Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 3550 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 3550 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 07/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6515/2023 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (EMAIL) che lo rappresenta e difende, giusta procura speciale in calce al ricorso, unitamente all’avvocato COGNOME NOME.
–
ricorrente – contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in RomaINDIRIZZO INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME, che la rappresenta e difende con gli avvocati COGNOME NOME NOMEEMAIL) e COGNOME NOME
(EMAIL), giusta procura speciale in calce al controricorso.
–
contro
ricorrente – avverso la sentenza della Corte d’Appello di Venezia n. 2260/2022 depositata il 17/11/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25/10/2023 dal Consigliere dr.ssa NOME COGNOME.
Rilevato che
In data 31.10.2016 veniva risolto per morosità di RAGIONE_SOCIALE il contratto di locazione dell’immobile, composto di tre piani e sito in Verona, di proprietà di COGNOME NOME e COGNOME NOME, prima sottoscritto con RAGIONE_SOCIALE e poi ceduto dalla stessa COGNOME, unitamente all’azienda di affittacamere, a RAGIONE_SOCIALE, la quale , contestualmente alla risoluzione, comunicava al SUAP la cessazione definitiva della attività nel predetto immobile e chiedeva la cancellazione della registrazione.
Rientrate nel possesso dell’immobile, le proprietarie COGNOME e COGNOME lo concedevano in locazione a RAGIONE_SOCIALE; successivamente RAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE, con atto datato 20 giugno 2017 e denominato ‘atto di affitto di ramo d’azienda’ concedeva in godimento alla ditta RAGIONE_SOCIALE le sei stanze ammobiliate del primo e il secondo piano del fabbricato, perché ivi NOME potesse esercitare l’attività ricettiva complementare ad uso turistico. Il contratto aveva la durata di un anno con rinnovo di anno in anno, salvo disdetta da comunicarsi due mesi prima della scadenza. NOME eseguiva nel fabbricato alcuni lavori per renderlo idoneo all’esercizio imprenditoriale e poi iniziava l’attività.
Nel corso del rapporto, le proprietarie COGNOME e COGNOME
trasformavano, a loro cura e spese, il terzo piano del fabbricato, non concesso in godimento a NOME, in due mini-locali arredati con cucina e, poiché i locali non potevano essere integrati nel contratto del 20 giugno 2017, RAGIONE_SOCIALEi.sa e NOME stipulavano in data 18 giugno 2018 un altro contratto, sempre denominato ‘affitto di ramo d’azienda’, nel quale si dava atto che – a seguito di lavori eseguiti all’interno dell’immobile dalle legittime proprietarie – era stata rideterminata la capacità ricettiva, con la variazione dell’ubicazione delle singole camere e con l’incremento dei posti letto. Nel contratto si ribadiva che l’attività continuava ad essere esercitata nelle stanze poste al primo e secondo piano e che la durata era di un anno, con rinnovo di anno in anno, salvo disdetta da comunicarsi due mesi prima della scadenza.
Peraltro, avendo le proprietarie acquisito l’autorizzazione amministrativa per l’esercizio dell’attività anche nel terzo piano, in data 18 giugno 2018, con contratto definito ‘contratto di affitto di ramo d’azienda’, RAGIONE_SOCIALE concedeva in godimento a COGNOME NOME le due unità abitative ammobiliate poste al terzo piano, ove esercitare l’attività per la durata di un anno, con rinnovo di anno in anno.
Dopo tre anni di attività esercitata da NOME e due anni di attività esercitata da COGNOME NOME, RAGIONE_SOCIALE comunicava la disdetta dei contratti per finita locazione, con l’invito alla riconsegna del fabbricato.
