Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 7968 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 7968 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 24644/2022 r.g. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE società cessionaria dei crediti già vantati da RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO il quale chiede di ricevere le comunicazioni e le notificazioni relative al presente procedimento all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato.
-ricorrente – contro
Assessorato Attività Produttive della regione Sicilia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv ocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici ex lege domicilia, in Roma INDIRIZZO
-controricorrente-
Avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo, n. 1463/2021, depositata in data 10/9/2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13 /2/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
La RAGIONE_SOCIALE stipulava con l’Assessorato Regionale siciliano alla cooperazione, commercio, artigianato e pesca, una convenzione in data 11/7/1988, per la realizzazione di aree artigianali attrezzate connesse all’insediamento di Castelbuono.
In particolare, per quel che qui ancora rileva, l’art. 7 della convenzione prevedeva un importo massimo di lire 13.680.000.000, quale «fisso e invariabile», di cui per Iva lire 1.819.321.725.
L’importo era onnicomprensivo e compensava il costo dei lavori e delle forniture, delle spese generali e dell’Iva.
L’Iva doveva essere pagata nelle percentuali di legge ed era a carico dell’Assessorato.
L’art. 8 della convenzione prevedeva varianti con perizia. La perizia di variante veniva redatta dal direttore dei lavori l’11/1/1993 e l’Iva veniva determinata in lire 1.921.905.198, pur restando fisso l’importo dei lavori in lire 13.680.000.000. Il 16/9/1993 la perizia veniva approvata dall’organo di controllo regionale.
A seguito di licitazione privata la RAGIONE_SOCIALE aggiudicava l’appalto per l’esecuzione delle opere all’ATI, costituita dalla NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE, dalla RAGIONE_SOCIALE, dalla RAGIONE_SOCIALE e dall’impresa COGNOME Giacomo.
Il contratto veniva stipulato il 10/5/1991.
In data 2/10/1993 veniva dichiarato il fallimento della RAGIONE_SOCIALE
A seguito dello scioglimento del contratto il curatore del fallimento RAGIONE_SOCIALE chiedeva ed otteneva dal presidente del tribunale di Palermo decreto ingiuntivo nei confronti dell’Assessorato per il pagamento di lire 2.376.494.620, pari alla differenza tra l’importo spettante di lire 6.000.756.494 320 e la somma già pagata dall’Assessorato pari a lire 4.380.000.000.
Ciò con riferimento ai lavori eseguiti prima della dichiarazione di fallimento
L’Assessorato proponeva opposizione a decreto ingiuntivo, osservando di avere già corrisposto la somma di lire 4.380.000.000 a titolo di previste anticipazioni del 5% e 10%, nonché di prima rata di acconto del 20% dell’importo della convenzione, avendo invece omesso di versare la seconda rata di acconto del 20% a causa di gravi irregolarità nell’esecuzione dell’appalto da parte della RAGIONE_SOCIALE, segnalate dalla commissione di collaudo ed emerse nel corso delle due visite effettuate dalla medesima cantiere.
Ciò aveva prodotto, ad avviso dell’Assessorato, un rilevantissimo danno economico, quantificabile «in una somma almeno pari al costo delle opere già comprese nella convenzione, che la RAGIONE_SOCIALE non aveva realizzato sin che era stata in bonis e che aveva dichiarato formalmente di non potere e volere realizzare».
L’Amministrazione eccepiva, dunque, «di essersi correttamente rifiutat di adempiere in applicazione del principio inadimplenti non
est adimplendum », proponendo anche domanda riconvenzionale di risarcimento del danno nei confronti del fallimento.
Il tribunale dichiarava improcedibile la domanda riconvenzionale, «che andava proposta mediante insinuazione al passivo fallimentare».
Accoglieva, con la sentenza definitiva, l’opposizione a decreto ingiuntivo, revocando lo stesso e respingendo la domanda della curatela.
Il tribunale, «qualificato il rapporto tra le parti come concessione di sola costruzione di opera pubblica, assimilabile all’appalto» (vedi sentenza di questa Corte n. 4616 del 6/3/2015), reputava che il rapporto si era sciolto per effetto della dichiarazione di fallimento dell’appaltatore, ai sensi dell’art. 81 l.f., con applicazione delle regole degli appalti di opere pubbliche.
Pertanto, il tribunale riteneva che «soltanto il collaudo e l’approvazione dell’opera da parte della stazione appaltante – nella specie invece mancanti – consente all’appaltatore di adire il giudice per la soddisfazione delle proprie pretese».
