Sentenza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 23553 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 1 Num. 23553 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/08/2025
SENTENZA
sul ricorso n. 35431/2019 r.g. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE i n persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale alle liti su foglio separato in calce al ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni di cancelleria all’indirizzo pec indicato, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso il suo studio.
-ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA DIFESA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso, per mandato ex lege, dall’Avvocatura generale dello Stato e presso la stessa per legge domiciliati a Roma in INDIRIZZO
-controricorrente –
RAGIONE_SOCIALE in persona del curatore pro tempore, rappresentato e difeso, giusta procura speciale alle liti, dall’Avv. NOME COGNOME
-interventore-
avverso l’ordinanza della Corte di appello di Catania n. 1969/2018, depositata in data 3 giugno 2019.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/6/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito per i ricorrenti l’Avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
FATTI DI CAUSA
Con ordinanza n. 3088/2019, pubblicata in data 3/6/2019, la Corte di Appello di Catania dichiarava inammissibile la domanda proposta da RAGIONE_SOCIALE diretta ad ottenere la determinazione dell’indennità di acquisizione ex art. 42bis T .U. espropri, erroneamente liquidata, secondo la prospettazione della società opponente, dall’amministrazione procedente Ministero della Difesa in € 4.343.684,47.
La Corte territoriale rilevava che la società proprietaria, con missiva del 31/7/2018 indirizzata al Ministero della Difesa, aveva accettato l’indennità offerta (pari ad € 4.343.684,47), con conseguente accordo negoziale intervenuto tra le parti, avente ad oggetto l’individuazione dell’indennizzo dovuto.
La Corte di merito rilevava, altresì, che la società proprietaria non aveva contestato l’accettazione, ma aveva affermato che l’op-
posizione era esperibile anche in presenza di accettazione, non trovando applicazione per la fattispecie di acquisizione sanante la speciale disciplina dell’art 20 c. 5 d.P.R. 327/2001.
La Corte territoriale ha, invece, ritenuto applicabile analogicamente all’acquisizione sanante la disciplina del citato articolo sull’irrevocabilità della dichiarazione di accettazione, preclusiva di ogni successiva contestazione.
In ogni caso, la Corte di merito ha ritenuto conducente alla medesima conclusione, anche in assenza di applicazione dell’art. 20 comma 5 TUE, il principio generale che prevede la possibilità per le parti, nell’ambito di un procedimento amministrativo, di definire una questione avente ad oggetto diritti disponibili (quale l’indennità espropriativa) in via negoziale.
Avverso tale ordinanza la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, resistito con controricorso dal Ministero della Difesa.
Il ricorso è stato fissato per la trattazione in camera di consiglio. La società ricorrente e la curatela del fallimento della società, che in data 10 luglio 2020 è intervenuta in giudizio costituendosi a mezzo dello stesso difensore della ricorrente e dando atto della declaratoria del fallimento della società sopravvenuto nelle more, hanno depositato memoria illustrativa.
Questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 195 del 2025, ha disposto la trattazione della controversia in pubblica udienza.
Hanno depositato identica memoria scritta la società RAGIONE_SOCIALE e il fallimento RAGIONE_SOCIALE, con lo stesso difensore.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la «violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, primo
comma, n. 3, c.p.c., con riferimento all’art. 2909 c.c., e con riferimento agli artt. 1236 e 1326 c.c., e relative disposizioni connesse.
In particolare, ad avviso della ricorrente, la decisione della Corte territoriale sarebbe in contrasto con il giudicato formatosi in base alla sentenza del TAR di Catania n. 1107/2016 ed alla sentenza n. 229/ 2018 del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia; deduce che con le suddette pronunce il Ministero della Difesa era stato condannato alla restituzione del bene previa riduzione in pristino, oltre al risarcimento del danno per occupazione illegittima, oppure ad emettere decreto di acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, con corresponsione del valore venale del bene maggiorato del 10% per danno non patrimoniale, e risarcimento per occupazione illegittima dal 15/1/76, consistente nell’interesse del 5% sul valore venale al momento dell’acquisizione.