Con ricorso ex art. 447bis cod. proc. civ. NOME COGNOME esponeva avanti al Tribunale di Verona: che con contratto NUMERO_DOCUMENTO definito ‘contratto di affitto di ramo d’azienda’, RAGIONE_SOCIALE aveva concesso ‘in affitto’ ad essa impresa attrice il ramo di azienda commerciale per l’esercizio dell’attività ricettiva complementare ad uso turistico composto da un immobile di dieci camere sito in Verona; che RAGIONE_SOCIALE aveva la disponibilità di tale bene in forza di contratto di
locazione commerciale sottoscritto con COGNOME NOME e COGNOME NOME, con la precisazione che l’attività andava svolta solo in sei camere, site al primo e secondo piano dell’immobile; che il contratto aveva durata di un anno, automaticamente rinnovabile di anno in anno in mancanza di disdetta; che al momento della consegna le caratteristiche dell’immobile non erano adeguate per lo svolgimento dell’attività alberghiera; che NOME aveva sostenuto diverse spese per rendere possibile lo svolgimento dell’attività d’impresa; che nel febbraio 2018 le proprietarie dell’immobile avevano trasformato le tre camere del terzo piano (non concesse in locazione a NOME) in due mini-locali; che a causa di tali lavori NOME aveva sospeso la propria attività; che, nonostante ciò, RAGIONE_SOCIALEi.sa aveva preteso il pagamento di detta mensilità; che in data 18 giugno 2018 RAGIONE_SOCIALEi.sa aveva preteso la stipula di un nuovo contratto denominato ‘atto modificativo di contratto di affitto di ramo d’azienda’, nel quale era stata rideterminata la capacità ricettiva a seguito dei lavori eseguiti; che il 3 aprile 2020 RAGIONE_SOCIALE aveva comunicato la disdetta con l’invito a riconsegnare l’immobile entro il 30 giugno 2020; che RAGIONE_SOCIALE aveva manifestato la volontà di rinunciare ai canoni per i mesi di aprile, maggio e giugno se fosse stata anticipata la riconsegna entro il mese di aprile; che COGNOME NOME, legale rappresentante di NOME, e COGNOME NOME (affittuario della porzione al terzo piano dello stesso immobile), dopo aver liberato l’immobile e disattivato le utenze, si erano recati presso lo studio della persona autorizzata a ricevere le chiavi, la quale tuttavia si era rifiutata di riceverle, pretendendo la sottoscrizione di un documento a chiusura di rapporto di dare ed avere; che RAGIONE_SOCIALE aveva accettato la restituzione delle chiavi solo in data 30 giugno 2020, con impegno di NOME di eseguire alcuni lavori.
6.1 Sosteneva che, al di là del nomen iuris , non si trattava di
affitto d’azienda, bensì di contratto di locazione commerciale di immobile con pertinenze, come dimostrato anche dal fatto che non vi era alcuna attività produttiva in atto; che, di conseguenza, essa conduttrice aveva diritto, ai sensi dell’art. 34 l. 392/78 , all’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale; che aveva inoltre diritto al rimborso delle spese sostenute per rendere l’immobile idoneo all’esercizio dell’attività alberghiera, alla restituzione del canone relativo a febbraio 2018 ed alla restituzione del deposito cauzionale.
6.2 Chiedeva quindi che il contratto 20 giugno 2017 e il successivo atto modificativo del 18 giugno 2018 fossero qualificati come contratti di locazione di immobile ovvero che fosse accertata la natura simulatoria di detti contratti. Chiedeva altresì la condanna di RAGIONE_SOCIALE al pagamento dell’indennità di avviamento, alla restituzione del deposito cauzionale, del canone di locazione del mese di febbraio 2018 e degli esborsi sostenuti per rendere l’immobile idoneo all’attività alberghiera.
6.3 Si costituiva resistendo RAGIONE_SOCIALEi.sa e chiedendo, in via riconvenzionale, la condanna dell’attrice al pagamento di somme, al netto della cauzione trattenuta, a titolo di canoni non corrisposti e spese di ripristino.
