Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 20525 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 20525 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 21/07/2025
Affitto di azienda
ad. 13.5.2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24095/2021R.G., proposto da
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME domiciliata ex lege come da indirizzo pec indicato,
–
ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t. NOME COGNOME, rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME domiciliata ex lege come da indirizzo pec indicato,
-controricorrente – per la cassazione della sentenza n. 496/2021 della CORTE d’APPELLO di Brescia pubblicata il 16.6.2021;
udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 13.5.2021 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza pubblicata il 21.5.2020 il Tribunale di Brescia, in parziale accoglimento delle domande svolte da First Lady di RAGIONE_SOCIALE (d’ora in avanti indicata come RAGIONE_SOCIALE) nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, accertava la natura di locazione di immobile ad uso commerciale, negando la natura di affitto di ramo di azienda, al contratto stipulato l’1.7. 2011 e dichiarava nulla la clausola contrattuale con la quale la ricorrente aveva rinunciato all’indennizzo per recesso anticipato della concedente per violazione dell’ art. 79, comma primo, l. 392/1978.
Il Tribunale, sulla premessa che il 30.6.2011 RAGIONE_SOCIALE aveva concluso con RAGIONE_SOCIALE un contratto di affitto d’azienda e che quest’ultima i n data 1.7.2011 aveva stipulato con RAGIONE_SOCIALE un contratto di subaffitto d’azienda ed un contratto di franchising , ritenne che: RAGIONE_SOCIALE era entrata nei locali quando il centro commerciale era ancora vuoto e aveva provveduto al l’organizzazione in forma d’impresa per effetto del collegato contratto di franchising per la vendita di prodotti RAGIONE_SOCIALE; nel contratto di subaffitto si precisava che il ramo d’azienda era subaffittato senza personale e senza merci e che il godimento avrebbe comportato il diritto d’uso dei locali ; nel contratto di franchising si prevedeva che l’affittuaria avrebbe predisposto a propria cura e spese, comprese quelle di progettazione, i locali necessari per l’esercizio dell’attività, provvedendo altresì all’esecuzione di eventuali lavori murari e di installazione degli impianti, nonché al rinnovo delle attrezzature e degli arredi (la ricorrente aveva acquistato gli arredi e sostenuto i costi anche se la fatture erano intestate a RAGIONE_SOCIALE).
La Corte d’Appello di Brescia con sentenza pubblicata il 16.6.2021 rigettava l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE e la onerava delle spese di lite del secondo grado.
Osservava la Corte d’appello che l’appellante , acquisito il godimento di uno spazio in un centro commerciale, prima ancora di averlo organizzato in forma di impresa commerciale, per aver soltanto acquistato gli arredi e procurato a favore dell’altro contraente la licenza a vendere al dettaglio, lo
aveva ceduto in godimento, lasciando che RAGIONE_SOCIALE provvedesse all’organizzazione di quei beni in forma di impresa, utilizzando marchio e politiche di vendita proprie del contratto di franchising . Aggiungeva la Corte d’appello che, una volta estrapolati dal contratto di franchising gli elementi tipici ( uso del marchio e dell’insegna; orari di apertura e posizione del negozio) , all’appellata non restava che lo spazio fisico nel quale esercitare i diritti derivanti da tale contratto.
La Corte d’appello , pertanto, confermava la natura di contratto di locazione e non d’affitto d’azienda del contratto sul rilievo che i locali sono solo uno dei beni di cui si compone l’azienda . Tale valutazione era confermata anche dalla lettura del contratto di affitto d’azienda intervenuto tra RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE avente un oggetto non meglio specificato se non con riguardo al luogo di esercizio dell’azienda (‘un locale al piano terra della superficie di circa mq 116, e superfici netta di vendita pari a circa mq 79,2 ‘) .
Per la cassazione della sentenza ricorre RAGIONE_SOCIALE sulla base di due motivi. Risponde con controricorso RAGIONE_SOCIALE
La trattazione del ricorso veniva fissata in camera di consiglio, ai sensi dell’art.380bis .1. cod. proc. civ. per l’adunanza del 22 febbraio 2024.
Il Pubblico Ministero presso la Corte presentava conclusioni scritte, nelle quali chiedeva il rigetto del ricorso, sostenendo che il primo motivo sarebbe infondato ed il secondo inammissibile.
