Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 4055 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 4055 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 14/02/2024
ORDINANZA
nel ricorso R.G. n. 4753/2018
vertente tra
Comune di Nettuno , in persona del sindaco pro tempore , elettivamente domiciliato in Frascati, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, che lo rappresenta e difende in virtù di procura speciale in atti;
ricorrente
e
COGNOME NOME NOME elettivamente domiciliata in RomaINDIRIZZO INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, che lo rappresenta e difende in virtù di procura speciale in cale alla memoria difensiva ex art. 380 bis .1 c.p.c.;
contro
ricorrente
avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 4345/2017, pubblicata il 01/07/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/12/2023 dal Cons. NOME COGNOME;
letti gli atti del procedimento in epigrafe;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza n. 454/2012, il Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Anzio, respingeva l’opposizione ex art. 645 c.p.c. promossa dal Comune RAGIONE_SOCIALE Nettuno contro il decreto ingiuntivo, emesso su istanza di COGNOME NOME per il pagamento della somma di € 237.071,34, oltre spese ed accessori, in forza di scrittura privata, sottoscritta il 10/04/2008, munita di autentica notarile.
Tale scrittura, denominata ‘costituzione di titolo per la trascrizione di avvenuto trasferimento di proprietà a seguito di occupazione acquisitiva’, prevedeva la cessione in favore del Comune di un terreno di 3.531 mq che, come previsto nel piano di zona, approvato in variante al P.R.G., avrebbe dovuto essere espropriato per la realizzazione un compendio destinato ad edilizia economicopopolare ma, a seguito dell’occupazione d’urgenza era stato irreversibilmente trasformato, senza che fosse stato adottato il decreto di esproprio. Stabiliva, inoltre, il versamento di € 118.535.67 quale prezzo della cessione, che veniva effettuato in regime di contestualità, e la previsione del pagamento, entro il mese di aprile 2009, dell’ulteriore somma di € 237.071,34 a titolo di contributo di miglioria in favore del COGNOME, in conformità a quanto stabilito nella determinazione della Giunta municipale n. 7 del 2007, che aveva riconosciuto al COGNOME l’indennità aggiuntiva prevista dall’art. 17 l. n. 865 del 1971, in qualità di coltivatore diretto del fondo, stabilendone anche l’entità.
Il Tribunale aveva affermato che detta scrittura era un atto traslativo iure privatorum , ritenendo che -alla data della sottoscrizione -erano già decorsi i termini di legge fissati per l’occupazione di urgenza.
Proposto appello da parte del Comune, nel contraddittorio delle parti, la Corte territoriale respingeva l’impugnazione, ma qualificava diversamente il menzionato atto.
La Corte di merito evidenziava, in particolare, che, dalla lettura della premessa contenuta nell’atto del 10/04/2008 e dall’esame della documentazione acquisita al processo, emergeva con chiarezza che le parti avevano inteso definire la lunga vicenda acquisitiva delle aree rientranti nel piano di Edilizia Economica e Popolare -zona 167 -in località Eschieto e che avevano formalizzato l’avvenuta occupazione acquisitiva dei beni, redigendo un atto idoneo alla trascrizione, che riproduceva, per gli aspetti economici, gli importi già fissati nelle determinazioni del Comune.
Tale atto, secondo la Corte d’appello, doveva essere qualificato come un atto ricognitivo di natura transattiva, ai sensi dell’art. 1965, comma 2, c.c., che, pertanto, non poteva essere impugnato per l’errore prospettato dal Comune.
Avverso tale statuizione ha proposto ricorso per cassazione il Comune di Nettuno, affidato a sei motivi di impugnazione.