Con sentenza dell’8 marzo 2022 il Tribunale di Verona così provvedeva: ‘1. Dichiara tenuta e condanna parte attrice al pagamento in favore di parte convenuta della somma di € 2.396,71 (oltre IVA ove dovuta come per legge) per le causali di cui in parte motiva; 2. rigetta ogni ulteriore e diversa domanda ‘, anche condannando parte attrice alla refusione delle spese di lite in favore di parte convenuta, ed a fondamento di tale decisione osservava che: 1) era infondato l’assunto di parte attrice secondo cui nel caso di specie si versava in una ipotesi di locazione di immobile ad uso alberghiero; 2) invero le parti, sia nel contratto del 20 giugno 2017 che nel successivo del 18 giugno 2018,
avevano espressamente manifestato la volontà di qualificare il rapporto come affitto di ramo d’azienda; 3) anche in sede esecutiva le parti si erano comportate in conformità alla disciplina contrattuale prescelta; 4) la natura del contratto come affitto d’azienda era confermata dagli allegati B e C del contratto, comprovanti che si trattava di un insieme di strumenti coordinati ed organizzati alla specifica destinazione produttiva pattuita; 5) la asserita natura simulata del contratto era esclusa dalla completa esecuzione, da entrambe le parti, di tutte le previsioni contrattuali, comprese quelle riferibili unicamente allo schema negoziale specificamente prescelto; 6) non poteva trovare applicazione la previsione di cui all’art. 1, comma 9 septies , D.L. 12/1985, in quanto già in precedenza nell’immobile era stata esercitata attività d’impresa prima tramite la società RAGIONE_SOCIALE e poi tramite le società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE; 7) peraltro l’attività imprenditoriale in parola non era di tipo alberghiero, bensì di natura ricettiva ‘extra -alberghiera’; 8) non era quindi dovuta l’indennità di avviamento; 9) l’immobile era stato riconsegnato in data 30 giugno 2020, mentre prima vi era stata solo un’offerta per iscritto delle chiavi, per cui erano dovute le mensilità fino a tale data; 10) inoltre al momento della riconsegna la conduttrice aveva riconosciuto alcuni obblighi di ripristino, ai quali aveva però provveduto RAGIONE_SOCIALEi.sa come da preventivo di spesa prodotto in atti e non specificamente contestato; 11) gli interventi indicati dall’attrice rientravano in gran parte nelle obbligazioni manutentive a suo carico; 12) operata la compensazione fra le reciproche poste debitorie, rimaneva un credito di RAGIONE_SOCIALEi.sa nei confronti di NOME.
Avverso tale sentenza RAGIONE_SOCIALE proponeva appello e chiedeva, in riforma dell’impugnata sentenza, l’accoglimento delle sue domande tutte già proposte in primo
grado.
Si costituiva resistendo l’appellata.
Con sentenza n. 2260/2022 del 17/11/2022 la Corte d’Appello di Venezia, in solo parziale accoglimento dell’appello, dichiarava non dovuto dall’appellante NOME il pagamento dei ripristini indicati nel preventivo prodotto da RAGIONE_SOCIALEsa e per l’effetto rideterminava i rapporti di dare/avere tra le parti, con condanna di RAGIONE_SOCIALE al pagamento di una minima somma a favore di NOME, mentre, per le restanti domande proposte da quest’ultima, confermava la sentenza impugnata che le aveva rigettate.
Avverso tale sentenza NOME propone ora ricorso per cassazione, affidato a sedici motivi.
Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE
La trattazione del ricorso è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis .1, cod. proc. civ.
Il PM non ha depositato conclusioni.
Parte ricorrente e parte resistente hanno depositato memorie illustrative.
Considerato che
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 132, n. 4, cod. proc. civ., dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. e dell’art. 111 della Costituzione, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ.
Deduce che la sentenza impugnata è nulla per violazione dell’art. 132, n. 4, cod. proc. civ., dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. e dell’art. 111 della Costituzione, perché ha affermato che non vi era stata una netta cesura tra l’azienda di RAGIONE_SOCIALE e quella di NOME, che la cessazione di una attività non significa anche la dissoluzione di un’azienda e che la struttura aziendale di RAGIONE_SOCIALE era rimasta inalterata, senza indicare né rendere
comprensibili le norme e i princìpi di diritto che intendeva applicare a fondamento di siffatta motivazione.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 2495 cod. civ. in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.
