Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 21730 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 21730 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 01/08/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8164/2021 R.G. proposto da : RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (-) rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (-) rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di LECCE, SEZ.DIST. DI TARANTO n. 250/2020 depositata il 22/09/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/02/2024 dal Presidente Relatore COGNOME NOME COGNOME.
RIlEVATO CHE:
con ricorso ex art. 702-bis c.p.c. la RAGIONE_SOCIALE (poi divenuta RAGIONE_SOCIALE) conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Taranto la RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE), adducendo di avere concesso alla convenuta (allora nella vecchia denominazione), con contratto del 23 giugno 2008, l’affitto di un ramo di azienda esercitato all’interno del Centro Commerciale ubicato in Taranto alla INDIRIZZO e chiedeva che, essendo maturata la scadenza pattuita in via automatica -con la clausola di cui all’art. 24 del contratto -al 30 giugno 2015 (peraltro richiamata anche con un telegramma), l’affittuaria fosse condannata al rilascio ed al pagamento della somma di euro 15.823,95 maturate a titolo di canone fino all’agosto del 2016.
La convenuta si costituiva e, per quanto ancora interessa, contestava la qualificazione del contratto come affitto di azienda, sostenendo che si trattasse di una locazione di immobile ad uso commerciale e che la qualificazione convenzionale come affitto di azienda ne determinasse la nullità come tale. Svolgeva domanda riconvenzionale intesa ad accertare la dedotta nullità e l’accertamento della natura di locazione commerciale del rapporto.
Il Tribunale disponeva la conversione del rito processuale in quello ordinario ex art. 447bis e ss. c.p.c. ed all’esito dello svolgimento processuale, nel quale disattendeva le istanze istruttorie, rigettava la riconvenzionale, accoglieva -nel presupposto che il rapporto
fosse di affitto di azienda – la domanda attrice di cessazione alla dedotta scadenza del contratto e condannava la convenuta al rilascio.
Sull’appello della RAGIONE_SOCIALE, la Corte di Appello di Lecce, Sezione Distaccata di Taranto, ha rigettato l’impugnazione con sentenza del 22 settembre 2020.
La RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
Vi ha resistito con controricorso la RAGIONE_SOCIALE
La trattazione è stata fissata ai sensi dell’art. 380.bis.1 c.p.c. Non sono state depositate conclusioni da parte del Pubblico Ministero, mentre la resistente ha depositato memoria.
A seguito di impedimento del relatore designato verificatosi nell’imminenza dell’adunanza camerale il Presidente Titolare designava come relatore il Presidente del Collegio.
CONSIDERATO CHE:
c on il primo motivo di ricorso si deduce ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 1326 c.c., per avere la Corte di Appello <>. La Corte avrebbe in specie omesso di considerare l’effettiva consistenza dei beni che formavano oggetto dell’affermata cessione di azienda, i quali non sarebbero stati tali da poter costituire un complesso organizzato ai fini produttivi.
Con il secondo motivo di gravame si deduce, ex art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., l’omesso esame della documentazione asseritamente attestante i pagamenti operati dalla ricorrente per i lavori di ristrutturazione dei locali, per l’allestimento degli stessi ed il
pagamento di una indennità alla società che in precedenza occupava l’immobile oggetto del contratto.
Con il terzo motivo di gravame si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 132, secondo comma, n. 4 cod.proc.civ. e art. 111 Cost. e 2697 c.c., art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 ‘per avere la Corte territoriale omesso totalmente di giustificare la mancata ammissione delle prove testimoniali invocate dall’odierno ricorrente sia nella memoria di costituzione nel giudizio di prime cure che nel ricorso in appello’, volte ad accertare l’inesistenza di alcuna azienda ceduta e, conseguentemente, che il reale oggetto del contratto fosse limitato ad una mera locazione di un locale commerciale.
Con il quarto motivo di ricorso si deduce, ex art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 1424 c.c.. Afferma il ricorrente che la Corte di merito avrebbe dovuto inquadrare la fattispecie contrattuale intercorsa nell’ordinaria disciplina locatizia, tenendo in debita considerazione che l’oggetto del contratto fosse ‘la mera locazione delle mura nelle quali la ricorrente avrebbe dovuto esercitare la propria attività’. In tal modo la Corte avrebbe dovuto rideterminare il canone di locazione sulla scorta dell’inesistenza del fitto del ramo di azienda.
