Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 7864 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 7864 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22277/2020 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante, RESTITUTA COGNOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE);
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante, NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) e NOME COGNOME (CODICE_FISCALE);
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di NAPOLI n. 1414/2020, depositata il 22/04/2020 e notificata in data 18 maggio 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20/02/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La RAGIONE_SOCIALE con contratto del 1° marzo 2006 si era impegnata a installare e a fornire alla società RAGIONE_SOCIALE il servizio Hotel news, cioè un canale televisivo privato rivolto ai clienti della struttura ricettiva; successivamente, in data 28 aprile 2006, la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE terme stipulava con la RAGIONE_SOCIALE, cui poi era succeduta la Sanpaolo RAGIONE_SOCIALE, poi divenuta RAGIONE_SOCIALE, un contratto di locazione operativa, in forza del quale la RAGIONE_SOCIALE riceva il pagamento dell’integrale corrispettivo e la RAGIONE_SOCIALE si obbligava a corrispondere alla RAGIONE_SOCIALE, per 36 mesi, il canone di euro 637,80; stante l’inadempimento della EMAIL.it la società RAGIONE_SOCIALE la conveniva in giudizio perché fosse condannata a rifonderle l’importo di euro 22.960,80 e a risarcirle il danno.
La convenuta non solo chiedeva il rigetto della domanda, ma, a sua volta, in via riconvenzionale domandava la condanna della società RAGIONE_SOCIALE al pagamento di euro 3.500,00 per il canone annuale successivo al maggio 2009, assumendo che il contratto si fosse tacitamente rinnovato.
Il Tribunale di Napoli, con la sentenza n. 10252/2017, accoglieva la domanda della RAGIONE_SOCIALE e condannava RAGIONE_SOCIALE al pagamento di euro 22.960,80, con gli interessi legali dalla domanda al soddisfo; rigettava tanto la domanda dell’attrice volta
ad ottenere il risarcimento dei danni quanto la domanda riconvenzionale della RAGIONE_SOCIALE.
La Corte d’appello di Napoli, investita del gravame dalla RAGIONE_SOCIALE, con la sentenza n. 1414/2020, depositata il 22/04/2020 e notificata in data 18 maggio 2020, ha riformato la sentenza impugnata, rigettando la domanda della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e la domanda riconvenzionale dell’appellante.
Segnatamente, la Corte d’appello ha qualificato il contratto intercorso tra le parti in causa come contratto di appalto di servizi e, applicando l’art. 1665, 3° comma, cod.civ., ha ritenuto che il verbale di consegna del 15 maggio 2006, firmato da NOME COGNOME, peraltro, intervenuto volontariamente nel giudizio di primo grado, e qualificato dal Tribunale come amministratore di fatto della società RAGIONE_SOCIALE, contenesse una accettazione senza riserve dell’opera (atteso che la società conduttrice, per il tramite di NOME COGNOME, appunto, dava atto di aver partecipato all’installazione e al collaudo, che il collaudo si era concluso positivamente e che i beni erano stati consegnati, installati e collaudati), confermata dai testi escussi.
Tale ultima circostanza unita al fatto che la società RAGIONE_SOCIALE non avesse successivamente – dal maggio 2006 al settembre 2009, data della notifica dell’atto di citazione -mai inviato una comunicazione scritta o reclamo all’appellante relativi al malfunzionamento del servizio e, per contro, avesse continuato a pagare per ben tre anni il canone mensile e che neppure dopo aver ricevuto formale disdetta del contratto avesse contestato l’inadempimento, ha indotto la Corte d’appello a escludere la ricorrenza di un inadempimento da parte della RAGIONE_SOCIALE.
Ha rigettato anche la domanda riconvenzionale dell’appellante, data la formalizzazione della disdetta del contratto, incompatibile con il suo rinnovo tacito.
La società RAGIONE_SOCIALE ricorre per la cassazione di detta sentenza, formulando sei motivi.
Resiste con controricorso la RAGIONE_SOCIALE
La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis 1 cod.proc.civ.
MOTIVAZIONI IN DIRITTO
Con il primo motivo la società ricorrente deduce, ex art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2028, 2639 e 2745 bis cod.civ.
Attinta da censura è la statuizione con cui la Corte territoriale ha ritenuto che il Tribunale avesse attribuito ad NOME COGNOME la qualifica di amministratore di fatto e che detta qualificazione fosse passata in giudicato non essendo stata contestata.