La Corte d’appello di Palermo, con la sentenza n. 1320 del 2006 depositata il 18/12/2006, confermava la decisione di primo grado, sia pure con diversa motivazione.
Reputava non necessario il collaudo, versandosi in fattispecie di scioglimento anticipato del rapporto, ma accoglieva «l’eccezione di inadempimento sollevata dall’amministrazione, osservando che tale eccezione non è necessariamente correlata alla conservazione del contratto, ma, traendo fondamento dalla interdipendenza delle reciproche obbligazioni delle parti contrattuali, consente al contraente, che non abbia ottenuto la prestazione cui ha diritto, di rifiutare quella di cui è debitore».
Pertanto, gli inadempimenti denunciati dall’Amministrazione appellata ed accertati dalla Corte di merito consistevano nella violazione delle prescrizioni «di eseguire indagini geognostiche e le verifiche geotecniche prima, e non dopo, il conferimento dell’appalto il che aveva comportato la necessità di varianti in corso d’opera che avevano fatto lievitare i costi e ritardare notevolmente l’esecuzione dei lavori, poi sospesi nel corso del mese di maggio 1993 -allorché risultava eseguito soltanto il 60% delle previsioni progettuali – a seguito dell’arresto del direttore dei lavori stessi nell’ambito di indagini penali che avevano rivelato un’illecita gestione del rapporto concessorio da parte dei funzionari della SIRAP».
Nelle more, veniva omologato il concordato fallimentare in data 7/5/2015, proposto dalla OPM. Il credito veniva ceduto alla RAGIONE_SOCIALE e successivamente in data 7/7/2020 alla RAGIONE_SOCIALE
Avverso la sentenza della Corte d’appello proponeva ricorso per cassazione il fallimento RAGIONE_SOCIALE
La Corte di cassazione, con sentenza n. 4616 del 6/3/2015, accoglieva i motivi secondo, terzo e settimo proposti dalla curatela fallimentare della RAGIONE_SOCIALE
La Corte d’appello aveva respinto la domanda di pagamento del corrispettivo dei lavori presentata dal fallimento, in accoglimento dell’eccezione di inadempimento dell’Assessorato .
La richiesta della curatela riguardava il pagamento «del corrispettivo dei lavori non già perché questi ultimi non fossero stati eseguiti, bensì perché erano stati eseguiti, in sostanza, con colpevole ritardo, aumento dei costi e conseguente danno per l’amministrazione committente».
Tuttavia -a giudizio di questa Corte -l’amministrazione committente «non poteva opporre l’eccezione di inadempimento, in forza della quale la domanda della curatela è stata respinta».
Chiariva la Corte che «l’art. 1460 c.c., che disciplina tale eccezione, prevede infatti non già l’estinzione, bensì soltanto la sospensione della prestazione della parte non inadempiente, in presenza di un inadempimento della controparte, nella prospettiva dell’esecuzione del contratto, alla quale l’eccezione serve appunto di stimolo».
Una volta però che il contratto «si sia sciolto, per qualsiasi causa, l’art. 1460 c.c. non può dunque essere invocato e trovano, invece, applicazione le norme che disciplinano gli effetti dello scioglimento».
Rimarcava in modo cristallino questa Corte che «nel caso in esame, secondo l’incensurata statuizione del giudice di merito, il contratto – pacificamente disciplinato secondo le regole dell’appalto di opera pubblica – si era sciolto per effetto della dichiarazione di fallimento della RAGIONE_SOCIALE».
Tale scioglimento «dell’appalto», anche di opera pubblica, per la dichiarazione di fallimento dell’appaltatore, ai sensi dell’art. 81 legge fallimentare, ha efficacia ex nunc », facendo salvi, cioè, gli effetti contrattuali già prodotti; con la conseguenza che all’appaltatore, e per esso al curatore fallimentare, spetta il corrispettivo maturato per le opere eseguite», «salvo ovviamente il risarcimento degli eventuali danni conseguenti – come dedotto nella specie dall’amministrazione committente -al ritardo o al non corretto adempimento dell’appaltatore stesso».
Per questa Corte, dunque, aveva «errato la Corte d’appello nel negare il diritto della SIRAP al corrispettivo in accoglimento dell’eccezione di inadempimento dell’Assessorato».
Restavano assorbiti gli ulteriori motivi.
10. La Corte d’appello di Palermo, in sede di rinvio, con la sentenza n. 1463/2021, depositata il 10/9/2021, accoglieva l’appello proposto dalla curatela del fallimento, rigettando l’opposizione a
decreto ingiuntivo proposta dall’Assessorato con atto di citazione del 16/10/1997.
10.1. La Corte territoriale, in particolare, per quel che ancora qui rileva, determinava la somma che l’Amministrazione regionale doveva all’RAGIONE_SOCIALE società cooperativa, «sulla base del corrispettivo dei lavori eseguiti dall’ATI aggiudicataria prima della dichiarazione di fallimento della RAGIONE_SOCIALE, senza considerare l’eccezione di inadempimento sollevata dall’Assessorato Regionale ex art. 1460 c.c.».
Prendeva posizione, anche, con riferimento all’affermazione contenuta nella sentenza di questa Corte per cui spettava il diritto alla curatela, ma «salvo ovviamente il risarcimento degli eventuali danni conseguenti al ritardo e al non corretto adempimento dell’appaltatore stesso».
Con tale inciso, infatti, per la Corte di secondo grado, in sede di rinvio, non si era demandato al giudizio di rinvio tale accertamento, essendosi sul punto pronunciato il tribunale, con sentenza non definitiva del 28/4/1998, divenuta irrevocabile, «dichiarando l’improcedibilità della domanda avanzata dall’Assessorato, onde ottenere il risarcimento dei danni, che l’inadempimento ascritto alla RAGIONE_SOCIALE gli avrebbe cagionato».
L’Assessorato avrebbe dovuto agire per ottenere il risarcimento dei danni nella competente sede fallimentare.
10.2. Per quel che ancora qui rileva, la Corte di merito condivideva le conclusioni del CTU che combaciavano con quelle del consulente tecnico d’ufficio nominato della procedura fallimentare, non avendo mosso l’amministrazione specifiche censure sull’importo dei lavori eseguiti dal raggruppamento di imprese, limitandosi «a eccepire le inadempienze della SIRAP.
Non doveva in alcun modo essere conteggiata la somma di lire 557.804.240, da addebitare al raggruppamento di imprese, per presunti ritardi nell’ultimazione dei lavori, a titolo di penale, «in mancanza di specifica contestazione.
10.3. Chiariva la Corte d’appello che doveva essere rigettata l’opposizione al decreto ingiuntivo, precisando che, a seguito del ritardato pagamento della somma ingiunta, «sono applicabili gli interessi di mora nella misura legale e non in quella prevista dall’art. 4 della L. n. 741/1981, come richiesto dall’OPM con l’atto di citazione in riassunzione».
Spiegava la Corte d’appello che risultava pacifico «che il rapporto contrattuale sorto a seguito della convenzione stipulata tra la RAGIONE_SOCIALE e l’Assessorato Regionale si configura come concessione di sola costruzione di opere pubbliche e, quindi, soltanto assimilabile al contratto di appalto di opera pubblica (a cui solamente si applicava, ratione temporis , il regime speciale gli interessi di cui alla legge n. 741/1981)».
10.4. La Corte di merito si soffermava anche sull’obbligo contrattuale dell’Assessorato di rimborsare il pagamento dell’Iva alla società appaltatrice e, dunque, alla curatela fallimentare, reputando però che l’aliquota da applicare era quella vigente al momento della stipulazione del contratto e non quella aggiornata del 22%.
Spiegava la Corte d’appello che «per quanto riguarda la richiesta di aggiornamento dell’aliquota Iva dovuta sui lavori eseguiti, poi, occorre rilevare che, secondo la convenzione stipulata con l’Assessorato , la RAGIONE_SOCIALE aveva diritto a ottenere da questi il rimborso di ogni costo (Iva compresa) connesso alla realizzazione dell’opera nei limiti dell’importo massimo stabilito, ragione per cui deve farsi riferimento alle somme che, allora, la società avrebbe dovuto pagare all’ATI sulla base dell’aliquota Iva al tempo vigente».
Aggiungeva il giudice di secondo grado che, ad ogni modo, «l’applicazione della nuova aliquota Iva sarebbe inammissibile, posto che la somma dovuta a tale titolo era stata già inglobata nell’importo richiesto con il decreto ingiuntivo, così segnando i limiti della relativa domanda».
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la NOME COGNOME quale cessionaria dei crediti già vantati da RAGIONE_SOCIALE, depositando anche memoria scritta.
Ha resistito con controricorso l’Assessorato Attività Produttive della Regione Sicilia.
CONSIDERATO CHE:
Anzitutto, si rileva la non fondatezza dell’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione sollevata dall’Assessorato Regionale per tardività.
È vero, infatti, che a pagina 7 del ricorso per cassazione la ricorrente ha dedotto «che la sentenza della Corte d’appello n. 1463/2021 del 10/9/2021 e il decreto ingiuntivo del tribunale di Palermo n. 634/1997 del 10/9/1997 sono stati notificati, spediti in forma esecutiva, a mezzo pec da sottoscritto difensore 27/12/2021 all’Assessorato attività produttive della regione siciliana, ai sensi e per gli effetti dell’art. 14 del decreto-legge 31/12/1996 n. 669».
Tuttavia, la notifica della sentenza impugnata della Corte d’appello è stata notificata non al difensore dell’Assessorato, ma alla parte, sicché non poteva decorrere il termine breve di 60 giorni.
In realtà, per questa Corte la notifica della sentenza in forma esecutiva alla parte presso il procuratore costituito è equivalente a quella eseguita al procuratore stesso ed è, pertanto, idonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione sia per il notificato che per il notificante, stante la comunanza del termine e a prescindere dalla posizione (di parte vincitrice o soccombente), rivestita con
riferimento all’esito del precedente giudizio; né assume rilievo la qualità di Amministrazione dello Stato del ricevente, cui il titolo esecutivo può essere notificato in persona del legale rappresentante, restando circoscritta all’attività giudiziaria la funzione di rappresentanza e domiciliazione legale delle Pubbliche Amministrazioni in capo all’Avvocatura dello Stato (Cass., sez L, 2/4/2009, n. 8071; Cass., sez. 6-2, 3/3/2015, n. 4260; Cass., sez. 1, 27/10/2016, n. 21734).
Nella specie, invece, la notifica è stata effettuata all’Assessorato attività produttive della regione siciliana, ma non al difensore della stessa, non essendo stata notificata all’Avvocatura dello Stato che ha difeso l’Assessorato in sede d’appello.
Questa Corte, a sezioni unite, ha chiarito che, a garanzia del diritto di difesa della parte destinataria della notifica in ragione della competenza tecnica del destinatario nella valutazione dell’opportunità della condotta processuale più conveniente da porre in essere ed in relazione agli effetti decadenziali derivanti dall’inosservanza del termine breve di impugnazione, la notifica della sentenza finalizzata alla decorrenza di quest’ultimo, ove la legge non ne fissi la decorrenza diversamente o solo dalla comunicazione a cura della cancelleria, deve essere in modo univoco rivolta a tale fine acceleratorio e percepibile come tale dal destinatario, sicché essa va eseguita nei confronti del procuratore della parte o della parte presso il suo procuratore, nel domicilio eletto o nella residenza dichiarata; di conseguenza, la notifica alla parte, senza espressa menzione nella relata di notificazione – del suo procuratore quale destinatario anche solo presso il quale quella è eseguita, non è idonea a far decorrere il termine breve di impugnazione, neppure se eseguita in luogo che sia al contempo sede di una pubblica amministrazione, sede della sua avvocatura interna e domicilio eletto per il giudizio,
non potendo surrogarsi l’omessa indicazione della direzione della notifica al difensore con la circostanza che il suo nominativo risulti dall’epigrafe della sentenza notificata, per il carattere neutro o non significativo di tale sola circostanza (Cass., Sez. U., 30/9/2020, n. 20866).
1.1. Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) – Violazione e/o falsa applicazione degli articoli 324, 329, 383, 384 e 394 c.p.c. e degli articoli 112, 115 e 116 c.p.c., nonché dei principi di diritto in tema di elementi costitutivi della cosa giudicata – Nullità della sentenza o del procedimento (art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.».
In particolare, per la ricorrente il giudice del rinvio non può prendere in esame questioni sulle quali la Corte di legittimità si è già espressa con la formazione del giudicato interno.
Questa Corte, con la sentenza n. 4616 del 2015, ad avviso della ricorrente, ha già qualificato il rapporto negoziale intercorso tra le parti come contratto di appalto.
La Corte di merito, invece pur avendo ritenuto che il contratto in oggetto fosse un contratto di appalto anche di opera pubblica, ha poi però ritenuto, in modo contraddittorio, che risultava pacifico che tale rapporto si configurasse «come concessione di sola costruzione di opere pubbliche e, quindi, soltanto assimilabile al contratto di appalto di opera pubblica «a cui solamente si applicava, ratione temporis, il regime speciale degli interessi di cui alla legge n. 741/1981».
Tuttavia, la Corte territoriale, pur essendo stato accertato definitivamente dalla Corte di cassazione che si trattava di contratto d’appalto, ha reputato non applicabili gli interessi di cui all’art. 4 della
legge n. 741 del 1981, ritenendo pacifico trattarsi di concessione di sola costruzione di opere pubbliche.
Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) – Violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2, 3, 4, 6 e 16 legge 10/12/1981 n. 741 – Violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 253 e 256 d.lgs. 12/4/2006 n. 163, dell’art. 232 del d.P.R. 21/12/1999 n. 554, dell’art. 357 del d.P.R. 5/10/2010 n. 207 e successive modifiche ed integrazioni – Violazione e/o falsa applicazione del RDL 12/3/1936 n. 375 e successive modificazioni – Violazione e/o falsa applicazione dei D.M. 8/10/1991 (in GURI n. 271 del 19/11/1991) e D.M. 25/10/1993 (in GURI 259 del 4/11/1996) – Violazione e/o falsa applicazione degli articoli 112, 113, 115 e 116 c.p.c. – Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.) – Nullità della sentenza o del procedimento (art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.)».
La Corte d’appello ha ritenuto che il contratto oggetto del contenzioso è un contratto di appalto anche di opera pubblica, salvo poi ritenere in modo contraddittorio, che risultava pacifico che il rapporto integrasse in realtà una «concessione di sola costruzione di opere pubbliche», con impossibilità di applicazione della normativa sugli interessi di cui alla legge n. 741 del 1981.
La Corte d’appello ha dunque falsamente applicato le norme della legge regionale Sicilia n. 21 del 1985, come pure della legge n. 741 del 1981.
Sin dal ricorso per decreto ingiuntivo il fallimento RAGIONE_SOCIALE aveva chiesto il pagamento «degli interessi come per legge».
In comparsa conclusionale nel giudizio dinanzi al tribunale aveva chiesto «il pagamento degli interessi di legge maturati e maturandi, anche nella misura prevista dalla direttiva 2000/35/CE del 9/6/2000».
Nel primo giudizio d’appello, nell’atto introduttivo il fallimento aveva dedotto che «sull’importo dovuto dall’Assessorato, la RAGIONE_SOCIALE, e oggi fallimento RAGIONE_SOCIALE ha diritto agli interessi per il ritardato pagamento nella misura prevista dall’art. 4 della legge 10/12/1981, n. 741, applicabile in Sicilia per il richiamo contenuto nell’art. 32 della legge regionale Sicilia 29/4/1985, n. 21».
La medesima domanda era stata presentata con la comparsa conclusionale del primo giudizio di appello.
Anche nel giudizio di cassazione il fallimento con il settimo motivo di ricorso «ha censurato l’omessa pronuncia sulla questione degli interessi per il ritardato pagamento nella misura prevista dall’art. 4 della legge n. 741 del 1981».
Analoga richiesta è stata formulata nel giudizio di rinvio dinanzi alla Corte di merito ove si è ribadito che la SIRAP e l’OPM avevano «diritto agli interessi per ritardato pagamento nella misura prevista dall’art. 4 della legge 10/12/1981 n. 741, applicabile ratione temporis in Sicilia per il richiamo contenuto nell’art. 2 della legge Regione Sicilia 29/4/1985 n. 21».
Del resto, gli interessi di mora di cui al combinato disposto della legge Regione Sicilia n. 21 del 1985 e della legge n. 741 del 1981, pur essendo stati soppressi dall’art. 256 del d.lgs. 12/4/2006 n. 163, continuano a trovare applicazione ragione delle varie discipline transitorie susseguitesi negli anni.
I primi due motivi, che vanno affrontati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono infondati.
3.1. È evidente, infatti, che questa Corte, con la sentenza n. 4616 del 6/3/2015, ha confermato la qualificazione giuridica data alla Convenzione da parte dei giudici di merito, che hanno fatto riferimento ad una concessione di sola costruzione («concessione di sola costruzione di opera pubblica, assimilabile all’appalto») e non ad un vero e proprio contratto di appalto.
Questa Corte ha, infatti, affermato che «nel caso in esame, secondo l’incensurata statuizione dei giudici di merito, il contratto pacificamente disciplinato secondo le regole dell’appalto di opera pubblica – si era sciolto per effetto della dichiarazione di fallimento della RAGIONE_SOCIALE. Lo scioglimento dell’appalto, anche di opera pubblica, per la dichiarazione di fallimento dell’appaltatore, ai sensi dell’art. 81 l.f., ha efficacia ex nunc , fa salvi, cioè, gli effetti contrattuali già prodottisi, e dunque l’appaltatore -e per esso al curatore fallimentare – spetta il corrispettivo maturato per le opere eseguite».
Di qui, l’inapplicabilità degli interessi nella misura prevista dall’art. 4 della legge 10/12/1981, n. 741.
Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la «violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) – Violazione e/o falsa applicazione del d.P.R. n. 633 del 1972 – Violazione e/o falsa applicazione degli articoli 112,113,115,116 c.p.c. – Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.)».
La Corte di merito ha ritenuto, con riguardo all’individuazione dell’aliquota Iva da applicare, in ordine ai lavori eseguiti, che occorre fare riferimento alla convenzione stipulata con l’Assessorato, in base alla quale la RAGIONE_SOCIALE aveva diritto ad ottenere dall’amministrazione il rimborso di ogni costo, Iva compresa, connesso alla realizzazione dell’opera nei limiti dell’importo massimo stabilito.
Pertanto, per la Corte d’appello l’aliquota Iva era individuata in quella «al tempo vigente» pari al 19%.
Applicare l’aliquota in relazione al momento del pagamento delle prestazioni da parte dell’Amministrazione, e quindi nella misura del 22 %, non sarebbe stato corretto e anzi inammissibile «posto che la somma dovuta a tale titolo era stata già inglobata nell’importo richiesto con il decreto ingiuntivo, così segnando i limiti della relativa domanda».
Per la ricorrente, invece, tale pronuncia sarebbe errata.
La Corte di cassazione ha affermato il principio per cui per le cessioni allo Stato e agli enti pubblici «il fornitore versa l’imposta quando incassa il corrispettivo dall’ente pubblico» e nella specie «l’importo oggetto della condanna della sentenza impugnata non è ancora stato incassato».
Troverebbe applicazione dunque l’art. 6, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, per il quale, l’imposta relativa alle cessioni di beni ed alle prestazioni di servizi diviene esigibile nel momento in cui le operazioni si considerano effettuate e l’imposta è versata con le modalità e nei termini stabiliti. Tuttavia, per le cessioni allo Stato e agli organi dello Stato, agli enti pubblici territoriali, l’imposta «diviene esigibile all’atto del pagamento dei relativi corrispettivi».
Ciò al fine di porre il cedente il più possibile al riparo dai ritardi ed agli altri impedimenti dell’esecuzione dei pagamenti.
Pertanto, ad avviso della ricorrente, l’Iva è dovuta dall’Assessorato al momento del pagamento, non ancora eseguito, sulla base dell’aliquota vigente, pari al 22%, e non dell’aliquota del 19%, prevista al tempo della convenzione.
Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) – Violazione e/o falsa applicazione degli articoli
345, primo comma, c.p.c. e 394 c.p.c. – Violazione e/o falsa applicazione del d.P.R. n. 633 del 1972 – Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.) – Nullità della sentenza o del procedimento (art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.)».
Per la ricorrente, poiché l’art. 345, primo comma, c.p.c. prevede che nel giudizio d’appello possono domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, «tra gli accessori è certamente ricompreso l’adeguamento dell’Iva verificatosi dopo la sentenza di primo grado».
6. Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la «violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) – Violazione e/o falsa applicazione del d.P.R. n. 633 del 1972 – Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 183 c.p.c. – Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. – Nullità della sentenza o del procedimento (art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.)».
La ricorrente deduce che nel corso dei diversi gradi di giudizio ha sempre chiesto l’applicazione dell’aliquota Iva sul credito vantato «sulla base delle modifiche ad essa apportate nel tempo».
La Corte d’appello, invece, ha ritenuto che l’applicazione della nuova aliquota Iva sarebbe inammissibile in quanto la somma dovuta a titolo di Iva «era stata già inglobata nell’importo richiesto con il decreto ingiuntivo, così segnando i limiti della relativa domanda».
Per il giudice d’appello, dunque, la richiesta di applicazione dell’aliquota Iva in vigore, dovuta per legge, costituirebbe «una inammissibile emendatio libelli ».
In realtà, la ricorrente deduce di essersi limitata a chiedere l’aggiornamento dell’Iva con riguardo alla diversa aliquota modificata nel corso del giudizio, dal 19%, al 20%, a 21% e poi al 22%.
Il terzo, il quarto e il quinto motivo, che vanno trattati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono infondati.
7.1. Deve muoversi dalla considerazione per cui nell’art. 7 della convenzione accessiva del 18/1/1999 si è previsto che il prezzo complessivo dell’appalto era di lire 13.680.000.000,00
Si legge, infatti, nell’art. 7 citato, ritualmente trascritto dalla ricorrente che «per assicurare la realizzazione dell’opera è fisso ed invariabile ed ammonta a lire 13.680.000.000 come dal seguente conteggio: d) importo per Iva lire 1.819.321.725».