L’intimato si è difeso con controricorso e ha depositato memoria ex art. 380 bis .1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Secondo il ricorrente, la Corte di appello «ha omesso totalmente di pronunciarsi sul primo motivo di appello del Comune di Nettuno» , riguardante la ritenuta erroneità della pronuncia di primo grado, nella parte in cui il Tribunale aveva qualificato l’atto del 10/04/2008 come una compravendita regolata dal diritto privato, sul presupposto che la dichiarazione di pubblica utilità aveva perso efficacia già nell’ottobre 2004, in ragione del decorso del termine quinquennale, computato dall’adozione della variante al P.R.G. da parte del Comune (nella specie effettuata con la delibera della Giunta comunale n. 57 del 1999), e non dall’approvazione
della stessa da parte della Regione, come invece riteneva il ricorrente, che giungeva solo il 15/05/2003, cui era seguita l’occupazione d’urgenza in forza del decreto sindacale n. 1 del 21/06/2003.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 11 l. n. 865 del 1971, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – per il caso in cui si dovesse ritenere che il giudice di appello abbia recepito la statuizione di primo grado, nella parte in cui ha ritenuto intervenuta la ‘decadenza’ della procedura espropriativa – poiché tale statuizione si porrebbe in contrasto con le norme sopra indicate, tenuto conto che, in applicazione delle stesse (e in particolare dell’art. 11 l. cit.), la dichiarazione di pubblica utilità consegue all’approvazione in sede regionale della variante al P.R.G., e non alla mera adozione della stessa da parte del Comune, sicché, essendo intervenuta l’approvazione ad opera della Regione il 15/05/2003, la dichiarazione di pubblica utilità doveva ritenersi ancora efficace il 10/04/2008, quando è stato stipulato l’accordo in questione.
Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 17 e 20 l. n. 865 del 1971 e 22 bis e 43 d.P.R. n. 327 del 2001, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.
Il ricorrente ha, prima di tutto, affermato che, nella specie, doveva ritenersi applicabile la disciplina contenuta nella l. n. 865 del 1971, poiché il d.P.R. n. 327 del 2001 è entrato in vigore il 30/06/2003 e la dichiarazione di pubblica utilità era precedente, sicché, in conformità alla disciplina transitoria contenuta nell’art. 57 d.P.R. n. 327 del 2001, dovevano applicarsi le norme previgenti al menzionato d.P.R.
Il medesimo ricorrente ha, quindi, dedotto che, nella specie, a seguito dell’occupazione d’urgenza, regolata dall’art. 20 l. n. 865 del 1971, le aree erano state edificate, e irreversibilmente
trasformate, nel termine quinquennale di occupazione. Ha, poi, aggiunto che, dovendo procedersi alla regolarizzazione dell’avvenuta acquisizione al patrimonio pubblico, con determinazione n. 7 del 2007, il Comune aveva dato atto che era intervenuto l’accordo con i proprietari sulla determinazione del valore delle aree in € 33,57 al mq (come stabilito nella precedente determinazione n. 6 del 2003), aggiungendo che COGNOME NOME (unitamente ad altro proprietario) aveva dichiarato di essere coltivatore diretto.
Secondo il ricorrente, dunque, aveva errato la Corte di merito nel ritenere ‘decaduta’ la procedura espropriativa, perché emergeva per tabulas che l’occupazione d’urgenza era avvenuta nel giugno 2003 e che l’atto notarile era stato redatto nell’aprile 2008, senza che fosse decorso il quinquennio previsto dall’art. 20 l. n. 865 del 1971, risultando, peraltro, dalla determina n. 7 del 2007 che l’accordo per la formalizzazione del passaggio di proprietà era già intervenuto prima. Essendo ancora efficace la dichiarazione di pubblica utilità, l’unico strumento giuridico che poteva essere utilizzato per costituire un titolo idoneo alla trascrizione del passaggio di proprietà era l’accordo con gli espropriati, secondo lo schema della cessione volontaria di cui all’art. 17 l. 865 del 1971, che prevedeva una indennità pari al valore venale o di mercato del terreno (art. 16, l. cit.) e un’indennità aggiuntiva agli espropriati coltivatori diretti, la quale, però, doveva essere di importo inferiore a quello in concreto pattuito, perché doveva rispettare il disposto dell’art. 17, comma 3, l. cit.
Anche ritenendo applicabile il d.P.R. n. 327 del 2001, secondo il ricorrente, si perveniva, comunque, allo stesso risultato, dovendosi tenere conto della disciplina prevista dall’art. 22 bis per l’acquisizione sanante e dall’art. 43 per le ipotesi di occupazione senza titolo di beni nell’interesse pubblico.
Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1418 e 1419 c.c., non avendo la Corte di appello considerato che, dovendo ritenersi ancora efficace la dichiarazione di pubblica utilità, l’indennità aggiuntiva spettante al proprietario coltivatore diretto doveva essere calcolata secondo quanto previsto dall’art. 17, comma 3, l. n. 865 del 1971, con la conseguenza che la pattuizione, che prevedeva il relativo importo in misura grandemente maggiore in favore del proprietario, doveva ritenersi nulla per contrarietà a norme imperative e doveva essere sostituita con la previsione legale sopra menzionata.