Entrambe le parti depositavano memoria illustrativa, ma il ricorso veniva tolto dal ruolo per impedimento del relatore designato.
La trattazione è stata rifissata per l’ odierna adunanza camerale. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ. ‘ violazione e/o falsa applicazione degli artt. 113, 115, 116 CPC, anche in riferimento agli artt. 1362sgg. CC, all’istituto del c.d. ‘collegamento contrattuale’ ed agli artt. 1 -sgg. L. 06/05/2004 n. 129, per
avere la Corte di Appello (i) erroneamente applicato in concreto i criteri di ermeneutica legale, in modo particolare per quanto attiene oggetto e volontà delle parti, nonché (ii) per aver ritenuto che il collegamento contrattuale dia luogo ad una sommatoria di contratti e non ad un unico fenomeno unitario, ( iii ) per aver attributo al contratto di franchising disciplinato dalla L. 129/2004 un contenuto e significato inesistente, infine ( iv ) per aver attribuito all’art. 2555 CC un significato non corretto, e applicato lo stesso, e per aver erroneamente sussunto la vicenda per cui è causa sotto la tipologia della locazione di immobili ‘.
La ricorrente critica la sentenza impugnata là dove afferma che ‘l’appellante confonde i due piani in cui operano i due diversi contratti, quello del subaffitto di ramo d’azienda e quello di franchising , facendo rientrare nel primo elementi del secondo ‘ (pagina 7, penultimo capoverso) , perché tale affermazione sarebbe basata su una erronea lettura del collegamento negoziale, ridotto a una mera sommatoria di elementi, liberamente addizionabili o sottraibili, e non ad un risultato unitario. Così decidendo, la Corte d’appello avrebbe negato l’istituto del collegamento negoziale funzionale e lo avrebbe ridotto ad una mera compresenza di negozi, i quali restano autonomi ed oggetto di valutazione indipendente l’uno dall’altro . Del pari lo stesso approccio di stampo aritmetico, come tale vanificante la funzione del collegamento negoziale, sarebbe rinvenibile in altri passi della sentenza (da pagina 7, ultimo capoverso, fino a pagina 8, primo periodo del secondo capoverso; pagina 8, terzo capoverso; pagina 8, ultimo capoverso), dove l’analisi coinvolge anche il contratto tra RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE estraneo al giudizio.
Sotto altro profilo la ricorrente censura la sentenza per la violazione delle regole di interpretazione del contratto nella definizione della causa in concreto, nel l’individuazione e ricostruzione della volontà delle parti e, quindi, nel l’esatta definizione del collegamento negoziale voluto dalle parti. Collegamento, quest’ultimo, che vedeva nel contratto di subaffitto del ramo d’azienda il contratto prevalente, mentre il contratto di franchising era un
mero allegato del primo privo di data e di firma. Nel contratto di franchising era esplicitamente previsto che il sub affitto d’azienda era il presupposto del primo e che ‘l’inadempimento anche parziale alle obbligazioni presenti in uno dei due contratti saranno causa di risoluzione di entrambi’.
Nell’applicazione d egli artt. 1362 e ss. cod. civ. sarebbe stata ignorata la volontà espressa dalle parti e sostituita ad essa quella estrapolata dal giudice del merito. I due contratti servivano ad attuare un solo programma negoziale, il cui fine era il perfetto funzionamento del punto vendita a marchio ‘RAGIONE_SOCIALE ‘ attivato dalla ricorrente nel centro commerciale, in modo da garantire che esso fosse identificabile non come un semplice negozio di calzature, ma come uno dei 459 negozi RAGIONE_SOCIALE a tutela della sua immagine commerciale, descritta e rappresentata con efficacia distintiva erga omnes nel marchio e nell’insegna regolati nel subaffitto.
Secondo la ricorrente anche l’interpretazione dei singoli contratti sarebbe stata fatta in violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale, poiché del contratto di subaffitto era stato ignorato il contenuto dell’art. 8 e in particolare del punto 8.3 , nel quale era previsto l’obbligo per la subaffittuaria di corrispondere euro 1.510,00 a titolo di affitto dell’arredo del negozio fornito dalla subaffittante.