Tale somma, in base agli accordi contrattuali, doveva dunque essere sostenuta dall’Assessorato Regionale.
Ed infatti, nell’art. 7 della convenzione si chiariva che tale importo «comprende e compensa il costo dei lavori delle forniture, delle spese generali, dell’Iva e di ogni altro onere finanziario comunque preordinato conseguente o connesso alla realizzazione dell’opera».
Nell’art. 7 si chiariva anche che «la società espressamente riconosce e dichiara che l’importo globale forfettario di convenzione comprende compensa l’IVA nelle percentuali di legge».
Tuttavia, in data 24/3/1993 l’ispettorato regionale tecnico rilevava la necessità della perizia di variante e suppletiva da parte del comitato tecnico amministrativo regionale. Veniva dunque approvata la perizia di variante e suppletiva, all’adunanza del 16/9/1993 del CTAR, lasciando immutata la somma finale pari a lire 13.680.000.000, ma modificando l’importo per Iva e portandolo a lire 1.921.905.198.
Pertanto, pur modificandosi l’importo per l’Iva, restava immutata la somma finale.
7.2. Trova qui applicazione l’art. 3 del d.P.R. n. 633 del 1972, a mente del quale «costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni
verso corrispettivo dipendenti da contratto d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione .
Ai sensi dell’art. 6, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, «l’imposta relativa alle cessioni di beni ed alle prestazioni di servizi diviene esigibile nel momento in cui le operazioni si considerano effettuate secondo le disposizioni dei commi precedenti».
Si chiarisce, però, che «per le cessioni fatte allo Stato , agli organi dello Stato ancorché dotati di personalità giuridica, agli enti pubblici territoriali e ai consorzi l’imposta diviene esigibile all’atto del pagamento dei relativi corrispettivi, salva la facoltà di applicare le disposizioni del primo periodo».
Si è chiarito, sul punto, che in tema di Iva, nel caso di cessioni allo Stato ed agli enti pubblici previsti dall’art. 6, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, il termine per il versamento dell’imposta decorre dalla data di effettivo incasso del corrispettivo da parte del cedente e non da quella di emissione del mandato di pagamento o del bonifico bancario da parte del cessionario: tale disciplina di favore è volta, infatti, a tutelare coloro che contrattano con soggetti pubblici, ponendoli al riparo da eventuali ritardi nell’effettuazione dei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione (Cass., sez. 5, 5/10/2018, n. 24454).
La ratio legis é quella di costituire una norma di favore per chi contratta con soggetti pubblici specificamente individuati; si vuole porre il cedente «il più possibile al riparo dai ritardi ed agli altri impedimenti nell’esecuzione dei pagamenti che la normativa contabile degli enti pubblici cessionari può talvolta comportare, alla fine di evitare che il primo debba fatturare l’operazione e pagare l’imposta relativa fin dal momento della consegna o spedizione, mentre l’incasso del corrispettivo potrebbe intervenire a notevole
distanza di tempo (Cass. n. 24454 del 2018; Cass. n. 20540 del 22/9/2006).
Tale ratio legis peraltro si pone in conformità con la linea della commissione UE che, in attuazione della direttiva n. 2011/7/UE del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, persegue con molto rigore una politica di riduzione dei tempi di adempimento della pubblica amministrazione.
7.3. Inoltre, la lettura dell’art. 6, terzo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 («le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo»), secondo questa Corte, a sezioni unite, confligge con la disciplina comunitaria dell’Iva (Cass., sez. un., 21 aprile 2016, n. 8059).
Deve, dunque, operarsi una distinzione in relazione all’Iva tra tre diversi momenti, in cui però il secondo ed il terzo coincidono: a) quello del ‘fatto generatore’ dell’imposta e, quindi, l’evento che costituisce l’origine dell’obbligazione tributaria e l’imponibilità ai fini Iva, cui si ricollegano l’operatività della disciplina del tributo ed i relativi effetti; b) quello dell”esigibilità’ dell’imposta e, quindi, dell’attitudine attuale dell’imposta ad essere pretesa in riscossione da parte dell’Erario; c) quello, infine, del ‘pagamento’.
Il ‘fatto generatore’ dell’imposta, quale nozione autonoma e distinta, sul piano concettuale, rispetto a quella di ‘esigibilità’ dell’imposta medesima, deve essere ancorato al dato del materiale espletamento dell’operazione (cessione del bene o prestazione del servizio), non a quello del pagamento del corrispettivo (Corte giust. 19 dicembre 2012, in causa C-549/11).
Le direttive unionali puntualizzano che il fatto generatore dell’imposta si identifica con l’effettuazione della cessione di beni oppure con quella della prestazione di servizi, il cui verificarsi
determina, ‘di regola’, anche l’esigibilità dell’imposta. Tuttavia, i due momenti, ‘fatto generatore dell’imposta’ ed ‘esigibilità’ possono anche non coincidere.
In tema di Iva, in base alla disciplina unionale, il momento del fatto generatore dell’imposta, cioè dell’evento che origina l’obbligazione tributaria e l’imponibilità ai fini Iva, il quale rileva ai fini della individuazione del periodo di competenza ex art. 109 del d.P.R. n. 917 del 1986, deve essere distinto dal momento del pagamento e della esigibilità dell’imposta, e cioè dell’attitudine attuale dell’imposta ad essere pretesa in riscossione dall’Erario, e che si concretizza all’atto del pagamento del corrispettivo. Tali momenti, pur di regola coincidenti, ove temporalmente scissi devono essere tenuti distinti, sicché nell’ipotesi in cui il committente abbia esercitato il recesso dal contratto di appalto ex art. 1671 c.c., con conseguente scioglimento anche del contratto derivato di subappalto, è onere del contribuente, in caso di pagamenti non contabilizzati (in nero), fornire, non la “prova contraria del fatto negativo”, ossia dimostrare la mancata ricezione del pagamento, ma la “prova positiva contraria”, consistente nei vani tentativi di riscuotere il proprio credito o nella allegazione delle ragioni della rinuncia (Cass., sez. 5, 21/10/2021, n. 29485).
7.4. Nella specie, dunque, poiché in base all’accordo contrattuale il pagamento dell’Iva doveva gravare, in ultima istanza, sull’Assessorato Regionale, quale costo delle prestazioni effettuate, l’applicabilità dell’art. 6, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, laddove prevede che l’Iva diventi esigibile, per le prestazioni fatte allo Stato, all’atto del pagamento dei relativi corrispettivi, dovrebbe comportare che l’aliquota Iva sia quella vigente al momento del pagamento dei corrispettivi e, quindi, quella attuale.
7.5. Tuttavia, risulta maggiormente accreditata la tesi per cui l’art. 6, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, comporta che per le suddette operazioni (cessione in favore dello Stato o di altri enti pubblici) è stata differita l’esigibilità dell’imposta restando inalterato il momento di effettuazione dell’operazione. Le fatture vanno emesse e annotate nei termini previsti dagli articoli 21 e 23 mentre l’imposta, con l’aliquota vigente all’atto dell’effettuazione dell’operazione (consegna del bene, emissione della fattura, stipula del contratto), va contabilizzata a debito quando viene pagato il corrispettivo. In tal modo le operazioni concorrono alla determinazione del volume d’affari nell’anno in cui l’operazione viene effettuata, mentre il versamento dell’imposta avviene nel periodo del pagamento.
Con il corollario che il differimento del termine di contabilizzazione del debito d’imposta in favore del cedente e del prestatore si trasforma in un rinvio della detrazione a carico del cessionario e del committente, i quali dovranno attendere il pagamento del corrispettivo per poter recuperare l’imposta.
Ovviamente coloro che forniscono beni e servizi ai predetti enti possono rinunciare al rinvio del pagamento dell’imposta attenendosi alle regole generali. In tal caso i prestatori devono porre sulle fatture in questione una delle due seguenti annotazioni: ‘Iva ad esigibilità immediata’ ovvero ‘Iva ad esigibilità differita’. In mancanza di alcuna annotazione, la circolare n. 328 del 24 dicembre 1997 attribuisce prevalenza al differimento dell’esigibilità.
7.6. Peraltro, da un lato, deve evidenziarsi che la Corte di merito ha correttamente ritenuto che, in base alla convenzione, la RAGIONE_SOCIALE avesse diritto ad ottenere il rimborso dall’Assessorato di ogni costo (compresa l’IVA), ma «nei limiti dell’importo massimo stabilito», per cui «deve farsi riferimento alle somme che, allora, la società avrebbe dovuto pagare all’ATI sulla base dell’aliquota al tempo vigente».
7.7. Dall’altro, la Corte d’appello ha condivisibilmente ritenuto che la somma dovuta era stata già inglobata nell’importo richiesto con il decreto ingiuntivo.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico della ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente a rimborsare in favore del controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 15.000,00, oltre spese prenotate a debito, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15 %, oltre Iva e CPA.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio nella camera di