Con il quinto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1965, 1966, 1969 c.c., perché la Corte di appello, dopo aver rilevato che l’accordo in questione si inseriva nella procedura espropriativa e si sostanziava nella formalizzazione di un passaggio di proprietà avvenuto con l’occupazione acquisitiva, accompagnato dall’adesione del proprietario ai valori già determinati in sede municipale per la determinazione dell’indennizzo e dell’indennità aggiuntiva, ha contraddittoriamente qualificato l’accordo come transazione, svincolandola del tutto dal quadro normativo di riferimento ed anche dalle delibere Comunali che avevano determinato le indennità dovute, definendo impropriamente l’indennità aggiuntiva come contributo di miglioria e quantificandola in modo diverso da quanto previsto dall’art. 17, comma 3, l. n. 865 del 1971. È, comunque, evidenziato che, qualora si ritenesse corretta la qualificazione dell’accordo in termini di transazione, essa avrebbe dovuto essere considerata nulla, in quanto relativa a diritti non disponibili, o comunque annullabile, per errore di calcolo.
Con il sesto motivo di ricorso è dedotta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e 1363 c.c. in relazione dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.
In particolare, il ricorrente ha affermato che la Corte d’appello ha erroneamente interpretato l’accordo del 10/04/2008 come transazione, sulla base di un unico dato testuale – contenuto in una parte introduttiva della convenzione, in cui si dice che, «al fine di evitare il maggior danno, a seguito degli accordi transattivi intercorsi, la parte cessionaria ha adottato la determinazione n. 7 del 23 gennaio 2007 …» – mentre invece avrebbe dovuto ricostruire la volontà delle parti in base alla lettura di tale clausola nella sua interezza (art. 1362 c.c.), dalla quale si evinceva che il richiamo alla menzionata determinazione era riferito all’intenzione di formalizzare il passaggio di proprietà con un atto suscettibile di trascrizione, secondo quanto stabilito nelle delibere comunali ( «… la parte cessionaria ha adottato la determinazione n. 7 del 23 gennaio 2007con la quale ha stabilito di formalizzare l’avvenuto trasferimento di proprietà …omissis… e di corrispondere al COGNOME» .
Inoltre, sempre secondo il ricorrente, la Corte non aveva interpretato le clausole le une per mezzo delle altre (art. 1363 c.c.), considerando, in particolare, che vi era il richiamo alla procedura ablativa in corso, agli atti che si sono susseguiti nella procedura, al regime fiscale applicato e al richiamo espresso alla disciplina della l. n. 865 del 1971, cosicché l’accordo non poteva non ritenersi l’atto finale di una procedura di esproprio da compiersi in ossequio alle norme che lo governano.
Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
La nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c. consente l’impugnazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» e non più «per omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio» .
La norma si riferisce al mancato esame di un fatto decisivo, che è stato offerto al contraddittorio delle parti, inteso come fatto storico, accadimento naturalistico.
Costituisce, pertanto, un fatto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non una questione o un punto, ma un vero e proprio evento, un preciso accadimento, una determinata circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 26274 del 18/10/2018).
Non integrano, viceversa, fatti il cui omesso esame possa cagionare il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 2268 del 26/01/2022; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 22397 del 06/09/2019; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 26305 del 18/10/2018; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 14802 del 14/06/2017), gli elementi istruttori in sé considerati, le domande o le eccezioni formulate nella causa di merito (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 16899 del 13/06/2023) e neppure i motivi di appello (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 29952 del 13/10/2022).
Come già affermato da questa Corte, l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello – così come l’omessa pronuncia su una domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere – non con la prospettazione del vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. e neppure con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., ma – attraverso la specifica deduzione della violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità, in tal caso giudice anche del fatto processuale, di effettuare l’esame, altrimenti precluso, degli atti del
giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 29952 del 13/10/2022).
Il secondo motivo di ricorso è anch’esso inammissibile, non avendo parte ricorrente colto la ratio della decisione impugnata.
