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Acquisto da titolare apparente: la prova della buona fede

Una società acquista un immobile da un venditore il cui titolo di proprietà proveniva da un precedente atto di vendita dichiarato simulato. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 13883/2024, ha stabilito che la presunzione di buona fede del terzo acquirente può essere vinta. La mancata prova del pagamento del prezzo costituisce un elemento cruciale per dimostrare la mala fede dell’acquirente e rendere inefficace il suo acquisto nei confronti dei creditori del venditore originario. La sentenza d’appello è stata parzialmente cassata solo per un vizio procedurale, ovvero l’omessa pronuncia sulla domanda di manleva dell’acquirente verso il suo venditore.

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Acquisto da titolare apparente: la buona fede va provata

L’acquisto di un immobile nasconde talvolta insidie che vanno oltre le condizioni visibili del bene. Una di queste riguarda la validità del titolo di provenienza del venditore. Con la recente ordinanza n. 13883/2024, la Corte di Cassazione è tornata su un tema cruciale: la tutela del terzo che effettua un acquisto da titolare apparente, chiarendo come la presunzione di buona fede non sia uno scudo invalicabile, specialmente quando mancano prove concrete come il pagamento del prezzo.

I Fatti del Caso

La vicenda giudiziaria trae origine da una catena di trasferimenti immobiliari. Una prima società immobiliare vende un’unità a una seconda società. Successivamente, un tribunale dichiara, con sentenza passata in giudicato, che questa prima vendita era fittizia, una ‘simulazione assoluta’. Nel frattempo, però, la seconda società (il ‘titolare apparente’) aveva già rivenduto l’immobile a una terza società.

Il fallimento della prima società venditrice agisce quindi in giudizio contro il terzo acquirente finale, chiedendo che anche questo secondo acquisto fosse dichiarato inefficace, sostenendo la mala fede dell’acquirente. La Corte d’Appello accoglie la domanda del fallimento, motivando che l’acquirente finale non poteva essere considerato in buona fede, in quanto non aveva mai effettivamente pagato il prezzo di acquisto e non aveva fornito la documentazione bancaria richiesta a riprova dell’operazione.

La Decisione della Cassazione e l’acquisto da titolare apparente

La società acquirente finale ricorre in Cassazione, lamentando principalmente un’errata applicazione delle regole sull’onere della prova. A suo dire, la Corte d’Appello avrebbe invertito tale onere, pretendendo che fosse l’acquirente a dimostrare la propria buona fede, anziché il fallimento a provare la mala fede.

La Suprema Corte rigetta questa tesi. Pur confermando che la buona fede del terzo acquirente è presunta per legge (art. 1147 c.c.), chiarisce che si tratta di una presunzione semplice, che può essere superata da prove contrarie. Nel caso specifico, l’indagine dei giudici di merito si è correttamente estesa alla natura stessa del secondo contratto di acquisto. La conclusione che anche tale atto fosse simulato, in quanto il prezzo non era mai stato corrisposto, è stata considerata una prova schiacciante della mala fede dell’acquirente. Quest’ultimo, infatti, non solo era consapevole della situazione, ma ha partecipato attivamente a un’operazione volta a consolidare gli effetti della prima vendita fittizia a danno dei creditori.

L’unico motivo di ricorso che viene accolto è di natura puramente procedurale: la Corte d’Appello aveva omesso di pronunciarsi sulla domanda di manleva che l’acquirente finale aveva proposto nei confronti del suo diretto venditore (il titolare apparente). Per questo specifico vizio di ‘omessa pronuncia’, la sentenza è stata cassata con rinvio, affinché un nuovo giudice d’appello decida su tale punto.

Le Motivazioni

La decisione si fonda su principi cardine in materia di simulazione e tutela dei terzi. L’art. 1415 c.c. protegge i terzi che hanno acquistato diritti in buona fede dal titolare apparente, ma questa protezione non è assoluta. La giurisprudenza ha costantemente affermato che la ‘mala fede’ non è solo la semplice conoscenza della simulazione, ma può consistere anche nell’intenzione di trarne profitto a danno del simulato alienante o dei suoi creditori.

Il punto centrale della motivazione risiede nella valutazione del compendio probatorio. La Corte di Cassazione sottolinea come il mancato pagamento del prezzo e la reticenza nel produrre la documentazione bancaria relativa a un presunto mutuo siano elementi gravi, precisi e concordanti, idonei a superare la presunzione di buona fede. Inoltre, viene ribadito un principio fondamentale: la dichiarazione contenuta nel rogito notarile, con cui le parti attestano l’avvenuto pagamento del prezzo, ha efficacia di piena prova solo tra le parti stesse. Non può essere opposta al terzo (in questo caso, il fallimento) che, essendo pregiudicato dall’atto simulato, ha la facoltà di dimostrare la realtà dei fatti con ogni mezzo di prova, senza limiti.

Le Conclusioni

Questa ordinanza offre un importante monito per chiunque si appresti a compiere un’operazione immobiliare. La tutela dell’acquisto da titolare apparente non è automatica. La presunzione di buona fede può essere vinta se emergono elementi che suggeriscono un’operazione non trasparente. La prova del reale ed effettivo pagamento del prezzo si conferma come l’elemento più solido per dimostrare la serietà dell’operazione e, di conseguenza, la propria buona fede. Per gli operatori del settore e per i privati, la lezione è chiara: la forma non può salvare la sostanza. Un atto notarile, da solo, non basta a proteggere un acquisto se i fatti concreti, come il flusso finanziario, raccontano una storia diversa.

Quando un acquisto immobiliare da un titolare apparente è considerato in mala fede?
Un acquisto è considerato in mala fede non solo quando l’acquirente è a conoscenza che l’atto di provenienza del suo venditore è simulato, ma anche quando procede all’acquisto con lo scopo di profittare di tale situazione a danno del proprietario originario o dei suoi creditori. La mancata corresponsione del prezzo di vendita è un forte indizio di mala fede.

La dichiarazione nel rogito notarile che il prezzo è stato pagato è una prova sufficiente per tutelare l’acquirente?
No. Tale dichiarazione ha piena efficacia probatoria solo tra le parti che hanno stipulato l’atto (venditore e acquirente). Non è vincolante per i terzi che siano pregiudicati dall’atto, come il curatore fallimentare del venditore originario, il quale può dimostrare con ogni mezzo che il pagamento in realtà non è mai avvenuto.

Cosa succede se il giudice d’appello non si pronuncia su una domanda di garanzia?
Se il giudice omette di decidere su una domanda regolarmente proposta da una delle parti, come la richiesta di essere tenuti indenni dal proprio venditore (manleva), commette un vizio di ‘omessa pronuncia’. Questa omissione comporta la cassazione della sentenza limitatamente al punto omesso, con rinvio della causa a un altro giudice che dovrà decidere su quella specifica domanda.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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