Rimarca che l’Amministrazione non aveva minimamente rispettato «i criteri indicati» nelle predette sentenze, coperte da giudicato, e che l’occupazione usurpativa illegittima era durata oltre 42 anni (dal 1973), come appunto riconosciuto dalle due sentenze di primo e secondo grado passate in giudicato ed alle quali il Ministero era stato costretto a dare esecuzione; deduce la ricorrente di non aver mai rinunciato ad esigere l’esecuzione di quanto disposto dalle citate sentenze passate in giudicato e, dunque, la Corte di Appello, dichiarando l’inammissibilità del ricorso, erroneamente ha ritenuto satisfattiva l’esecuzione solo parziale ed errata di tali sentenze, in contrasto con il giudicato formatosi sulla misura dell’indennizzo che il Ministero era stato condannato a corrispondere (violazione art. 2909 c.c.), e di fatto ravvisando nella specie una rinuncia invece inesistente.
Lo stesso decreto di acquisizione sanante del 19 settembre 2018, notificato il 2 ottobre 2018, dava espressamente atto che in esito
alla «proposta transattiva» della COGNOME «seguiva la controproposta da parte dell’Amministrazione Militare, che veniva rifiutata dalla Società medesima in data 25 luglio 2017», sicché nessun accordo negoziale (o transattivo) era stato raggiunto tra le parti, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, che era perciò incorsa nel vizio di errata e falsa applicazione dell’art. 1326 c.c.
La società ha accettato l’importo liquidato «solo nel convincimento e nel presupposto di ricevere l’intero importo dovuto», senza però rinunciare all’esecuzione della sentenza di condanna del TAR, confermata dal Consiglio di giustizia amministrativa.
Con il secondo motivo la ricorrente si duole della «violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., con riferimento agli articoli 20 e 42bis d.P.R. n. 327/2001.
Sottolinea la diversità del procedimento di cui all’art. 20 del d.P.R. n. 327/2001 da quello regolato dall’art. 42bis del medesimo decreto e di conseguenza afferma che non può trovare applicazione analogica in quest’ultimo diverso procedimento quanto previsto nel primo, in particolare con riguardo all’«irrevocabilità» dell’accettazione dell’importo calcolato dall’Amministrazione, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale.
La ricorrente rileva che il provvedimento di acquisizione all’esito della procedura di cui all’art. 42bis del d.P .R. n. 327/2001, che prende avvio da una precisa situazione fattuale, ossia dall’occupazione e utilizzazione senza titolo e abusiva del bene immobile di proprietà del privato per scopi di interesse pubblico, trova impulso in base all’esclusiva iniziativa iure imperii dell’amministrazione utilizzatrice del bene immobile, e si conclude senza alcuna possibilità per il soggetto proprietario di poter interloquire, presentando osservazioni scritte e/o depositando documenti volti a contestare l’indennizzo liquidato.
Rimarca, infine, che l’art. 42bis citato non prevede la facoltà del privato di accettare o rifiutare l’indennità.
Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce «l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.».
Deduce che la terza perizia dell’Agenzia del Demanio, redatta il 14/6/2018, su cui era stata effettuata la quantificazione dell’indennità, era stata elaborata sulla base di dati errati (in particolare errata destinazione urbanistica ed errato calcolo superfici fabbricati) e che la conoscenza dell’erroneità suddetta, da parte dell’odierna ricorrente, era stata successiva al provvedimento di acquisizione sanante.
Rimarca che, in esito alle pronunce di condanna rese dalla giustizia amministrativa e passate in giudicato, il Ministero della Difesa aveva optato per l’esercizio dell’acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327/01 e, pertanto, aveva chiesto all’Agenzia del Demanio una valutazione dei terreni di cui in premessa.
Sottolinea la ricorrente che la stessa Agenzia del Demanio aveva già eseguito due perizie, una nel 2014 e una nel 2016, e in queste stime era stata indicata l’estensione corretta del terreno e dei fabbricati (in mq.); l’Agenzia del Demanio aveva consegnato al Ministero il suo nuovo elaborato peritale n. 934/2018 in data 14 giugno 2018, e il provvedimento di acquisizione sanante era stato emesso il 19 settembre 2018 e notificato il 2 ottobre 2018, sia per il terreno che per i fabbricati (pertanto il valore del bene, nel suo complesso, da risarcire andava stabilito a quella data).
La nuova perizia dell’Agenzia del Demanio non era stata comunicata alla società ricorrente, la quale, pertanto, non era stata messa in condizione di controllare l’operato dell’Agenzia del Demanio ed i
criteri da quest’ultima impiegati per la determinazione dell’indennità di acquisizione sanante.
