito al CTU, prevedendo l’imputazione di ogni rimessa prima agli eventuali interessi scaduti e la rimanenza al saldo capitale, comporta la qualificazione di ogni rimessa come pagamento, e viola, pertanto, l’art. 1194 c.c. perché applica tale norma ad una fattispecie (la rimessa in conto corrente) diversa da quella a cui tale norma si riferisce, cioè ai pagamenti.
Il motivo è inammissibile.
La ricorrente, nel censurare che le rimesse siano state imputate prima agli interessi e poi al capitale, contesta che le stesse avessero la natura di pagamento, e ciò in coerenza con la propria prospettazione dell’esistenza, quantomeno di fatto, nel caso di specie, di un’apertura di credito in conto corrente, circostanza fattuale, tuttavia, esclusa dalla Corte d’Appello, con la conseguenza, che con l’apparente doglianza della violazione di legge, il ricorrente non fa che inammissibilmente censurare una valutazione di fatto della RAGIONE_SOCIALE.
Con il settimo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 comma 1° n. 4 c.p.c. in conseguenza della violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia della C orte d’Appello sul motivo d’appello relativo al quesito sottoposto al CTU nella parte in cui si lamentava l’adozione di un criterio di imputazione delle rimesse diverso da quello negozialmente adottato dalle parti nella gestione del rapporto.
Con l’ottavo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia sul motivo d’appello in cui si lamentava la ultrapetizione in cui era incorso il Tribunale di Mantova, nel prevedere nel quesito al CTU, un criterio di imputazione delle rimesse diverso da quello adottato dalla stessa banca nella gestione del rapporto.
Il settimo e l’ottavo motivo, da esaminare unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, sono inammissibili.
In primo luogo, i motivi difettano di autosufficienza, in quanto, assertivamente, la ricorrente deduce che le censure contenute nel settimo e ottavo motivo formavano oggetto di un motivo d’appello, ma non precisa neppure a quali specifici motivi abbia inteso fare
riferimento. D’altra parte, gli estratti dell’atto d’appello trascritti nel ricorso sono talmente brevi che non consentono di verificare se quelli che la ricorrente afferma essere motivi d’appello non fossero altro che mere argomentazioni svolte all’interno di motivi d’appello su cui la RAGIONE_SOCIALE aveva, invece, risposto. Peraltro, secondo l’orientamento di questa Corte (vedi Cass. n. 2151/2021), ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto; tale vizio, pertanto, non ricorre quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione.
Con il nono motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 1 L. n. 108/1996 e 1815 cod. civ..
Deduce la ricorrente che, difettando un’originaria valida pattuizione sugli interessi -essendo stato fatto un generico riferimento agli ‘usi su piazza’ – se è pur vero che la L. 108/96 non può trovare applicazione nel periodo precedente alla sua entrata in vigore, ciò non vale per il periodo successivo in cui rileverà la condotta illecita della banca che, nella vigenza della predetta legge, abbia applicato interessi usurari.
Inoltre, la ricorrente reitera la censura già svolta in appello, secondo cui i numeri debitori riportati negli estratti conto non sarebbero idonei ai fini della verifica del superamento del tasso soglia, dovendo il tasso effettivo essere rideterminato sulla scorta del conto depurato degli interessi ultralegali e delle commissioni non pattuite, e dell’effetto dell’anatocismo.
14. Il motivo è infondato.
Quanto alla prima questione, questa Corte (vedi Cass. S.U. n. 24675/2017; conf. Cass. n. 24742/2023) ha enunciato il principio di diritto secondo cui ‘Nei contratti di mutuo, allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura, come determinata in base alle disposizioni della l. n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia al momento della stipula…’.
Quanto alla seconda questione, correttamente, il giudice d’appello ha ritenuto che la verifica dell’eventuale superamento del tasso soglia antiusura debba essere fatta sulla base delle originarie condizioni applicate dalla banca e dei numeri debitori riportati negli estratti conto.
Se, infatti, a titolo di esempio, ipotizzassimo un rapporto di c/c privo di alcuna pattuizione valida e, al fine della ricostruzione dell’andamento del conto corrente, dovessimo applicare le ‘condizioni sostitutive’ ex art. 117 TUB, non potrebbe mai accertarsi l’usura.
In uno scenario di questo tipo, i tassi debitori (molto bassi) che verrebbero applicati e l’espunzione di qualsivoglia spesa/commissione non porterebbero mai ad accertare l’usura bancaria.
La verifica usuraria è dunque un accertamento da effettuare sulla base di quello che è stato l’effettivo operato della banca, eventualmente aggiungendo nel calcolo, a norma dell’art. 1 L. n. 108/1996, le commissioni e remunerazioni a qualsiasi titolo collegate alla erogazione del credito. Ove si provvedesse -come
invoca la ricorrente -alla depurazione delle somme illegittimamente addebitate si falserebbe tale accertamento.
15. Con il decimo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 1 L. 108/1996. Lamenta la ricorrente che nella verifica del tasso effettivo, operata dal CTU, non si è in alcun modo tenuto conto della cms. La Corte d’Appello aveva, infatti, confermato la sentenza del Tribunale di Mantova che aveva ritenuto irrilevante la cms ai fini dell’accertamento del tasso -soglia.
16. Il motivo è inammissibile.
La Corte d’Appello ha affermato che la sentenza delle Sezioni Unite n. 16303/2018 ha offerto pieno riscontro alla metodologia esplicitata a pag. 10 della prima relazione peritale. Dall’esame della sentenza impugnata, non risulta affatto che il giudice d’appello non abbia tenuto conto della cms nel calcolo del tasso usurario (seppur con le modalità precisate nella sopra citata sentenza delle S.U., ovvero con la comparazione della commissione di massimo scoperto eventualmente applicata con la ‘CME soglia’).
La ricorrente ha dedotto una violazione di legge che non sussiste.
Va, peraltro, osservato che, anche ove la ricorrente avesse inteso, nella sostanza, far valere l’omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 comma 1° n. 5 cod. proc. civ., il motivo sarebbe comunque del tutto privo di autosufficienza, essendo stato riportato nel ricorso solo un breve estratto della relazione peritale assolutamente inidoneo ad accertare la metodologia seguita dal consulente tecnico d’ufficio.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in € 12.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della r icorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello del ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Roma, così deciso il 6.3.2024