Critica la sentenza impugnata là dove ha affermato che la cessazione dell’attività non significa dissoluzione dell’azienda, che vi era stata continuità tra l’azienda di RAGIONE_SOCIALE e quella di RAGIONE_SOCIALE prima e di RAGIONE_SOCIALE poi e che la struttura aziendale di RAGIONE_SOCIALE era rimasta inalterata ; sostiene che così motivando la sentenza è nulla per violazione dell’art. 2495 cod. civ., perché la cessazione dell’attività di un’azienda e la cancellazione della società nel registro delle imprese, comporta l’estinzione della società, con la dissoluzione di tutti i suoi elementi costitutivi.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 2556 cod. civ. in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.
Critica la sentenza impugnata là dove ha affermato genericamente che ‘Ver .i.sa era subentrata nella gestione dell’azienda di RAGIONE_SOCIALE‘ (pagina 28 della sentenza) e sostiene che così motivando la sentenza è nulla per violazione dell’art. 2556 cod. civ., in quanto il subingresso (o subentro) per atto tra vivi in una attività aziendale consiste nel trasferimento di gestione o titolarità di una azienda da un soggetto ad altro soggetto e può verificarsi solo nelle forme di cui all’art. 2556 cod. civ., dunque essendo subordinato ad un idoneo titolo di acquisizione dell’attività in forma scritta, titolo che, nella specie, è invece del tutto mancante.
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 132, comma 1, n. 4, cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ.
Lamenta che la sentenza impugnata, oltre ad aver violato gli
artt. 2495 e 2556 cod. civ., è nulla nella motivazione per violazione dell’art. 132, n. 4, cod. proc. civ., perché non ha esposto in maniera trasparente e con adeguati passaggi logici e giuridici le ragioni da cui trarre il convincimento che RAGIONE_SOCIALE era subentrata nella gestione dell’azienda di RAGIONE_SOCIALE, che l’azienda di quest’ultima, nonostante la sua estinzione, era giunta inalterata a RAGIONE_SOCIALE e che la mancata apertura al pubblico da parte di RAGIONE_SOCIALE era ininfluente.
Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 1 comma 9 septies della legge 5 aprile 1985, n. 118, in relazione all’art. 360, n. 3 cod. proc. civ.
Deduce che la sentenza impugnata è nulla per violazione della suindicata disposizione normativa, per avere qualificato il contratto stipulato tra RAGIONE_SOCIALE e NOME come affitto di azienda e non, invece, come contratto di locazione di immobile, atteso che l’attività era stata svolta ex novo da NOME dopo che l’azienda di RAGIONE_SOCIALE si era estinta ed atteso che RAGIONE_SOCIALE non aveva mai esercitato alcuna attività imprenditoriale nell’immobile.
Con il sesto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 52 , comma 2, d. lgs. 23 maggio 2011, n. 79, dell’art. 27 della legge 1978/392, dell’art. 1786 cod. civ., e dell’art. 1, comma 9 septies , della legge 5 aprile 1985, n. 118, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.
Deduce che la sentenza impugnata è nulla per avere escluso l’applicabilità al caso di specie dell’art. 1, comma 9 septies , della legge 5 aprile 1985, n. 118, sul presupposto che l’attività di affittacamere è considerata attività extralberghiera e non alberghiera, quando invece l’attività di affittacamere, svolta in maniera imprenditoriale, nei rapporti tra concedente e concessionario dell’immobile è equiparata all’attività alberghiera ai sensi dell’art. 52, comma 2, d.lgs. 23 maggio 2011, n. 79, dell’art. 27 della legge 1978/392 e dell’ art. 1786 cod. civ.
Con il settimo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 113 comma 1 cod. proc. civ., 817 cod. civ. e 2555 cod. civ.
Deduce che, indipendentemente dall’applicabilità della legge 5 aprile 1985, n. 118, RAGIONE_SOCIALEi. sa non ha affittato un’azienda organizzata nei suoi elementi costitutivi, ma ha concesso in locazione un immobile arredato.
Con l’ottavo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 27, 34 e 79 della legge 392/1978.
Deduce che, poiché la durata del contratto stipulato tra RAGIONE_SOCIALE.sa e NOME era da considerare di nove anni, a seguito della disdetta da parte di RAGIONE_SOCIALE.sa, NOME aveva diritto all’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, nella specie, trattandosi di attività simile a quella alberghiera, di importo pari a 21 mensilità dell’ultimo canone corrisposto.
Con il nono motivo la ricorrente denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. e dell’art. 111 della Costituzione.
Deduce che la sentenza impugnata ha confermato la sentenza di primo grado che aveva condannato NOME a pagare i canoni per i mesi di aprile, maggio e giugno 2020, perché, come si legge a pagina 31 della sentenza, ‘correttamente il Tribunale aveva osservato che non era sufficiente la disponibilità a restituire le chiavi essendo invece necessario un preciso accordo’, e lamenta la conseguente nullità della sentenza, che non ha indicato quale fosse la prescritta forma e non ha individuato le norme di legge da applicare per sostenere che ‘era necessario un preciso accordo’.
Con il decimo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 1321, 1325, 1326, 1372, 1337 e dell’art. 2712 cod. civ.
Nuovamente deduce che la sentenza impugnata ha confermato la sentenza di primo grado che aveva condannato NOME a pagare i canoni per i mesi di aprile, maggio e giugno 2020, perché le parti non avevano raggiunto un preciso accordo, e lamenta che la corte territoriale ha avuto una ‘erronea percezione dei messaggi WhatsApp che, dopo la disdetta, COGNOME NOME e COGNOME NOME si sono scambiati nell’aprile 2020′.
Con l’undicesimo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 132, comma 1, n. 4, cod. proc. civ. e violazione degli artt. 1321, 1387, 1388 e segg. cod. civ. e 1399 cod. civ.
Deduce che la sentenza impugnata ha valutato insufficiente lo scambio dei messaggi per provare l’accordo, poiché lo scambio ‘non aveva direttamente riguardato NOME di COGNOME NOME NOME, essendo intervenuto fra altri soggetti (COGNOME NOME, affittuario di altro ramo d’azienda dello stesso immobile, e COGNOME NOME, comproprietaria dell’immobile)’; lamenta che la sentenza non ha indicato né reso comprensibili le norme che intendeva applicare per sostenere che lo scambio dei messaggi non riguardava NOME, ed è pertanto nulla per violazione dell’art. 132, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.
Con il dodicesimo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c., degli art t. 115 -116 cod. proc. civ. e dell’art. 1366 c od. civ.
Censura la sentenza impugnata nella parte in cui sostiene che la locatrice non aveva rinunciato al pagamento dei canoni, che lo scambio dei messaggi era generico, nel senso che non era chiaro l’oggetto dell’accordo e che nello scambio di sms vi possono essere stati dei fraintendimenti.
Con il tredicesimo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 115 e 116 civ. proc. civ.
Censura la sentenza impugnata nella parte in cui, a p. 33,
sostiene che era giustificato il rifiuto di RAGIONE_SOCIALE di ricevere le chiavi, perché nel verbale di riconsegna del 30.06.2020 si dava atto che NOME non aveva asportato mobili di sua proprietà e si era impegnata ad eseguire alcune opere di ripristino.
Con il quattordicesimo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 1216 e 1220 cod. civ.
Si duole della parte in cui la sentenza di primo grado ha sostenuto che per esentare NOME dal pagamento dei canoni dei mesi di aprile, maggio e giugno 2020, fosse necessaria una vera e propria offerta ex art. 1216 cod. civ.