In particolare, la COGNOME non aveva avuto chiaramente modo di controllare se i fabbricati fossero stati conteggiati nella loro interezza (il Demanio ne aveva inspiegabilmente conteggiato la metà circa) e se il terreno fosse stato valutato per la destinazione urbanistica che aveva al giugno 2018 (rivelatasi non più agricola ma edificatoria); solo in esito alla comunicazione del Comune di Pachino del 18 ottobre 2018 (successiva di qualche giorno al decreto), la ricorrente aveva potuto verificare le reali misure riportate in perizia dalla Agenzia del Demanio, e si era accorta così che nell’ultima perizia dell’Agenzia del Demanio era riportata la superficie corretta del terreno, in linea con le precedenti perizie, ma risultavano inopinatamente ridotte le superfici dei fabbricati, dato che l’indennizzo era stato calcolato non sulla superficie totale degli stessi, ma soltanto su parte di essi (circa 600 mq. in meno della superficie totale e reale).
Inoltre – ad avviso della ricorrente – l’Agenzia del Demanio, senza verificare le vere ed attuali destinazioni d’uso e senza controllare le precedenti perizie, aveva degradato a mera area agricola il terreno, che invece aveva vocazione edificatoria alla data del decreto di acquisizione sanante; gli errori suindicati dell’Agenzia del Demanio e della preposta Commissione per la verifica della congruità della valutazione estimativa, di cui pure il decreto di acquisizione sanante aveva dato atto, avevano causato gravissimi danni alla ricorrente, nell’ordine di diversi milioni di euro, e la società mai avrebbe firmato l’adesione del 31 luglio 2018, se solo avesse avuto minima contezza dei suddetti errori.
Del resto, il Comune di Pachino aveva fin dal novembre 2017 avvertito che stava per cambiare la destinazione urbanistica dei terreni.
L’accettazione prestata dalla società a ricevere «l’indennizzo spettante, determinato ai sensi dell’art. 42bis del d.P.R. 327/ 20001» non poteva ritenersi «incontestata» nel presente giudizio e tantomeno preclusiva di successive contestazioni, «in quanto carpita con artifizi e frutto di errore determinante dipeso da colpa della controparte».
Anche alla stregua di dette considerazioni, a giudizio della ricorrente, l’accettazione del 31 luglio 2018 non risultava preclusiva della proponibilità del ricorso in opposizione, perché riferita esclusivamente all’indennizzo spettante ex art. 42bis T.U.E. e, in ogni caso, anche a volere intendere l’accettazione nel senso indicato nella sentenza impugnata, essa era da ritenersi viziata alla radice per errore determinante ricaduto sull’oggetto e/o dolo della controparte, o comunque per difetto del consenso.
4. Il primo motivo è infondato.
4.1. Si rileva che negli anni ’70 la RAGIONE_SOCIALE e la società RAGIONE_SOCIALE hanno concordato, a seguito di negoziazioni, la possibile stipulazione di un atto di permuta con cui si impegnano reciprocamente: a) la società RAGIONE_SOCIALE a cedere alla RAGIONE_SOCIALE un fondo di sua proprietà, dell’estensione di mq 60.250,00, sito nel territorio di Siracusa in località INDIRIZZO», contraddistinto in catasto al foglio di mappa n. 32, particelle 410 e 45, con annessi fabbricati; b) la Marina militare a cedere, in cambio, alla società RAGIONE_SOCIALE il compendio immobiliare denominato «ex Stazione Radiogoniometrica di Capopassero», comprendente una parte del litorale denominato «Spiaggia Pizzuta», identificate in catasto al foglio di mappa n. 42, particelle 101, 105, 1341 e 135, unitamente ad altri beni dello Stato da individuare concordemente, fino alla concorrenza del valore del fondo ceduto dalla società.
In data 26/6/1972, la Marina militare provvedeva alla consegna provvisoria in favore della società della ex RAGIONE_SOCIALE.
La società effettuava alcune opere di sistemazione per rendere la sua area, sita in località Chiusa Garrano, idonea alle esigenze della Marina militare.
Il 10/12/1973, in attesa del perfezionamento del definitivo accordo e della stipula dell’atto di permuta, al presumibile fine di regolarizzare la detenzione e/o, comunque, di formalizzare un titolo di regolare possesso, il Comando militare marittimo della Sicilia adottava un provvedimento di occupazione di urgenza a scopo espropriativo del fondo Chiusa Garrano (fondo che doveva essere ceduto in permuta da parte della società RAGIONE_SOCIALE, in cambio dell’acquisizione definitiva dell’ex stazione Radiogoniometrica.
Tra l’altro, sorgeva l’esigenza dell’amministrazione di mantenere in proprietà una porzione della «INDIRIZZO», per collocarvi un radar militare; ciò che avrebbe reso in tutto o in parte inidoneo alla progettata destinazione turistico-alberghiera il tratto della suddetta area.