N ell’interpretazione del contratto di franchising , ‘anche le norme di cui alla L. 129/2004 sono state violate, in due modi: attribuendo alle stesse un contenuto inesistente nella ratio legis e stravolgendo la volontà delle parti’ , poiché RAGIONE_SOCIALE non poteva organizzare un’azienda propria, ma ha sempre e solo continuato a gestire un punto vendita RAGIONE_SOCIALE con lay-out dei punti vendita di RAGIONE_SOCIALE, con l’ insegna RAGIONE_SOCIALE vendendo i soli beni di RAGIONE_SOCIALE.
Ancora, mentre il subaffitto aveva ad oggetto la gestione del punto vendita nel centro commerciale, il franchising si riferiva all’approvvigionamento delle merci da vendere nel primo e alla salvaguardia dell’immagine di esso a marchio ‘RAGIONE_SOCIALE ‘ . In altri termini, il
franchising non aveva nulla a che vedere con la gestione dell’azienda , realizzata prima dell’insediamento dell’affittuaria, perché riguardava un trasferimento di marchio, Know-how e in particolare tecniche organizzative e gestionali del punto vendita, incluse quelle di vendita.
Erroneamente la Corte d’appello avrebbe affermato che ‘E strapolando dal rapporto contrattuale considerato nel suo complesso gli elementi tipici del contratto di franchising, all’appellata non resta altro che lo spazio fisico nel centro commerciale entro il quale esercitare i diritti nascenti dal contratto di franchising ‘ , poiché la nozione di «organizzazione» di cui all’art. 2555 cod. civ. è stata ridotta alla sola apertura al pubblico.
Per contro, al fine di riscontrare il dato dell’organizzazione, si sarebbe dovuto tenere conto: a) delle previsioni contrattuali contenute nel contratto presupposto (subaffitt o d’azienda) e in quello presupponente ( franchising ); b) del complesso dei beni trasferiti, che prevedeva non solo un immobile nudo, ma un punto vendita funzionante e perfettamente arredato non in astratto, ma secondo lo stile, il lay-out e l’immagine di P rimadonna, anche comprensivo di insegna e uso della stessa; c) il fatto che il punto vendita doveva essere gestito solo ed unicamente secondo le tecniche di vendita e commerciali di RAGIONE_SOCIALE, ossia secondo un ben preciso e immodificabile know-how anch’esso di P COGNOME, predeterminato, preesistente e solo concesso in uso a RAGIONE_SOCIALE, che nulla aveva messo di suo, in quanto detto know-how è lo stesso che RAGIONE_SOCIALE concede a tutti i suoi franchisees , ovunque siano nel mondo. In breve, RAGIONE_SOCIALE non avrebbe dovuto fare altro che condurre il punto vendita di RAGIONE_SOCIALE con i beni, l’organizzazione, il software , le vetrine e l’insegna, vendendo solo i prodotti di RAGIONE_SOCIALE.
1.1. Il motivo è inammissibile.
Osserva questa Corte come – al di là di un primo rilievo afferente alla sezione del ricorso dedicata all’esposizione del fatto, là dove parte ricorrente, in manifesta violazione del precetto del n. 3 dell’art. 366 c.p.c. circa il carattere sommario dell’e sposizione del fatto, applicabile ratione
temporis , ha inteso riprodurre integralmente per 26 pagine una serie di atti processuali, così costringendo questa Corte alla loro lettura al di là di quanto funzionale all’osservanza del requisito – il motivo nella sua complessiva articolazione postulante la ‘violazione e/o falsa applicazione’ di numerose norme processuali e sostanziali, molte delle quali neppure evocate nel corpo dello sviluppo, esula dai limiti del consentito sindacato di legittimità.
1.2. Anche a prescindere dalla totale mancata esplicazione della violazione dell’art. 11 3 cod. proc. civ. evocato ne ll’intestazione , la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è del tutto mal posta.
Infatti, nell’ambito di un ricorso per cassazione per dedurre la violazione del paradigma dell’articolo 115 cod. proc. civ. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma (v., già Cass. 10 giugno 2016, n. 11892, il cui principio di diritto trovasi ribadito anche dalle Sezioni Unite nella sentenza 30 settembre 2020, n. 20867 e già da Cass., Sez. Un., 5 agosto 2016, n. 16598, in motivazione espressa, sebbene non massimata sul punto; Cass., VI-3, 23 ottobre 2018, n. 26769; sez. lav., 19 agosto 2020, n. 17313). Ciò significa che per realizzare la violazione deve aver giudicato, o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso articolo 115 cod. proc. civ.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’articolo 116 cod. proc. civ., ru bricato per l’appunto “valutazione delle prove” (v. Cass. 11892/2016, cit.).
Deve essere, altresì, ricordato che una questione di violazione o di falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (v. Cass., 11892/2016, cit.; 8 ottobre 2019, n. 25027; 31 agosto 2020, n. 18092; 22 settembre 2020, n. 19798; Cass., Sez. Un., 20867/2020).
Analogamente, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione (come si dirà infra in occasione dello scrutinio del secondo motivo), non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., che dà rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio, né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, cod. proc. civ. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (v. Cass. 11892/2016 cit.).
1.3. Analogamente le plurime deduzioni di violazione dei criteri di interpretazione del contratto, relativamente ai contratti di subaffitto e di franchising e del prospettato collegamento negoziale, esulano dai limiti del sindacato di legittimità sulla ricognizione del fatto contrattuale.
Secondo un consolidato orientamento di questa Corte, l’interpretazione del contratto, consistendo in un’operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in un’indagine di fatto riservata al giudice di merito, la cui ricognizione è censurabile in cassazione soltanto per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle regole ermeneutiche; ne consegue che non può trovare ingresso in
sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto già dallo stesso esaminati. Il motivo è inammissibile poiché non inquadra il paradigma normativo per la denuncia di violazione o falsa applicazione dei canoni interpretativi del contratto, limitandosi a contrapporre apoditticamente a quella svolta dalla corte d’appello una diversa interpretazione del contratto di subaffitto, riqualificato in termini di locazione da parte della Corte d’appello, che ha confermato la decisione del Tribunale sul punto.
Il sindacato di legittimità deve avere ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti e non può investire il risultato interpretativo in sé, bensì solo l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere la funzione a lui riservata, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (tra le molte, v. Cass. 31 marzo 2006, n. 7597; 1° aprile 2011, n. 7557; 14 febbraio 2012, n. 2109; 10 febbraio 2015, n. 2465; 26 maggio 2016, n. 10891; 29 luglio 2016, n. 15763; 5 dicembre 2018, n. 31512; 12 maggio 2020, n. 8810; 2 luglio 2020, n. 13620; Sez. Un., 21 gennaio 2021, n. 2061; 10 ottobre 2023, n. 28324).
Pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (v., Cass. 9 ottobre 2012, n. 17168; 11 marzo 2014, n. 5595; 27 febbraio 2015, n. 3980; 19 luglio 2016, n. 14715).
Di conseguenza, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra ( v., Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; 7 marzo 2007, n. 5273; Cass. 3 settembre 2010, n. 19044).
1.4. Come già detto, la ricorrente si è limitata a contrapporre a quella della Corte d’appello la propria soggettiva interpretazione e non ha indicato come la lettura contenuta nella sentenza contrasti, sul piano dei criteri legali di interpretazione del contratto, con la lettera delle clausole contrattuali dei due contratti (di subaffitto e franchising ) e con il loro contenuto complessivo.
Ciò è reso evidente dalla dedotta invocazione del collegamento negoziale funzionale tra i due contratti, attuativi di un solo programma negoziale, il cui fine era il perfetto funzionamento del punto vendita a marchio ‘RAGIONE_SOCIALE‘ asseritamente attivato dalla ricorrente nel centro commerciale, salvo puntualizzare in termini di mera contrapposizione all’interpretazione , resa dal giudice del merito, che il subaffitto di ramo d’azienda era il contratto presupposto per la conduzione del punto vendita approntato in un ristretto torno di tempo (la stessa ricorrente ricorda che le attrezzature e gli arredi furono consegnati il 20 ed il 27 giugno 2012, mentre il contratto di affitto di ramo d’azienda con RAGIONE_SOCIALE era del 30.6.2012 e quello di subaffitto oggetto di causa dell’1.7.2012). Tale collegamento sarebbe stato male inteso dalla Corte d’appello per effetto di una selezione di tipo ‘aritmetico’ di elementi di entrambi i contratti tale da vanificare la causa concreta perseguita dalle parti.
La ricorrente non considera che l’univoca direzione di due contratti verso un fine unico non esclude che ciascuno di esso conservi una sua individualità. Infatti, secondo un consolidato orientamento espresso da questa Corte ‘ il collegamento contrattuale non dà luogo ad un autonomo e
nuovo contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci interessi. Pertanto, in caso di collegamento funzionale tra più contratti, gli stessi restano conseguentemente soggetti alla disciplina propria del rispettivo schema negoziale, mentre la loro interdipendenza produce una regolamentazione unitaria delle vicende relative alla permanenza del vincolo contrattuale, per cui essi «simul stabunt, simul cadent »’ (v. Cass., sez. II, 9 settembre 2021; Cass., sez. III, 10 luglio 2014, n. 15757; Cass., sez. III, 22 marzo 2013, n. 7255). In questo contesto, la Corte d’appello ha provveduto, previa opera di interpretazione, alla riqualificazione del contratto di subaffitto nei sensi indicati, sulla base del rilievo assunto dal godimento del bene e sue pertinenze rispetto ad altre utilità.
In buona sostanza, l’ampia evocazione, attraverso una serie di citazioni di giurisprudenza, dei principi sul collegamento negoziale, svolta dall’inizio dell’illustrazione rimane del tutto astratta e del tutto carente di argomentazioni, almeno chiaramente percepibili sul perché la loro applicazione dovrebbe comportare implicazioni sulla qualificazione del contratto relativo all’immobile come affitto di azienda.
Anche la censura afferente ai singoli contratti non è stata adeguatamente formulata, là dove la ricorrente, quanto al contratto di subaffitto , si limita a prospettare puramente e semplicemente l’aver ignorato la Corte d’appello il contenuto dell’art. 8 e in particolare del punto 8.3, nel quale era previsto l’obbligo per la subaffittuaria di corrispondere euro 1.510,00 a titolo di affitto dell’arredo del negozio fornito dalla subaffittante.
Non diversa considerazione vale per la pretesa erronea interpretazione del contratto di franchising , nella quale a parte la non meglio esplicitata (ed eccentrica, rispetto alle ragioni del motivo) deduzione di
violazione della l. 125/2004), non si va oltre una pletorica evocazione della storia del contratto di affiliazione commerciale, salvo nuovamente contrapporre la propria personale interpretazione sulla sua portata meramente servente rispetto al contratto presupposto di subaffitto d’azienda.
Da ultimo, la censura svolta con riferimento all’interpretazione data dalla Corte d’appello riguardo alla nozione di «organizzazione» di cui all’art. 2555 cod. civ., per quanto mantenuta nel solco della prospettata violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale, non si sottrae al limite esposto di non aver rilevato uno specifico errore sul piano della logica o per violazione di un criterio legale di interpretazione, ma oppone frontalmente quello che a dire della ricorrente sarebbe stato il ruolo di RAGIONE_SOCIALE di soggetto chiamato a ‘e sercitare e condurre un punto vendita RAGIONE_SOCIALE, con quei beni, quell’organizzazione, quel software, quelle vetrine, quell’insegna, e per di più vendendo solo ed unicamente prodotti RAGIONE_SOCIALE, e anche in questo caso non a suo gusto ma seguendo il know-how e le tecniche commerciali di RAGIONE_SOCIALE .
1.5. Deve essere rilevato, inoltre, che il motivo non attinge neppure l’intera ratio decidendi espressa dalla Corte d’appello . La ricorrente ha impugnato diverse porzioni della motivazione: quella resa a pagina 7, penultimo capoverso; quella che si legge da pagina 7, ultimo capoverso, fino a pagina 8, primo periodo del secondo capoverso; quella a pagina 8, terzo capoverso; quella da pagina 8, ultimo capoverso a pagina 9 fino alla riga 6 .
Non è stata impugnata, invece, la motivazione espressa dalla corte bresciana a pagina 9 da riga 6 fino a riga 17, dove si legge a proposito del contratto di affitto di azienda intercorso tra RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, richiamato nel contratto di subaffitto alla voce ‘oggetto del contratto’ , che esso (il contratto richiamato) ha ‘ un oggetto non meglio specificato se non con riguardo al luogo in cui è esercitata l’azienda, rappresentato da ‘un locale al piano terra della superficie di circa
mq. 116, e superficie netta di vendita pari a circa mq. 79,72’ (pag. 2); ove si prevede, nel contratto che ci riguarda alla voce ‘consistenza del ramo d’azienda oggetto del contratto’, che era ‘ben nota alle parti’ e per quanto riguarda la parte immobiliar e che si rimandava ‘alla planimetria allegata’, con diritto all’ ‘uso dei locali nei quali si attiva il ramo medesimo’(pag. 4) e obbligo, al termine del subaffitto, ‘a restituire il locale nello stato di finitura nel quale si troverà al termine del subaffi tto’ (pag. 5), nonché al rispetto di norme di regolamento e capitolato tecnico del Centro Commerciale Adamello (art. 13)’.
Motivazione, quest’ultima, basata sull’autonoma interpretazione del contratto di subaffitto, il cui contenuto si risolveva nella concessione del godimento di uno spazio fisico nel centro commerciale, entro il quale sarebbero stati esercitati i diritti derivanti dal contratto di franchising e quindi sul rilievo attribuito all’immobile , in linea con quanto ritenuto da questa Corte in merito ai presupposti per poter configurare un affitto d’azienda, ossia la preesistenza di una organizzazione dei beni dell’im presa, l’esistenza di un avviamento e la non sufficienza che l’immobile sia collocato in un centro commerciale godendo di un avviamento indiretto (v. Cass., sez. III, 17 febbraio 2020, n. 3888).
E, peraltro, nell’ incipit stesso dell’illustrazione, a pag. 27, si dice espressamente che « nell’esposizione in fatto dello svolgimento del secondo grado di giudizio si è già riportata la motivazione della sentenza oggi gravata». Ora, a pagina 26 si riproducono due brani della motivazione ma quanto al primo se ne salta un pezzo, dato che si ricorre alla tecnica dei puntini sospensivi, così omettendo le righe della seconda proposizione della pag. 8 che iniziano con la parola ‘mentre’ e terminano prima della riproduzione che riprende dopo i detti puntini. Inoltre, si omette di riprodurre la proposizione successiva a quella che riprendendo dai puntini termina con la parola « franchising ».
Basterebbe questa tecnica di individuazione della motivazione criticanda a rendere il motivo inammissibile ed a giustificare anzi
preliminarmente, prima ancora dei riscontri in precedenza effettuati, a giustificare il rilievo che la ricorrente ha prospettato la censura in termini non aderenti alla sentenza impugnata, donde l’inammissibilità del motivo dovendosi senz’altro dare seguito ai consolidati principi di diritto in base ai quali ‘La proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al «decisum» della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366, comma primo, n. 4, cod. proc. civ., con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio’ (v. Cass., sez. III, 7 novembre 2005, n. 21490; Cass., sez. 6-I, 7 settembre 2017, n. 20910; in motivazione, Cass., Sez. Un., 20 marzo 2017, n. 7074, che ribadisce il principio di diritto similare affermato da Cass. n. 359 del 2005, nel senso che «Il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo.»; sez. 6-III, 3 luglio 2020, n. 13735).
Con il secondo motivo viene denunciata , ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., ‘violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 CPC, anche in riferimento alle norme in tema di locazione nonché agli artt. 1362-sgg. e 2555-sgg. CC, per avere la Corte di appello (i) omesso di valutare il comportamento processuale di RAGIONE_SOCIALE, nonché (ii) per
avere omesso di valutare i fatti decisivi costituiti dal testuale contenuto dei documenti in atti, e male valutato i medesimi documenti ‘.
La ricorrente lamenta l’omesso esame da parte della Corte d’appello di pretesi fatti decisivi per il giudizio: a) il contegno processuale dell’appe llata, la quale più volte in sede di impugnazione aveva modificato la propria versione dei fatti in relazione ai beni costituenti l’arredo e l’allestimento del punto vendita (da ciò deriverebbe la violazione degli artt. 112, 115 e 116 cod. proc. civ.) ; b) l’omesso esame (ove non lettura) dei documenti prodotti da RAGIONE_SOCIALE (contratto di subaffitto; contratto di franchising ; ricostruzione dei costi degli arredi e in particolare del doc. 5 scambio di e-mail; contratto di leasing ); c) ‘ la valutazione delle prove e, nella specie, delle norme contrattuali in particolare del contratto di franchising ‘ .
2.1. Il motivo è inammissibile.
Lo è anzitutto in ragione della sua stessa intestazione apparendo una contradictio in adiecto il dedurre ai sensi del n. 5 dell’art. 360 la violazione e falsa applicazione delle norme del procedimento e delle norme di diritto sostanziale evocate.
2.2. In secondo luogo, il motivo, in quanto dedotto ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. e come tale apprezzato, è inammissibile ai sensi dell’art. 348 -ter , comma quinto, cod. proc. civ. In caso di una doppia pronuncia conforme sulla base delle stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto oggetto di censura non è ammesso il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ.
Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha confermato la decisione del primo grado in ordine alla riqualificazione del contratto di subaffitto d’azienda in termini di locazione e la ricorrente non ha dimostrato (lo ha solo genericamente prospettato a pagina 25 del ricorso, ultimo capoverso) la diversità delle ragioni esposte nelle due sentenze con riferimento alle stesse questioni di fatto (v. Cass. 29 gennaio 2024, n. 2701; 20 settembre
2023, n. 26934; 28.2.2023, n. 5497; 7 maggio 2018, n. 10897; 10 marzo 2014, n. 5528).
2.3. In ogni caso, il motivo è inammissibile in quanto estraneo al paradigma normativo evocato, perché basato su profili eterogenei tutti rifluenti verso il riesame del giudizio di fatto operato dalla Corte d’appello.
Il vizio di cui all’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ. nella sua attuale formulazione presuppone la sussistenza di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, non considerato dal giudice del gravame. La ricorrente non indica un fatto, ossia un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico -naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (e in tal senso va inteso, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, v., tra le molte, Cass., sez. VI-1, ord., 26 gennaio 2022, n. 2268, il fatto cui fa riferimento il n. 5 dell’art. 360 come novellato).
La giurisprudenza di questa Corte, con indirizzo ormai unanime, ha chiarito come non rientrino nella nozione di fatto: (a) le argomentazioni o deduzioni difensive; (b) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti; (c) una moltitudine di fatti e circostanze o il vario insieme dei materiali di causa (v. Cass. civ., sez. I, ord., 29 febbraio 2024, n. 5375; Cass., sez. V, ord., 23 febbraio 2024, n. 4942; Cass., sez. III, ord., 15 febbraio 2024, n. 4163; Cass., sez. lav., ord., 22 gennaio 2024, n. 2226; Cass., sez. III, ord., 14 dicembre 2023, n. 35106).
La ricorrente i ndica quest’oggi come fatti decisivi per il giudizio: a) il contegno processuale dell’appellata, la quale più volte in sede di impugnazione aveva modificato la propria versione dei fatti in relazione ai beni costituenti l’arredo e l’allestimento del punto vendita; b) l’omesso esame (ove non lettura) dei documenti prodotti da RAGIONE_SOCIALE
(contratto di subaffitto; contratto di franchising ; ricostruzione dei costi degli arredi e in particolare del doc. 5 scambio di e-mail; contratto di leasing ); c) ‘la valutazione delle prove e, nella specie, delle norme contrattuali in particolare del contratto di franchising ‘.
La giurisprudenza di questa Corte è infatti ormai consolidata nell’affermare che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma (v. Cass., Sez. Un., 27 dicembre 2019, n. 34476).
In questa traiettoria, pertanto, non avendo la ricorrente indicato il fatto decisivo pretermesso, tale intendendosi un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo), od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale, v. Cass. 24 gennaio 2020, n. 12387; 16 gennaio 2020, n. 791; 8 settembre 2016, n. 1776; 26 luglio 2017, n. 18391.), il motivo si configura come inammissibile in quanto piega verso un riesame del merito della decisione ben al di là del possibile controllo della motivazione limitato entro il «minimo costituzionale» ammesso dalle Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass. civ., sez. un., 7 aprile 2014, nn. 8053/8054 ‘ è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza
del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione’ ). Ipotesi non ricorrenti nel caso di specie.
In fine, se, al di là della sorprendente erronea evocazione ai sensi del n. 5 segnala ta sopra, si apprezzasse la ‘violazione e/o falsa applicazione’ delle norme evocate, per l’art. 112 si dovrebbe rilevare che la norma è relativa all’omesso esame di una domanda o di un capo di domanda o di un’eccezione, per gli artt. 115 e 116 dovrebbero v alere gli stessi rilievi in punto di modalità di evocazione svolti a proposito del primo motivo, che anche qui non vengono rispettati, per le norme sostanziali il rilievo che se ne postula la violazione e/o falsa applicazione in realtà sollecitando rivalutazione del fatto.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico della parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 (Cass., Sez. Un., 20 febbraio 2020, n. 4315).
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, in favore della controricorrente, che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 7.000,00. per competenze professionali, oltre rimborso forfetario del 15%, Iva e cpa se dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Terza sezione civile della