Come sopra anticipato, il giudice di appello, dopo avere esaminato l’accordo del 10 /04/2008, evidenziandone gli aspetti ritenuti di rilievo (l’intestazione, il riferimento agli atti amministrativi presupposti, la qualificazione dell’importo dovuto come contributo di miglioria, il trattamento fiscale previsto), ha affermato quanto segue: «Nella premessa dell’atto e negli allegati dei fascicoli delle partì in lite parte pubblica emerge con chiarezza come sia il Comune che i proprietari avevano interesse a definire col COGNOME (come con gli altri proprietari dei terreni circostanti, giusta determine e delibere in atti) definitivamente la lunga vicenda acquisitiva delle aree rientranti nel piano di Edilizia Economica e Popolare·- zona 167 in località Eschieto. In tali premesse, le partì intesero formalizzare con un atto ricognitivo e di adesione ai valori fissati in sede municipale, l’avvenuta formalizzazione della occupazione acquisitiva con un atto idoneo alla trascrizione. Tanto avvenne con una transazione. Ne conseguì la espressa rinuncia all’ipoteca legale, da parte del COGNOME con espresso esonero di responsabilità per il Conservatore, “essendo come sopra regolato il prezzo di vendita’. La sentenza del Tribunale di Velletri – Anzio errò quindi nel qualificare l’atto di cui trattasi -·tout court – quale compravendita di diritto privato. L ‘atto sì inquadra in una più complessa procedura ablativa conclusa con un atto ricognitivo di natura transattiva ai sensi dell’art. 1965 comma 2 c.c. Infatti, dovendo la Corte procedere alla individuazione della natura dell’atto e della causa, non può che valorizzare il primo capoverso della seconda pagina detratto inter partes nel quale leggesi: “al fine di evitare il maggior danno, a seguito degli accordi transattivi intercorsi, la parte cessionaria ha adottato la deteminazione n. 72.
Da quanto sopra risulta evidente che le parti nell’accedere alla intesa oggetto di odierna impugnazione, hanno vagliato le rispettive contropartite rispetto alla operazione prospettata e sono giunte all’intesa transattiva per raggiungere -scambievolmente – a risultati giuridici e finanziari favorevoli. Ne consegue l’inoppugnabilità dell’accordo intercorso a causa dell’errore eventuale in cui è incorso il Comune poiché trattasi di ipotesi non prevista normativamente» (p. 5 e 6 della sentenza impugnata).
La Corte di appello ha chiaramente dato rilievo al riferimento contenuto dell’accordo esaminato alla c .d. occupazione acquisitiva che, com’è noto, corrisponde ad una fattispecie ben definita, distinta dalla c. d. occupazione usurpativa, all’epoca dell’accordo connotata anche da una specifica disciplina giuridica, ora definitivamente superata (cfr. Cass., Sez. U, Sentenza n. 735 del 19/01/2015).
Questa Corte ha anche di recente ricordato che, in tema di espropriazione per pubblica utilità, la cd. occupazione acquisitiva o accessione invertita si verifica quando alla dichiarazione di pubblica utilità non segue il decreto di esproprio, aggiungendo che essa è illegittima al pari della c.d. occupazione usurpativa, in cui invece manca del tutto la dichiarazione di pubblica utilità (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 12961 del 24/05/2018).
Il riferimento inequivoco alla occupazione acquisitiva, peraltro accompagnata agli ulteriori richiami alla procedura espropriativa, cui non è seguita l’adozione del decreto di esproprio, senza dubbio dimostra come il giudice di appello abbia voluto fare riferimento ad una fattispecie in cui, pur vigendo la dichiarazione di pubblica utilità, era stato occupato il terreno e realizzata l’opera prevista, senza che fosse intervenuto il decreto di esproprio.
La statuizione impugnata non si fonda, infatti, sulla ritenuta assenza di una dichiarazione di pubblica utilità, ma sull’accertata occupazione del terreno per l’esecuzione dell’opera prevista nel
piano di zona approvato (che vale come dichiarazione di pubblica utilità dell’opera prevista), seguita dalla trasformazione irreversibile del terreno stesso, che, in base a quanto sottoscritto nell’accordo, ha comportato la necessità di formalizzare il passaggio di proprietà al Comune e di determinare gli importi conseguentemente dovuti al COGNOME.
In tale quadro, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, l’esistenza della dichiarazione di pubblica utilità al momento dell’accordo, dunque, non è implicitamente esclusa, ma inequivocamente presupposta.
Anche il terzo motivo deve ritenersi inammissibile per due ordini di ragioni.