4.2. Il Tar per la Sicilia, con sentenza n. 1107 del 2016, condannava l’Amministrazione a restituire alla società, previa riduzione in pristino, il terreno occupato, con risarcimento del relativo danno per l’occupazione illegittima, ovvero, in alternativa, «ad acquisire il bene e risarcire il danno derivante dall’occupazione illegittima ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 42bis d.P.R. n. 327/2001».
4.2. Il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana, con sentenza n. 229 del 2018, evidenziava, da un lato (in risposta al secondo motivo di impugnazione) che non vi era stata usucapione del terreno da parte della P.A. e, dall’altro (replicando al terzo motivo di appello), che la durata dell’occupazione di urgenza
era di due anni, ossia del termine ordinario, in assenza di un termine diverso stabilito dal demanio militare.
Con riferimento ai motivi di appello quinto, sesto e settimo, evidenziava l’assenza di errori nella condanna da parte del Tar nei confronti della P.A. al risarcimento dei danni, essendo corretti criteri indicati per la liquidazione del danno.
Il valore venale del terreno doveva essere quello relativo al momento dell’adozione del provvedimento di acquisizione sanante, ossia al momento del trasferimento della proprietà.
Si ribadiva che il meccanismo indennitario/risarcitorio di cui alla acquisizione sanante prevedeva un numero chiuso di voci, concernente il danno riconoscibile, attraverso un meccanismo volto alla liquidazione di un corrispettivo onnicomprensivo, calcolato per alcune voci in modo forfettario.
Il danno non patrimoniale poi era indicato dall’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001 in misura pari al 10% del valore venale dell’immobile.
La stima dell’area, per come effettuata dall’Agenzia del demanio, non era «inficiata da vizi logici o da percepibili contraddizione».
Il fatto che al momento dell’occupazione l’area facesse parte di una più vasta zona destinata a «verde pubblico» non comportava affatto che essa fosse del tutto inedificabile.
Tra l’altro, anche le zone a destinazione agricola mantenevano un seppure limitato indice di edificabilità.
Ciò escludeva in radice che l’area fosse totalmente inidonea ad ospitare manufatti edili, «come del resto è stato dimostrato dagli eventi».
L’Agenzia del demanio aveva invece «equilibratamente tenuto conto proprio della (pur limitata) potestà edificatoria dell’area in questione, oltreché del valore dei manufatti regolarmente realizzati (e
tuttora insistenti nell’area)», sicché la stima risultava sufficientemente «attendibile e convincente».
Per tali ragioni, il giudice d’appello reputava che il Tar aveva «correttamente attribuito alla società RAGIONE_SOCIALE il risarcimento per il ‘danno non patrimoniale’».
Come si vede, il Giudice amministrativo, sia in primo grado che in appello, si è limitato ad ordinare o la restituzione del bene alla società ricorrente, oppure l’adozione del provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, nel rispetto, ovviamente, di tutte le voci di danno contemplate da tale norma.
Non risulta formato, invece, alcun giudicato sull’esatto ammontare dell’indennità spettante alla società ricorrente a seguito del provvedimento di acquisizione sanante emesso dal Ministero della Difesa.
Sono destituite di fondamento, allora, le lamentate violazioni dell’art. 1236 c.c., in ordine ad una asserita rinuncia della società RAGIONE_SOCIALE a quanto disposto dalle sentenze del Giudice amministrativo, passate in giudicato, e in ordine alla mancata conclusione dell’accordo ex art. 1326 c.c.
Si ribadisce che le sentenze del Tar Sicilia e del Consiglio di giustizia amministrativa, rese dalle parti, non hanno statuito in ordine alla corretta quantificazione dell’indennità spettante alla società, né hanno determinato l’entità pecuniaria dell’indennizzo.
Il secondo motivo è infondato.
6.1. La questione posta dal secondo motivo di ricorso – come evidenziato nell’ordinanza interlocutoria di questa Corte n. 195 del 2025 – concerne l’applicabilità, in via analogica o di interpretazione estensiva, del quinto comma dell’art. 20 d.P.R. n. 327/2001 alle fattispecie di acquisizione sanante disposte ex art. 42bis dello stesso d.P.R.