Deduce che la corte d’appello ha ritenuto assorbita la questione, il che tuttavia comporta che le questioni poste con il motivo non esaminato, perché assorbito, restano impregiudicate e devono essere esaminate nel giudizio superiore, ove se ne realizzi la condizione.
Con il quindicesimo motivo la ricorrente denuncia vi olazione dell’art. 112 c od. proc. civ ., dell’art. 11 legge 392/1978, dell’art. 1284 , comma 4, cod. civ. e del d.lgs. 231/2002.
Censura la sentenza impugnata nella parte in cui non si è pronunciata sulla sua domanda di condanna di RAGIONE_SOCIALE.sa riguardante gli interessi moratori ed ha condannato RAGIONE_SOCIALEsa al pagamento degli interessi moratori ex art. 1284, comma 4, cod. civ. nonché ai sensi del d. lgs. n. 231/2002, con decorrenza dalla data della mediazione su tutte le somme che RAGIONE_SOCIALEsa fosse stata condannata a pagare.
Con il sedicesimo motivo la ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1337, 1375, 1366 cod. civ. e dell’art. 96 c od. proc. civ.
Censura la sentenza impugnata nella parte in cui non ha applicato le norme in tema di responsabilità aggravata.
Ripropone, confidando che i motivi di ricorso siano ritenuti
fondati, la domanda di condanna di RAGIONE_SOCIALEi.sa ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., non accolta dalla corte territoriale sul presupposto del rigetto dell’appello di NOME.
17. Il primo motivo è inammissibile.
Sebbene questa Corte abbia più volte affermato che la sentenza priva dei motivi di diritto è nulla, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., in quanto non consente d’individuare in modo chiaro, univoco ed esaustivo le ragioni su cui si fonda la decisione. (Cass., 22/09/2003, n. 13990; Cass., 16/07/2009, n.16581; Cass., 04/08/2010, n. 18108; Cass., 05/11/2015, n. 22652), nel caso di specie il ricorrente si limita a criticare solo una parte della motivazione, che si lega al seguito, e dunque senza considerare la motivazione complessiva della sentenza veneziana.
Sotto tale profilo il motivo, una volta che lo si confronti con la motivazione, risulta non solo privo di specificità, ma anche di effettiva correlazione con essa. Sotto il primo profilo viene in rilievo il consolidato principio di diritto di cui a Cass. n. 4741 del 2005. Sotto l’altro, quello altrettanto consolidato di cui a Cass. n. 359 del 2005. Entrambi, peraltro, ribaditi, in motivazione espressa, sebbene non massimata sul punto, da Cass., Sez. Un., n. 7074 del 2017.
18. Il secondo motivo è inammissibile.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, il motivo di impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto di impugnazione, la decisione è erronea, e che per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto di impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in
una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere (Cass., 22/04/2020, n. 8036).
Il motivo dedotto, invece, non individua chiaramente la motivazione criticanda, rispetto alla quale non trova corrispondenza quanto enunciato nella penultima proposizione di p. 11 del ricorso.
Il terzo motivo è inammissibile, per le stesse ragioni indicate nello scrutinio del secondo motivo.
20. Il quarto motivo è inammissibile.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, al fine di poter dedurre il vizio di motivazione apparente, anche come irriducibile contraddittorietà della stessa, occorre che il vizio “emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata”, vale a dire a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (così Cass., Sez. Un., 07/04/2014, n. 8053, nonché, tra le molte conformi, Cass., 19/05/2022, n. 16170; Cass., 20/06/2018, n. 20955).
Il ricorrente basa invece la sua censura su elementi aliunde rispetto alla motivazione, finendo per riproporre un’inammissibile rilettura e del merito della causa e delle risultanze probatorie acquisite (secondo il consolidato e pluridecennale orientamento di questa Corte, non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito ( ex multis , Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, cle Pagina 16 R.G.N. 4751/ Udienza del 9 febbraio 20 6 8 Sentenza n. 12052 del
23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant’anni: e cioè che “la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione”).