4.1. Come appena evidenziato, il ricorrente non risulta avere colto la ratio della decisione impugnata, poiché, contrariamente a quanto dallo stesso ritenuto, il riferimento all’intervenuta occupazione acquisitiva, contenuta nella sentenza impugnata, evidenzia come la statuizione non si fondi sulla ritenuta assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, ma, al contrario, sulla presenza della stessa.
4.2. Inoltre, la censura si mostra meramente assertiva, e dunque generica, in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., nella parte in cui afferma che, essendo vigente la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera realizzata, nonostante non si trattasse di una vera e propria cessione, perché occorreva solo regolarizzare l’avvenuta acquisizione delle aree al patrimonio pubblico, doveva necessariamente applicarsi la disciplina prevista per la cessione volontaria dell’opera.
Si deve a questo punto precisare che l’accordo tra il Comune e il COGNOME è intervenuto prima che venisse pronunciata la fondamentale decisione delle Sezioni Unite, che ha sancito il definitivo cambiamento di orientamento interpretativo in materia di
espropriazione per pubblica utilità (Cass., Sez. U, Sentenza n. 735 del 19/01/2015).
Con tale pronuncia si è affermato che la necessità di interpretare il diritto interno in conformità con il principio enunciato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui l’espropriazione deve sempre avvenire in “buona e debita forma”, comporta che l’illecito spossessamento del privato da parte della PRAGIONE_SOCIALE e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione, sicché il privato ha diritto a chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente.
L’orientamento più risalente (Sez. U, Sentenza n. 6853 del 06/05/2003), sotteso all’accordo in esame, riteneva, invece, quanto segue: a) la trasformazione irreversibile del fondo, con destinazione ad opera pubblica o ad uso pubblico, determina l’acquisizione della proprietà alla mano pubblica; b) il fenomeno, in assenza di formale decreto di esproprio, ha il carattere dell’illiceità, che si consuma alla scadenza del periodo di occupazione autorizzata (e, quindi, legittima), se nel frattempo l’opera pubblica è stata realizzata, oppure al momento della trasformazione qualora l’ingerenza nella proprietà privata abbia già carattere abusivo o se essa acquisti tale carattere perché la trasformazione medesima avviene dopo la scadenza del periodo di occupazione legittima; c) l’acquisto a favore della p.a. si determina soltanto qualora l’opera sia funzionale ad una destinazione pubblicistica e ciò avviene solo per effetto di una dichiarazione di pubblica utilità formale o connessa ad un atto amministrativo che, per legge, produca tale effetto (in caso contrario, non si produce l’effetto acquisitivo a favore della p.a. ed il proprietario può chiedere la restituzione del fondo occupato).
È per questo che, nell’accordo del 10/04/2008 oggetto del presente giudizio, si è ritenuto di dover formalizzare un acquisto della proprietà in capo all’Amministrazione già intervenuto per effetto della realizzazione dell’opera durante l’occupazione legittima.
Tuttavia, come appena evidenziato, anche nella vigenza dell’orientamento precedente, l’acquisto della proprietà mediante occupazione appropriativa era fonte non di un obbligo indennitario, ma di un obbligo risarcitorio derivante da fatto illecito della P.A.
Parte ricorrente non ha, pertanto, spiegato perché, in presenza della ritenuta necessità di redigere un titolo idoneo alla trascrizione, che regolarizzasse l’acquisto già intervenuto per opera della ritenuta occupazione acquisitiva, dovesse necessariamente applicarsi la disciplina della cessione volontaria delle aree, che costituisce una modalità di definizione della procedura espropriativa del tutto lecita e diversa da quella che connotava, per stessa allegazione del ricorrente, quella oggetto di giudizio.
Il quarto motivo di ricorso è inammissibile, difettando di specificità.