Il citato art. 20 disciplina la determinazione provvisoria dell’indennità di espropriazione nell’«ordinario» procedimento ablatorio, ossia in quello legittimamente svoltosi, che ai commi quarto e quinto comma prevede: «4. L’atto che determina in via provvisoria la misura dell’indennità di espropriazione è notificato al proprietario con le forme degli atti processuali civili e al beneficiario dell’esproprio, se diverso dall’autorità procedente. 5. Nei trenta giorni successivi alla notificazione, il proprietario può comunicare all’autorità espropriante che condivide la determinazione della indennità di espropriazione. La relativa dichiarazione è irrevocabile».
Il comma 14 del citato art. 20 recita: «Decorsi inutilmente trenta giorni dalla notificazione di cui al comma 4, si intende non concordata la determinazione dell’indennità di espropriazione. L’autorità espropriante dispone il deposito, entro trenta giorni, presso la Cassa Depositi e Prestiti Spa, della somma senza le maggiorazioni di cui allo art. 45. Effettuato il deposito, l’autorità espropriante può emettere ed eseguire il decreto di esproprio».
6.2. L’art. 42bis , al comma 4 ultima parte, per quanto ora di interesse, dispone: «Nell’atto è liquidato l’indennizzo di cui al comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L’atto è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell’art. 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente ed è trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi dell’art. 14, comma 2».
7. La Corte di merito ha affermato che il principio dell’irrevocabilità della dichiarazione di accettazione, dettato dal comma 5 del citato art. 20, è «applicabile analogicamente all’istituto previsto e
disciplinato dall’art. 42bis , ricorrendo nelle due fattispecie una medesima ratio , nel senso che entrambe le procedure, pur seguendo iter diversi, pervengono al medesimo risultato dell’espropriazione del bene in favore della Pubblica amministrazioneA (pag. 4 dell’ordinanza impugnata).
7.1. Le parti ricorrenti rimarcano, invece, la radicale diversità dell’istituto della cd. acquisizione sanante, che presuppone una situazione fattuale di partenza connotata dalla natura abusiva e senza titolo dell’attività posta in essere dall’Amministrazione, che riceve impulso da un’iniziativa iure imperii della parte pubblica espropriante volta sì ad acquisire il bene del privato, ma per porre rimedio ad una pregressa e irreversibile situazione irregolare e, infine, che il procedimento si conclude con la liquidazione dell’indennizzo e il successivo pagamento o deposito, senza che sia prevista dalla norma la possibilità per il privato proprietario di interloquire preventivamente in ordine alla quantificazione e anche di essere informato sui criteri e calcoli utilizzati.
7.2. Il Ministero afferma che le procedure ex art. 20 ed ex art. 42bis hanno una comune matrice e natura, trattandosi di procedure espropriative, che la ratio dell’irrevocabilità dell’accettazione dell’indennità è volta a favorire una determinazione consensuale dell’indennizzo, sussistente anche quando si verte in ipotesi di cd. acquisizione sanante e su tale ratio non influirebbe la mancata previsione della fase interlocutoria relativa alla presentazione di osservazioni da parte dell’espropriato, poiché l’esproprio sanante interviene in base ad una situazione pregressa già ben conosciuta dalla parte privata, come assume conclamato nel caso in esame, in cui per l’appunto dopo lungo tempo era intervenuta l’acquisizione sanante.
In definitiva, secondo il controricorrente Ministero, il comma 5 dell’art. 20 è espressione di un principio generale valevole indistin-
tamente per tutte le procedure espropriative, dunque compresa quella che si conclude con l’acquisizione sanante, e il difetto di preventiva informazione e interlocuzione con la parte privata in quest’ultima procedura non avrebbe alcuna incidenza di rilievo perché la stessa si innesta su «una situazione pregressa già ben conosciuta» (pag. 7 controricorso) dall’espropriato.
Si tratta, dunque, di stabilire se lo schema procedimentale dettato dall’art. 42bis , in coerenza con la natura di rimedio non ordinario ma diretto a «sanare» situazioni irregolari (espropriazioni indirette) con il provvedimento con cui si conclude, abbia una propria regolamentazione autonoma e distinta da quella prevista dal T.U.E. per il modello procedimentale dell’espropriazione «ordinaria».
In altri termini, per la tesi della ricorrente, il provvedimento di acquisizione sanante ha natura di rimedio eccezionale, si pone come extrema ratio solo a fronte dell’inesistenza di valide alternative per la P.A. rispetto a quella di acquisire la proprietà dell’area interessata dalla sua illegittima occupazione ed utilizzazione, ed inoltre postula la necessaria rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico a disporre l’acquisizione (cfr. Corte Cost. n. 71/2015). Pertanto, ad avviso della ricorrente, al procedimento che si conclude con l’adozione di detto provvedimento non è possibile applicare analogicamente, né estendere in via interpretativa la disciplina dettata, per quanto ora di rilevanza, per la determinazione provvisoria dell’indennità «ordinaria» di espropriazione.