La ricorrente sostiene, invece, che il giudice di prime cure aveva qualificato NOME COGNOME come utile gestore, ai sensi dell’art. 2028 cod.civ., (solo) in relazione alla stipulazione del contratto di fornitura del 1° marzo 2006 e che (solo) detta qualificazione era da considerare passata in giudicato.
Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112, 113 e 329 cod.proc.civ. e la violazione dell’art. 2909 cod.civ.
La sentenza dovrebbe essere cassata per avere il giudice a quo operato una riqualificazione d’ufficio del ruolo di NOME COGNOME.
I primi due motivi, che attengono alla medesima questione, sono infondati.
A p. 12 del ricorso è riportato il dispositivo della sentenza di primo grado che, riguardo all’intervento in giudizio di NOME COGNOME, così affermava: ‘il rapporto contrattuale intercorre tra RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE e COGNOME NOME, interventore, assume il ruolo di utile gestore del negozio della ‘RAGIONE_SOCIALE‘.
La ricorrente vorrebbe dedurne che la Corte territoriale, definendo amministratore di fatto NOME COGNOME, sul presupposto che così avesse fatto il Tribunale, sia incorsa in errore, ma così non è.
In primo luogo, il Tribunale si è limitato a definire utile gestore NOME COGNOME al fine di qualificare il titolo che lo legittimava a intervenire in giudizio; in secondo luogo, la gestione di affari altrui dà luogo ad una amministrazione di fatto della società: la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. 05/12/2008, n. 28819) considera amministratori di fatto coloro che si siano ingeriti nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura da parte della società, in quanto i rapporti contrattuali di fatto ‘assumono rilevanza, sul piano giuridico, a prescindere dall’esistenza della corrispondente fattispecie negoziale. Tra le situazioni che possono assumere rilievo, a questi fini, viene comunemente indicata quella caratterizzata dal consolidarsi di una relazione di “contatto sociale” particolarmente pregnante, idonea a giustificare … il sorgere di vincoli che vanno al di là del semplice dovere di rispetto dei diritti altrui, indipendentemente dalla ricorrenza di un conforme intento negoziale delle parti interessate. A tali situazioni può essere assimilata l’assunzione “non autorizzata” della gestione di affari altrui nella consapevolezza della loro alienità. Si desume infatti dagli artt. 2028 e ss. c.c., che essa, pur dando luogo ad una ingerenza non autorizzata nella sfera giuridica altrui, non è dalla legge considerata illegittima, ma, al contrario, rispondente a un interesse meritevole di tutela e, come tale, idonea a determinare la nascita “delle obbligazioni che deriverebbero dal mandato”. Né d’altro canto potrebbe argomentarsi dall’art. 2029 c.c., il quale richiede che il gestore abbia la “capacità di contrattare”, che tale iniziativa assuma, nella valutazione legislativa il valore di un contegno negoziale. … Non vi è quindi motivo di ritenere che il sorgere degli obblighi inerenti all’amministrazione della società abbia come presupposto ineliminabile la nomina, sia pure irrituale,
dell’amministratore da parte dell’assemblea e che, in difetto di tale presupposto, l’attività del gestore non autorizzato avrebbe rilievo solo sul piano della responsabilità aquiliana: gli artt. 2028 e segg. stanno infatti ad indicare che, nel nostro ordinamento, l’assunzione non autorizzata della gestione di affari altrui è reputata idonea a far sorgere, a carico del gestore, gli obblighi tipici di colui che, in base ad un valido contratto, tale incarico ha ricevuto dall’interessato; e, quindi, di situazioni giuridiche la cui violazione assume rilievo sul piano della responsabilità contrattuale (Cass. 06/03/1999, n. 1925).
Coloro che si ingeriscono nella gestione di una società possono, dunque, esserne considerati amministratori di fatto, a meno che non risulti che abbiano compiuto atti gestori sono occasionali.
Che la gestione d’affari altrui sia incompatibile con l’assunzione dell’amministrazione di fatto di una società (così p. 25 e ss. del ricorso) è affermazione in iure erronea.
Su di essa e sulla conseguenza, secondo cui la Corte d’appello avrebbe riqualificato d’ufficio la posizione giuridica di NOME COGNOME, è stato costruito tutto il motivo che quindi va rigettato.
Anche perché non conduce a risultati diversi il tentativo della ricorrente di dimostrare che la qualifica di utile gestore fosse stata attribuita dal Tribunale solo alla stipulazione del contratto e non anche alla sottoscrizione del verbale di consegna; non solo per il fatto che la ricorrente non ha messo in relazione tale contestazione con il fatto che il compimento di atti sporadici di utili gestione non consente di considerare l’utile gestore un amministratore di fatto, ma per distinguere l’utile gestione dall’amministrazione di fatto, ma anche perché che il Tribunale abbia ritenuto utile gestore NOME COGNOME solo con riferimento alla stipulazione del contratto è una conclusione tratta dalla sentenza di prime cure in maniera del tutto assertiva dalla ricorrente.
4) Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1398 e 1399 cod.civ. nonché degli artt. 2639 e 2475 bis cod.civ. e degli artt. 2697 cod.civ., in relazione agli artt. 113, 115 e 116 cod.proc.civ.
Secondo la ricorrente, anche se NOME COGNOME fosse stato suo amministratore di fatto, per rendere opponibile nei suoi confronti il verbale di consegna da lui sottoscritto sarebbe stato necessario un atto di ratifica, ai sensi dell’art. 1399 cod.civ., che invece aveva fatto difetto.
Il motivo è infondato.
Ribadito che proprio in quanto utile gestore NOME COGNOME è stato ritenuto amministratore di fatto, è del tutto fuori luogo pretendere la ratifica allo scopo di rendere opponibile il verbale di accettazione e collaudo alla società gerita; è vero che l’art. 2032 cod.civ. stabilisce che la ratifica dell’interessato produce relativamente alla gestione gli effetti che sarebbero derivati da un mandato, ma una ratifica, secondo la dottrina, non aggiunge nulla ad una gestione già perfetta; in base ai principi generali il gestore è infatti già di per sé soggetto alle stesse obbligazioni che deriverebbero da un mandato, la ratifica serve solo ‘ a fugare eventuali incertezze circa l’effettiva sussistenza di tutti i requisiti della gestione d’affari ‘ (absentia, utiliter coeptum, assenza della prohibitio domini e così via);in giurisprudenza cfr., in tal senso, per tutte, Cass. 20/03/1995, n. 3225.
Non essendo in discussione che non vi fossero, nel caso di specie, i presupposti dell’utile gestione, non era necessaria la ratifica della società gerita per far valere nei suoi confronti il verbale di collaudo.
4) Con il quarto motivo la società ricorrente censura la impugnata sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1398, 1399 cod.civ. nonché dell’art. 2384 cod.civ., ai sensi dell’art 360, 1° comma, n. 4, cod.proc.civ.
Oggetto di censura è la statuizione con cui la Corte d’appello ha ritenuto che NOME COGNOME fosse apparso a controparte come legittimato a rappresentarla (come si evinceva dall’uso del timbro della società); la ricorrente deduce, evocando la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 10375/2005 e Cass. n. 10297/2010) che il principio dell’apparenza del diritto e dell’affidamento non è invocabile nei casi in cui la legge prescrive speciali mezzi di pubblicità mediante i quali sia possibile controllare con l’ordinaria diligenza la consistenza effettiva dell’altrui potere come accade nel caso di organi della società di capitali regolarmente costituiti e attribuisce alla Corte d’Appello l’erronea applicazione degli artt. 1398 e 2384 cod.civ.
Il motivo è inammissibile.
Premesso che il provvedimento qui impugnato ha enunciato più rationes decidend i, tutte autonomamente idonee a sorreggere la statuzione di rigetto dell’appello, è necessario -per giungere all’annullamento della pronunzia -non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure; lo scopo dell’impugnazione l’annullamento della sentenza o di un singolo capo in toto, è sufficiente, pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni, perché il motivo di impugnazione debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni (in tale senso, ad esempio, cfr. Cass. 11/05/2018, n. 11493); il rigetto delle censure formulate con i motivi precedenti produce la inammissibilità del motivo qui scrutinato.
5) Con il quinto motivo alla Corte territoriale si imputa di aver violato gli artt. 112, 113, 345 e 329 cod.proc.civ., ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ.
Il Tribunale aveva qualificato il contratto intercorso tra le parti come atipico e misto, nel quale si erano fusi la fornitura di beni, assimilabile alla locazione, e la fornitura di un servizio informatico nell’arco di un triennio riconducibile alla somministrazione; il giudice a quo , senza che vi fosse stata alcuna impugnazione sul punto, ha riqualificato il contratto come appalto, incorrendo, secondo la ricorrente, nella violazione delle norme indicate nell’epigrafe del motivo.
Il motivo è infondato.
Il giudice d’appello, dovendo individuare l’esatta disciplina giuridica attinente agli atti e ai fatti che costituiscono l’oggetto della controversia, è libero di dare al rapporto controverso una qualificazione giuridica difforme da quella data dal primo giudice; il suo potere incontra il limite di non introdurre nuovi elementi di fatto nell’ambito delle questioni sottoposte al suo esame e di non mutare l’effetto giuridico che la parte ha inteso conseguire; detta riqualificazione gli è preclusa nel caso in cui la definizione giuridica data al rapporto dai primi giudici non risolva una specifica disputa tra le parti sul punto, dovendosi in tal caso ritenere che la questione, in mancanza di impugnazione, sia coperta dal giudicato (Cass. 19/03/2018, n.6716).
La ricorrente erroneamente, dunque, si duole del solo fatto che il giudice, senza esserne richiesto, abbia provveduto ad una diversa qualificazione del contratto, omettendo di lamentare fondatamente che il giudice per addivenire a tale nuova diversa qualificazione abbia inciso sui fatti storici allegati dalle parti e modificato petitum o causa petendi o ancora che sulla qualificazione dell’operazione contrattuale si era formato il giudicato.
6) Con il sesto ed ultimo motivo la ricorrente si duole, ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 4, cod.proc.civ., della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1655 e ss.
La Corte d’appello avrebbe erroneamente qualificato il contratto come appalto di servizi, mancando nel caso di specie un facere da parte della RAGIONE_SOCIALE, la quale si era limitata a concedere in locazione personal computer e a implementare e installare sugli stessi il software per consentire la fornitura del servizio Hotel news. Né -aggiunge la ricorrente -il fatto che la RAGIONE_SOCIALE avesse installato il software e implementato lo stesso trasformava il contratto in appalto, in quanto la fornitura di un bene che richieda quale prestazione accessoria la installazione e la messa in opera non trasforma il contratto di vendita o di somministrazione in appalto (Cass. n. 8540/1984 e Cass. n. 3807/1995); peraltro, non avendo la EMAIL predisposto un software ad hoc , ma avendo fornito un software già presente sul mercato e standardizzato, la Corte d’appello avrebbe erroneamente fatto riferimento alla fornitura di software personalizzato, perché la personalizzazione poteva essere effettuata direttamente dall’utente in autonomia, apportando delle modifiche al programma.
6.1) In primis , va ribadito che “la qualificazione del contratto consta di due fasi consistenti, la prima, nella individuazione ed interpretazione della comune volontà dei contraenti, la seconda, nell’inquadramento della fattispecie negoziale nello schema legale paradigmatico corrispondente agli elementi, in precedenza individuati, che ne caratterizzano la esistenza” ( ex multis , cfr., da ultimo, Cass. 7/10/2021, n. 27290).
Le operazioni ermeneutiche attinenti alla prima fase costituiscono espressione dell’attività tipica del giudizio di merito, il cui risultato, concretandosi in un accertamento di fatto, non è in termini generali sindacabile in sede di legittimità, salvo che per violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. cod.civ. mentre “la seconda, concernente l’inquadramento della comune volontà, come appurata, nello schema legale corrispondente, si risolve nell’applicazione di norme giuridiche e
può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo” (ancora Cass. 7/10/2021, n. 27290).
Anche senza considerare l’assertività di alcuni rilievi (ad esempio circa il fatto che il software fosse standardizzato e non creato ad hoc per soddisfare le sue specifiche esigenze), ad assumere carattere dirimente è la circostanza che nella specie la ricorrente non ha confutato la ricostruzione della volontà delle parti, affidando, come avrebbe dovuto, la censura alla deduzione della violazione dei canoni ermeneutici da parte della Corte territoriale (Cass. 25/10/2006, n. 22889; Cass. 27/12/2009, n. 26505); i profili confutati riguardano l’assenza di un facere da parte della RAGIONE_SOCIALE e il mancato sviluppo di un software personalizzato: circostanze che, anche senza considerare che neppure trovano conferma nelle argomentazioni offerte (si pensi alla necessità di configurare l’ hardware secondo le esigenze della cliente, ex art. 3 del contratto, riprodotto a p. 35 del ricorso), sono state utilizzate dalla ricorrente al solo scopo di contrapporre la propria qualificazione del contratto a quella del giudice a quo .
Va, dunque. ribadito che ‘Poiché preliminare alla qualificazione del contratto è la ricerca della comune volontà delle parti, che costituisce un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione sia contestata la qualificazione da quest’ultimo attribuita al contratto intercorso tra le parti, le relative censure, per essere esaminabili (…) essere proposte sotto il profilo della mancata osservanza dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ.’: Cass. 04/06/2010, n. 13587.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 3.000,00 per onorari, oltre agli esborsi liquidati in euro 200,00, oltre a spese generali e accessori di legge, in favore della controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di Consiglio della Terza Sezione civile