Il primo motivo è inammissibile.
In tanto è singolare la sua struttura, che inizia riproducendo una parte della motivazione del giudice di primo grado e criticandola, per poi sostenere che se gli elementi di critica fossero stati valorizzati dalla corte territoriale l’avrebbero dovuta indurre a scegliere la qualificazione come locazione. Dopo di che si omette qualsiasi assunzione come oggetto di critica della motivazione resa dalla corte di appello e si enunciano una serie di circostanze fattuali che avrebbero dovuto indurla a scegliere la qualificazione come locazione.
Dette circostanze non sono indicate nel rispetto dell’art. 366 n.6 c.p.c. e tanto integra una prima ragione di inammissibilità.
Una seconda è il disinteresse per la motivazione della corte: si ricorda che è consolidato il principio di diritto secondo cui il motivo di ricorso per cassazione deve criticare la motivazione della decisione impugnata (Cass. n. 359 del 2005, ed ex multis , Cass., Sez. Un., n. 7074 del 2017, in motivazione espressa, sebbene non massimata sul punto).
Una terza ragione è che, dovendosi enunciare la violazione dei canoni ermeneutici evocati, al contrario essi nell’illustrazione non vengono in alcun modo evocati.
Il secondo motivo è parimenti inammissibile: ci si astiene dal precisare, nel rispetto dell’art. 366 n. 6 c.p.c., dove nell’atto di appello i fatti oggetto della documentazione che si elenca risultavano dedotti e, prima ancora dove lo erano stati nella memoria di costituzione di primo grado. In tal modo non si rispettano le sentenze delle Sezioni Unite nn. 8053 e 8054 del 2014, dato che ci si limita ad indicare solo il numero di produzione degli atti in primo grado e poi nel fascicolo di legittimità, ma si omette di precisare se e dove i fatti rappresentati erano divenuti oggetto di deduzione, in particolare con l’appello, sì da far sorgere il dovere di esaminarli da parte della corte di merito. Ne discende che la censura di omesso esame ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. non è dedotta in modo ammissibile, cioè secondo i criteri indicati dalla citate Sezioni Unite. Si deve, poi, aggiungere che in chiusura del motivo, è evocata la violazione dell’art. 132, secondo nm. 4 c.p.c., ma anche qui inammissibilmente perché il relativo vizio, come non hanno mancato di sottolineare le citate Sezioni Unite, non può basarsi su elementi aliunde rispetto alla motivazione. Nella specie si fonderebbe sula mancata considerazione dei fatti di cui si è detto.
Il terzo motivo è inammissibile, in quanto non solo ci si astiene dal riprodurre il contenuto dell’atto di appello in cui sarebbero state formulate le istanze istruttorie non ammesse in primo grado (limitandocisi solo ad indicare la pag. 19 dell’atto di appello con riferimento alla sola istanza di c.t.u.), ma, a monte, si omette di indicare se in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado ci si era doluti della mancata ammissione, cosa necessaria per dolersene poi in appello, ed a valle si omette di dire se in sede di precisazione delle conclusioni in appello le istanze -del tutto ipoteticamente ben dedotte con l’appello – erano state ribadite.
Il quarto motivo impugna una motivazione che la corte territoriale ha enunciato aggiuntivamente rispetto alla condivisione della qualificazione del contratto come affitto di azienda.
Consolidatasi quella qualificazione è inutile scrutinare la negazione della convalida. Peraltro, la motivazione viene anche attinta in modo assolutamente parziale e, dunque, se il motivo fosse stato da esaminare, non avrebbe superato un rilievo di inammissibilità perché per quella ragione inidoneo a criticare la motivazione.
Il ricorso è, dunque, dichiarato inammissibile, stante l’inammissibilità di tutti i motivi.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 , ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello eventualmente dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, il 13/02/2024, nella camera di consiglio della