A ciò osta, secondo la ricorrente, non solo la diversità della situazione fattuale di partenza e della specifica e peculiare finalità di “sanatoria” del rimedio di cui trattasi, ma anche e soprattutto il difetto di preventiva informazione al privato e di preventiva interlocuzione con lo stesso circa la quantificazione del valore attribuito al bene, invece espressamente prevista per lo schema procedimentale
di cui all’art. 20, atteso che, diversamente opinando, ossia sancendo l’irrevocabilità incondizionata di un’accettazione così prestata, potrebbe ravvisarsi anche il contrasto con l’art. 1 del Primo Protocollo allegato alla CEDU.
Risulta maggiormente convincente la tesi del Ministero controricorrente, fatta propria dalla Corte d’appello con la sentenza impugnata.
Vanno valorizzate le caratteristiche essenziali dei due procedimenti (quello ordinario di espropriazione e quello di acquisizione sanante) in quanto entrambi tendenti al trasferimento della proprietà in favore della Pubblica Amministrazione, a seguito di provvedimenti autoritativi della stessa.
Pur essendovi, quindi, inequivocabili differenze procedimentali, va focalizzata l’attenzione proprio sulla finalità dei due procedimenti.
Quanto alle differenze, questa Corte, recentemente, ha ribadito che l’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001 costituisce una sorta di «procedimento espropriativo semplificato ed eccezionale» che assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio (Cass., sez. 1, 16/4/2025, n. 10078).
Si è anche sottolineato che trattasi di una procedura espropriativa «eccezionale e complessa», prevedendosi un provvedimento specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, con la valutazione comparativa con i contrapposti interessi privati, evidenziando anche l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione (Cass. n. 10078 del 2025).
Sulla base di tali premesse, si è ritenuto che «in presenza di modifiche sostanziali e procedimentali così rilevanti, tra il procedimento di espropriazione ordinaria e quello di acquisizione sanante non è consentito impugnare la mera comunicazione di avvio del procedi-
mento amministrativo, contenente anche la stima provvisoria dell’indennità».
Nel procedimento di espropriazione sanante, dunque, si consente al proprietario di impugnare esclusivamente il provvedimento definitivo di acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, non essendo possibile per il privato la proposizione di una generale azione di riconoscimento della giusta indennità (Cass., n. 10078 del 2025; Cass. sez. 6-1, 15/10/2020, n. 22298).
Epperò, proprio in relazione al fatto che il provvedimento di acquisizione sanante conclude il relativo procedimento e determina il trasferimento della proprietà, proprio come accade nell’ambito della espropriazione ordinaria attraverso l’adozione del decreto di esproprio, si è ritenuto che il decreto di acquisizione sopravvenuto costituisca una condizione dell’azione, la cui mancanza impedisce l’accoglimento della domanda, potendo però sopraggiungere in corso di giudizio (Cass. n. 10078 del 2025).
11. Ciò induce a ritenere che, pur mancando ogni richiamo da parte dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001 al procedimento ordinario di espropriazione e, in definitiva, al comma 5 dell’art. 20, che sancisce la possibilità per il proprietario di comunicare all’autorità espropriante la condivisione della determinazione dell’indennità di esproprio, con la conseguenza che la relativa dichiarazione «è irrevocabile», tuttavia non può disconoscersi che la irrevocabilità di tale dichiarazione del privato rientri nel procedimento espropriativo, sia esso ordinario, sia esso finalizzato all’adozione del decreto di acquisizione sanante, trattandosi di un principio generale espropriativo.
Del resto, la determinazione provvisoria dell’indennizzo mira essenzialmente alla conclusione della cessione volontaria del bene, come previsto dal comma 9 dell’art. 20 del d.P.R. n. 327 del 2001, nell’ambito dell’espropriazione ordinaria.
Stabilisce, infatti, il comma 9 dell’art. 20 citato che «il beneficiario dell’esproprio ed il proprietario stipulano l’atto di cessione del bene qualora sia stata condivisa la determinazione delle indennità di espropriazione e sia stata depositata la documentazione attestante la piena e libera proprietà del bene».
Vi è dunque uno stretto rapporto tra la determinazione provvisoria dell’indennità di espropriazione e la stipulazione della cessione volontaria del bene.
Proprio tale connessione giustifica l’irrevocabilità dell’accettazione da parte del proprietario dell’indennizzo provvisorio di cui al comma 5 dell’art. 20 citato.
Ed infatti, sempre il comma 9 dell’art. 20 del d.P.R. n. 327 del 2001 prefigura anche l’ipotesi in cui il privato, pur avendo irrevocabilmente accettato l’indennizzo provvisorio, si rifiuti però, per qualsiasi ragione, di stipulare l’accordo di cessione amichevole o volontaria del bene.
Si stabilisce nella norma che «nel caso in cui il proprietario percepisca la somma e si rifiuti di stipulare l’atto di cessione del bene, può essere emesso senza altre formalità il decreto di esproprio, che dà atto di tali circostanze, e può esservi l’immissione in possesso, salvo le conseguenze risarcitorie dell’ingiustificato rifiuto di addivenire alla stipula».
Entra in gioco, insomma, una volta conseguita l’accettazione da parte del privato, di natura irrevocabile, l’interesse pubblico al trasferimento della proprietà del bene in favore della Pubblica Amministrazione.
Tant’è vero che se il privato si rifiuta di stipulare l’atto di cessione del bene, pur avendo già accettato l’indennità provvisoria, può persino essere emesso il decreto di esproprio, che dà atto di tali circostanze.
La ratio della scelta del legislatore di qualificare come irrevocabile l’accettazione del privato è stata individuata nell’esigenza di evitare lungaggini procedimentali e il relativo contenzioso, superandosi l’orientamento giurisprudenziale precedente (in tal senso Cons. Stato, parere n. 4 del 2001).
Si era anche affermato in precedenza che l’accordo sull’indennità di cui all’art. 12 della legge n. 865 del 1971 configurava un contratto di natura pubblicistica i cui effetti non venivano meno né in caso di revoca dell’accettazione, se la revoca non fosse accettata dall’espropriante, né in caso di ritardo nel pagamento dell’indennità o nella pronuncia del decreto di espropriazione (Cass., sez. 1, 20/4/1994, n. 3770).
Si adombrava, dunque, la possibile revoca dell’accettazione.
11.1. In dottrina si è condivisibilmente affermato che la irrevocabilità ha il suo fondamento nella natura negoziale della dichiarazione di accettazione, che comporta la fusione della stessa con la proposta della P.A. in un atto negoziale unico, bilaterale.
L’irrevocabilità implica, in termini civilistici, l’assenza della facoltà per la parte di recesso unilaterale ex art. 1373 c.c.
Poiché la fase di determinazione dell’indennizzo provvisorio è strettamente connessa con la stipulazione della cessione volontaria, l’irrevocabilità dell’accettazione dell’indennità provvisoria si salda in modo indissolubile con il negozio traslativo.
Ciò vuol dire, come evidenziato dalla dottrina, che, da un lato risulta superata la giurisprudenza (Cass., sez. 1, 29/1/1997, n. 922) per cui la proposta di cessione da parte del privato è revocabile fino alla sua accettazione ex art. 1328 c.c. (come pure revocabile era allora l’accettazione sino a quando non fosse pervenuta nella sfera di conoscenza del proponente), e dall’altro, che l’accettazione irrevocabile della indennità provvisoria vale anche come proposta irre-
vocabile di cessione volontaria, tanto che dalla accettazione discende l’effetto dell’obbligo legale a stipulare il contratto.
Del resto, l’accordo amichevole sull’indennizzo, che costituisce il genus al cui interno può essere collocata l’accettazione irrevocabile dell’indennizzo, ha la finalità di semplificare la procedura pubblicistica e di ridurre la conflittualità giudiziaria (Cass., Sez. U, n. 2083 del 1994).
11.2. Le medesime ragioni non possono non valere anche nell’ipotesi di adozione del decreto di acquisizione sanante di cui all’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001.
Anche in questa ipotesi, non si può consentire al privato che abbia accettato l’indennizzo provvisorio indicato ed offerto nel provvedimento del 27/7/2018 della direzione dei lavori del demanio, di revocare il proprio consenso, melius re perpensa , in tal modo impedendo il trasferimento della proprietà dell’immobile alla Pubblica Amministrazione.
La deroga alla revocabilità della proposta e dell’accettazione consentita dall’art. 1328 c.c. costituisce anch’essa un principio generale ormai acquisito in tema di espropriazioni.
Tanto più che nell’ipotesi di acquisizione sanante vengono indicate espressamente le eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, anche in sanatoria di gravi violazioni commesse dalla P.A.
11.3. Può aggiungersi, a conforto di tale tesi, che proprio la connotazione del provvedimento di acquisizione sanante, che mira a disporre l’acquisizione, non retroattiva, al patrimonio indisponibile della Pubblica Amministrazione di un immobile che è stato occupato con gravi violazioni del procedimento espropriativo, non risulta neppure necessaria la fase procedimentale relativa all’invito nei confronti del proprietario a precisare, entro un termine non superiore a 20
giorni ed eventualmente anche in base ad una relazione esplicativa, quale sia il valore da attribuire all’area ai fini della determinazione dell’indennità di esproprio, ex art. 20, comma 2, del d.P.R. n. 327 del 2001.
Ed infatti, le osservazioni degli interessati, nei confronti dell’autorità espropriante, ex art. 20, comma 3, del d.P.R. n. 327 del 2001, risultano ultronee, in quanto si è in presenza di comportamenti illegittimi della Pubblica Amministrazione che si protraggono per numerose annualità e che presuppongono la piena conoscenza dei luoghi e delle situazioni da parte dei proprietari.
Il legislatore, insomma, ha voluto sopperire ad una serie di carenze e lacune della Pubblica Amministrazione nell’attuazione dei procedimenti espropriativi, attraverso un procedimento eccezionale, di natura in qualche misura semplificata, in modo da consentire da un lato l’immediato trasferimento della proprietà in favore della Pubblica Amministrazione, e dall’altro il ristoro pieno del danno in favore del privato.
11.4. Come correttamente rilevato dalla Procura Generale, poi, anche nel passato, con riferimento ad altro istituto espropriativo, costituito dall’accettazione dell’acconto dell’80%, già si era ritenuta sussistere una accettazione non revocabile del privato.
Ed infatti, in materia di espropriazione per pubblica utilità, il giudizio di determinazione dell’indennità di espropriazione e di occupazione d’urgenza postula che ne sussista il presupposto, costituito dalla mancanza di un’accettazione della stima provvisoria; non ricorre tale presupposto, qualora l’espropriato abbia chiesto il pagamento diretto dell’acconto, pari all’ottanta per cento delle indennità di espropriazione e di occupazione d’urgenza, previsto dall’art. 23, secondo comma, della legge 3 gennaio 1978 , n. 1, poiché tale evento presuppone appunto che l’espropriando abbia accettato le
menzionate indennità, non essendogli consentito pretendere la detta anticipazione ed al contempo rifiutare o contestare giudizialmente l’indennizzo offertogli dall’espropriante (Cass., sez. 1, n. 1567 del 2009; Cass., sez. 1, n. 15950 del 2005).
Il terzo motivo è inammissibile.
12.1. Nel motivo di ricorso la società si limita a dedurre la mancata valutazione di elementi istruttori, più che l’omesso esame di fatti decisivi, senza peraltro inquadrare in modo corretto la fattispecie, in assenza della qualificazione dell’accordo raggiunto tra le parti come contratto di diritto privato, oppure come contratto di diritto pubblico ex art. 20, comma 9, e 45 del d.P.R. n. 327 del 2001, oppure come mero accordo sull’ammontare dell’indennità.
In tal modo, la censura risulta mancante della dovuta specificità. Del resto, la mancata valutazione di elementi istruttori non configura la censura di motivazione in ordine all’omesso esame di fatto decisivo.
La ricorrente chiede una rilettura, non solo delle perizie redatte dall’Agenzia del demanio del 2014 nel 2016, ma anche di quella redatta il 14/6/2018, n. 934, asserendo errori nell’indicazione della superficie delle aree fabbricabili e l’erronea individuazione della destinazione urbanistica dei terreni, che sarebbe di natura edificabile e non meramente agricola, essendo stato utilizzato nella perizia del 14/6/2018 un certificato di destinazione urbanistica dell’anno 2017, non aggiornato.
Inoltre, l’articolazione del motivo presuppone la proposizione di una vera e propria azione di annullamento dell’accordo intercorso tra le parti ex art. 1428 c.c., in realtà mai proposta.
Senza contare che – in assenza di ogni riferimento alla cessione volontaria nella ordinanza della Corte di appello – il motivo assume carattere di novità, non essendo neppure indicato in quale momento
dei giudizi di merito la questione sarebbe stata eventualmente sollevata.
Le spese del giudizio di legittimità vanno compensate interamente tra le parti, stante la novità della questione trattata.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 12 giugno 2025