21. Il quinto motivo è inammissibile.
Parte ricorrente lamenta che la corte d’appello avrebbe dovuto fare applicazione dell’art. 1, comma 9 septies , della legge 5 aprile 1985 n. 118, ma così non ha fatto.
Sotto la formale invocazione della violazione di legge, la ricorrente nuovamente sollecita una inammissibile rivisitazione della quaestio facti .
22. Il sesto motivo è parimenti inammissibile.
Ripropone le medesime doglianze già dedotte in appello, deducendo unicamente profili di merito, e dunque postula una rivalutazione del fatto, preclusa in sede di legittimità.
23. Il settimo motivo è inammissibile.
Si fonda su un presupposto non corrispondente al vero, e cioè che la corte d’appello, ai fini della qualificazione del rapporto, si sarebbe limitata a rimettersi al nomen iuris del contratto di affitto di ramo d’azienda , senza esaminarne il contenuto.
Invece, come si evince dalla lettura della sentenza impugnata, prima il tribunale ha compiutamente e
dettagliatamente esaminato il contenuto dei due contratti di affitto di ramo d’azienda (e relativi allegati) e poi la corte territoriale ha poi confermato il ragionamento e l’operato del giudice di prime cure, rilevandone la correttezza.
Di nuovo, dunque, il ricorrente finisce per sollecitare un’inammissibile rilettura dei fatti e dei documenti, già vagliati dai giudici di merito.
24. L’ottavo motivo è inammissibile.
Presuppone infatti l’esistenza tra le parti di un contratto di locazione, senza correlarsi alla motivazione della sentenza impugnata, con cui invece la corte d’appello ha espressamente e diversamente qualificato il contratto in termini di affitto di ramo d’azienda.
25. Il nono motivo è inammissibile, per assoluta genericità (secondo il consolidato principio di diritto Cass. n. 4741 del 2005, cit.) ed assertorietà, nonché per il fatto che anche sollecita un riesame delle risultanze probatorie, precluso in sede di legittimità.
26. Il decimo motivo è manifestamente inammissibile perché, sotto la formale invocazione del vizio di cui al n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ., nuovamente censura una valutazione del merito e della prova.
27. L’undicesimo motivo è inammissibile per le stesse ragioni illustrate nello scrutinio del quarto motivo.
Nel dedurre che la corte d’appello avrebbe ‘valutato insufficiente lo scambio dei messaggi per provare l’accordo’, parte ricorrente non deduce correttamente l’invocata nullità dell’impugnata sentenza, perché fa riferimento ad elementi aliunde ed estrinseci rispetto alla motivazione.
28. Il dodicesimo motivo è inammissibile.
Ripropone le medesime questioni, che sconfinano nel fatto, di cui ai precedenti motivi nono, decimo ed undicesimo.
29. Il tredicesimo motivo è inammissibile, dal momento che non deduce correttamente l ‘invocata violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.
Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, per dedurre la violazione dell’articolo 115 c od. proc. civ. occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’articolo 116 c od. proc. civ. (Cass., Sez. Un., 30/09/2020, n. 20867; Cass., Sez. Un., 05/08/2016, n. 16598).
Il presupposto della violazione dell’articolo 116 c od. proc. civ. è invece che il giudice, nel valutare una risultanza probatoria, non abbia operato (in assenza di diversa indicazione normativa) secondo il suo ‘prudente apprezzamento’, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento; diversamente, ove si deduca che il giudice abbia solo male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato articolo 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui è ancora consentito il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione, e dunque solo in presenza dei gravissimi vizi motivazionali individuati dalle stesse Sezioni unite (Cass., Sez.
un., n. 8053 e n. 8054 del 2014; Cass., Sez. Un., 27/12/2019, n. 34474; Cass., Sez. Un. n. 20867/20, cit.).
Le critiche che la ricorrente rivolge alla impugnata sentenza si risolvono, in effetti, al di là dell’apparente deduzione di vizi di violazione di legge, in una contestazione del cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove (non legali) da parte del giudice di merito e non sono, pertanto, inquadrabili ne’ nel paradigma dell’articolo 360 c od. proc. civ., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), ne’ in quello del precedente n. 4, disposizione che -per il tramite dell’articolo 132 cod. proc. civ., n. 4, -da’ rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass., 26/09/2018, n. 23153; Cass., 10/06/2016, n. 11892); e ciò sia perché’ la contestazione della persuasività del ragionamento del giudice di merito nella valutazione delle risultanze istruttorie attiene alla sufficienza della motivazione, non più censurabile secondo il nuovo parametro di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sia perché’ con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, contrapponendovi la propria, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito, trattandosi di accertamento di fatto, precluso in sede di legittimità (Cass., 15/05/2018, n. 11863; Cass., 17/12/2017, n. 29404; Cass., 02/08/2016, n. 16056).
Infatti, ammettere in sede di legittimità la verifica della sufficienza o della razionalità della motivazione in ordine alle quaestiones facti significherebbe consentire un inammissibile raffronto tra le ragioni del decidere espresse nella decisione impugnata e le risultanze istruttorie sottoposte al vaglio del
giudice del merito (Cass., Sez. Un., n. 28220 del 2018; di recente v. Cass., 03/03/2023, n. 6394).
30. Il quattordicesimo motivo è inammissibile.
Censura infatti espressamente -non la sentenza di appello impugnata, bensì- la sentenza di primo grado (v. p. 38 ricorso: ‘La sentenza di primo grado è errata nel sostenere a pagina 8 che non era stata raggiunta una prova dell’accordo con la prescritta forma, senza, peraltro, specificare quale fosse la prescritta forma’).
Afferma la Corte, in proposito, che: “Nell’attuale assetto dei mezzi di impugnazione esperibili per cassazione, che d’ordinario non consentono l’impugnabilità diretta in sede di legittimità della sentenza di primo grado, va ricordato che con il ricorso per cassazione non possono essere proposte, e vanno, quindi, dichiarate inammissibili, le censure rivolte direttamente contro la sentenza di primo grado (Cass., 21/03/2014, n. 6733; Cass., 15/03/2006, n. 5637; Cass., 20/06/1996, n. 5714). La sentenza di secondo grado ha infatti effetto sostitutivo rispetto a quella impugnata, tanto da imporre al decidente, a fronte dei motivi di impugnazione in cui si convertono le ragioni di nullità imputate alla sentenza impugnata, non di limitarsi a dichiarare la nullità, ma di pronunciare nel merito, sicché non può essere denunciato in cassazione un vizio della sentenza di primo grado ritenuto insussistente dal giudice d’appello in quanto per effetto della pronuncia di questo, nei limiti del carattere devolutivo del mezzo e ferma per contro l’intangibilità del giudicato, la sentenza d’appello si sostituisce a quella di primo grado ed impedisce che possano farsi valere nel ricorso per cassazione vizi diversi da quelli che non siano attribuibili alla sentenza impugnata (Cass., 19/01/2018, n. 1323; Cass., 16/02/1998, n. 1612; Cass., 28/12/1996, n. 11537).
31. Il quindicesimo motivo è inammissibile, perché
nuovamente censura la sentenza di primo grado.
32. Il sedicesimo motivo è inammissibile.
Pretende infatti di rimettere in discussione la valutazione di merito, svolta nei precedenti gradi di giudizio, in ordine alla insussistenza dei presupposti per la condanna di RAGIONE_SOCIALEi.sa ex art. 96 cod. proc. civ.
In conclusione, il ricorso è inammissibile.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.500,00 per compensi, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento, esborsi, liquidati in euro 200,00, ed accessori di legge.
Ai sensi dell ‘ art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall ‘ art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell ‘ ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Terza