Nella sentenza impugnata si legge quanto segue: «… Circa il lamentato errore nella determinazione dell’indennità accordata all’appellato. Il rigetto della censura da parte del primo giudice derivò dalla qualificazione giuridica dal Tribunale data all’atto traslativo e dalla considerazione per la quale ben poteva il Comune, nell’ambito della autonomia negoziale delle parti, concordare la somma ed obbligarsi al relativo pagamento. Indipendentemente dal fatto che, negli atti presupposti e nelle determine ai fìni della fìssazione della somma, poi concordata, le parti abbiano fatto riferimento ai parametri di cui alla disciplina in materia espropriativa, va detto che dalla diversa qualificazione del negozio trascritto, ancorché non sia configurabile una compravendita, come
fatto dal primo giudice, ma una transazione deriva – comunque – la facoltà per il Comune di comportarsi “iure privatorum” …»
Il ricorrente, sul presupposto che nell’accordo in questione si era fatto espresso riferimento alla l. n. 865 del 1971 per l’individuazione della disciplina fiscale applicabile e alle determinazioni n. 7/2007 e n. 30/2008, per la quantificazione delle indennità spettanti, ha ritenuto che, nella specie, dovesse necessariamente applicarsi la disciplina prevista per la cessione volontaria delle aree dalla menzionata legge, con la conseguenza che occorreva liquidare al COGNOME, quale coltivatore diretto, una indennità aggiuntiva, secondo quanto stabilito dall’art. 17, comma 3, l. n. 865 del 1971 (in misura uguale al valore agricolo medio di cui al primo comma dell’articolo 16 l. cit., corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticato), rendendo la diversa pattuizione, che prevedeva un diverso e maggiore importo in favore del proprietario del fondo a titolo di contributo di miglioria, nulla ex art. 1418 c.c., per contrarietà a norma imperativa, trattandosi di cogente norma di carattere pubblicistico, e imponendo la sostituzione della relativa clausola ex art. 1419, comma 2, c.c.
Nell’impugnare tale statuizione, il Comune non ha spiegato perché ha ritenuto che la disciplina prevista dall’art. 17, comma 3, l. n. 865 del 1971 non potesse essere oggetto di un accordo che prevedesse un importo diverso.
La censura si presenta, pertanto, priva del carattere di specificità, perché fonda la censura su di un’asserzione priva di argomentazione, non illustrando le ragioni per le quali il Comune ritiene che la disciplina menzionata non poteva essere derogata in favore del proprietario del terreno oggetto di occupazione appropriativa che era anche coltivatore diretto del fondo.
Il quinto motivo è anch’esso inammissibile con riferimento ad entrambi i profili di censura.
6.1. In primo luogo, il Comune ha dedotto che, il giudice d’appello, ha contraddittoriamente qualificato l’accordo in questione come transazione, dopo aver collegato l’accordo stesso al procedimento espropriativo e alle delibere della Giunta comunale che avevano determinato le indennità spettanti, mentre invece avrebbe dovuto rilevare che si era trattato della formalizzazione di un passaggio di proprietà già avvenuto e di riportare nell’atto gli importi già determinati in sede municipale.
Nonostante sia dedotta la violazione delle norme che disciplinano il contratto di transazione, è tuttavia evidente che ciò che è censurato è il processo interpretativo del giudice di merito, cui la parte ha semplicemente contrapposto il proprio, operando una critica che riguarda la valutazione in fatto, e non l’applicazione di norme di diritto, come tale insindacabile in sede di legittimità.
6.2. In secondo luogo, e in evidente via gradata, è dedotto il mancato rilievo della nullità della transazione, perché attinente ad asseriti diritti indisponibili, come pure la prospettata annullabilità della transazione stessa sono enunciate senza alcuna argomentazione.
Ma tali critiche, formulate per il caso in cui si ritenesse corretta la qualificazione dell’accordo in questione come transazione, si rivelano aprioristicamente assertive e pertanto generiche in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., non spiegando il Comune quali disposizioni e per quali ragioni l’accordo avrebbe riguardato diritti indisponibili e perché vi era stato il dedotto errore di calcolo.
Anche il sesto motivo è inammissibile, sostanziandosi in una critica all’interpretazione operata dal giudice di merito, peraltro sulla base di argomenti che semplicemente contrappongono alle conclusioni cui è pervenuta la Corte d’appello la diversa opinione del Comune, senza peraltro spiegare perché tale diversa opinione escludesse la finalità transattiva dell’accordo.
In conclusione, il ricorso principale deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese di lite seguono la soccombenza e pertanto il ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese processuali sostenute dal controricorrente.
In applicazione dell’art. 13, comma 1 quater , d.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello spettante per l’impugnazione proposta, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte
dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di lite sostenute dal controricorrente, che liquida in € 7.000,00 per compenso, oltre € 200,00 per esborsi e accessori di legge; , d.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo quello dovuto per l’impugnazione proposta, se dà atto che, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater unificato, pari a dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione