Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 9191 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 9191 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16021/2016 R.G. proposto da :
COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, domiciliata ex lege in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
nonché contro
AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE II DI NAPOLI -intimata- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. della Campania n. 11678/2015 depositata il 21/12/2015.
nonché
sul ricorso iscritto al n. 16027/2016 R.G. proposto da :
COGNOME NOME, in proprio e nella qualità di socio accomandatario della RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME e COGNOME NOME, in proprio e nella qualità di socio accomandante della RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE) rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrenti-
contro
RAGIONE_SOCIALE, domiciliata ex lege in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587) che la rappresenta e difende
-controricorrente e ricorrente incidentalenonché contro
AGENZIA DELLE ENTRATE DI ROMA, AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE II DI NAPOLI
-intimate- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. della Campania n. 11681/2015 depositata il 21/12/2015.
nonché
sul ricorso iscritto al n. 16030/2016 R.G. proposto da:
COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, domiciliata ex lege in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587) che la rappresenta e difende
nonché contro
AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE II DI NAPOLI -intimata- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. della Campania n. 11677/2015, depositata il 21/12/2015.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14/11/2024 dal Co: COGNOME NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Quanto al ricorso iscritto a r.g.n. 16021/2016:
Il Signor NOME COGNOME è socio accomandante della cessata RAGIONE_SOCIALE, cancellata il 9 novembre 2010. Era attinto da avviso di accertamento notificatogli il 13 dicembre 2012 per l’anno di imposta 2006, con riferimento a mancata esposizione dei redditi della società e propri, in ragione di maggior ricchezza occultata su operazioni di compravendita immobiliare svolte dalla società, evidenziate nell’ambito di più vasta attività investigativa nella riviera partenopea.
Reagiva il contribuente esperendo azione avanti il giudice di prossimità, che annullava il provvedimento impositivo, ritenendone la tardività rispetto al quadriennio di riferimento, vertendosi in materia di redditi maturati nel 2006 e non esposti (in tutto o in parte) nel 2007, donde la potestà impositiva si esauriva nel dicembre 2011. Interponeva appello l’Ufficio, rilevando trattarsi di fattispecie di astratta rilevanza penale, qual è l’omessa esposizione dei redditi, ribadiva quindi la responsabilità dei soci per le obbligazioni societarie e, in primo luogo, per i doveri tributari, nei limiti della quota o illimitatamente a seconda trattarsi di accomandanti o accomandatari, anche sulla considerazione che la società era stata cancellata senza alcuna liquidazione.
L’impugnazione erariale trovava accoglimento, con rimodulazione a ribasso del dovuto, avendo altra pronuncia della medesima C.T.R. rivisto la ripresa a tassazione nei confronti della società e, quindi, proporzionalmente ridotto il dovuto in capo al contribuente che, comunque ricorre per cassazione, affidandosi a quattro motivi, cui replica l’Agenzia delle entrate con tempestivo controricorso.
Quanto al ricorso rgn. 16027/2016:
Nell’ambito di una più vasta attività di contrasto alle frodi fiscali in materia di compravendita immobiliare, la Guardia di Finanza individuava operazioni non dichiarate al fisco per l’anno di imposta 2006 da parte della società RAGIONE_SOCIALE NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE, estinta e cancellata dal registro delle imprese in data 9 novembre 2010. Pertanto, veniva formato avviso di accertamento in capo alla società e, tanto per trasparenza quanto come legittimi successori, corrispondenti avvisi di accertamento erano emessi in capo al socio accomandatario NOME COGNOME e, limitatamente alla sua quota, nei confronti del socio accomandante NOME COGNOME il tutto notificato in data 13 dicembre 2012.
I soci NOME e NOME COGNOME reagivano esperendo ricorso avanti al giudice di prossimità, che non apprezzava le loro ragioni, mantenendo intatto l’impianto impositivo.
Diversa sorte aveva il giudizio di appello, ove il collegio di secondo grado rimodulava al ribasso la ripresa a tassazione, espungendo alcune voci e, per quanto qui maggiormente interessa il prosieguo, riconoscendo altresì un credito Iva maturato nel precedente esercizio 2005 e da portarsi a deduzione nell’anno 2006, qui in contestazione.
Avverso questa sentenza propongono ricorso congiuntamente i soci NOME e NOME COGNOME per conto dell’estinta società RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE, affidandosi a quattro strumenti cassatori, cui replica con tempestivo controricorso l’Agenzia delle entrate , interponendo altresì ricorso incidentale per
uno dei capi di propria soccombenza, articolato su unico motivo di impugnazione.
Quanto al ricorso rgn. 16030/2016:
Il Signor NOME COGNOME è socio accomandatario della cessata RAGIONE_SOCIALE, cancellata il 9 novembre 2010. Era attinto da avviso di accertamento notificatogli il 13 dicembre 2012 per l’anno di imposta 2006, con riferimento a mancata esposizione dei redditi propri, in ragione di maggior ricchezza occultata su operazioni di compravendita immobiliare svolte dalla società, evidenziate nell’ambito di più vasta attività investigativa nella riviera partenopea.
Reagiva il contribuente esperendo azione avanti il giudice di prossimità, che annullava il provvedimento impositivo, ritenendone la tardività rispetto al quadriennio di riferimento, vertendosi in materia di redditi maturati nel 2006 e non esposti (in tutto o in parte) nel 2007, donde la potestà impositiva si esauriva nel dicembre 2011. Interponeva appello l’Ufficio, rilevando trattarsi di fattispecie di astratta rilevanza penale, qual è l’omessa esposizione dei redditi, ribadiva quindi la responsabilità dei soci per le obbligazioni societarie e, in primo luogo, per i doveri tributari, nei limiti della quota o illimitatamente a seconda trattarsi di accomandanti o accomandatari, qual è il caso in questione, anche sulla considerazione che la società era stata cancellata senza alcuna liquidazione.
L’impugnazione erariale trovava accoglimento, con rimodulazione a ribasso del dovuto, avendo altra pronuncia della medesima CTR rivisto la ripresa a tassazione nei confronti della società e, quindi, proporzionalmente ridotto il dovuto in capo al contribuente che, comunque ricorre per cassazione, affidandosi a quattro strumenti, cui replica il patrono erariale con tempestivo controricorso.
CONSIDERATO
1.In via preliminare occorre disporre la riunione al presente ricorso rgn. 16021/2016 relativo al socio accomandante della cessata s.aRAGIONE_SOCIALEsRAGIONE_SOCIALE, anche dei ricorsi rgn. 16027/2016 e rgn. 16030/2016, attinenti -rispettivamente- ad entrambi i soci della cessata RAGIONE_SOCIALE, quali successori della società in accomandita semplice, e all’altro componente della RAGIONE_SOCIALE nella sua qualità di socio accomandatario. Com’è stato affermato, anche di recente, n el processo di cassazione, in presenza di cause decise separatamente nel merito e relative, rispettivamente, alla rettifica del reddito di una società di persone ed alla conseguente automatica imputazione dei redditi stessi a ciascun socio, la violazione del litisconsorzio necessario tra società e soci determina la rimessione della causa al primo giudice che, tuttavia, non è necessaria ove in sede di legittimità possa disporsi la ricomposizione del contraddittorio mediante la riunione; ciò si verifica quando, oltre a sussistere la piena consapevolezza di ciascuna parte processuale dell’esistenza e del contenuto dell’atto impositivo notificato alle altre parti e delle difese processuali svolte dalle stesse, la complessiva fattispecie sia caratterizzata da: identità oggettiva quanto a “causa petendi” dei ricorsi; simultanea proposizione degli stessi avverso il sostanzialmente unitario avviso di accertamento costituente il fondamento della rettifica delle dichiarazioni sia della società che di tutti i suoi soci e, quindi, identità di difese; simultanea trattazione degli afferenti processi innanzi ad entrambi i giudici del merito; identità sostanziale delle decisioni adottate da tali giudici (cfr. Cass. V, n. 6073/2022).
2.Va esaminato da primo, per ragioni di ordine logico giuridico, il ricorso iscritto al n.r.g. 16027/2016 vertendo il procedimento su l’avviso di accertamento societario cui conseguono per trasparenza, gli avvisi di accertamento a carico dei soci per Irpef.
Vengono proposti quattro motivi di ricorso principale.
Con il primo motivo si prospetta censura ai sensi dell’articolo 360, primo comma, n. 3 del codice di procedura civile per violazione e
falsa applicazione degli articoli 2272, 2274, 2275, 2278, 2310, 2312 e 2495 del codice civile, nonché dell’art. 36 del d.lgs. n. 546/1992, protestando il difetto di legittimazione passiva dei soci.
In altri termini, parte ricorrente deduce il proprio difetto di legittimazione passiva evidenziando che la società RAGIONE_SOCIALE fosse stata cancellata dal registro delle imprese già in data 9 novembre 2010, ben prima della notifica dell’atto impositivo, cancellazione che determina l’estinzione della società senza possibilità di rivalersi sui soci, sia accomandanti che accomandatari.
Con il secondo motivo si prospetta censura ai sensi dell’articolo 360, primo comma, n. 3 del codice di procedura civile per violazione e falsa applicazione dell’articolo 42 del DPR n.600 del 1973, dell’articolo 3 della legge n. 241 del 1990, dell’articolo 7 della legge n. 212 del 2000; nonché violazione e falsa applicazione degli articoli 111 della Costituzione, dell’articolo 36 del decreto legislativo n.546 del 1992 e dell’articolo 112 del codice di procedura civile, in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 5 del medesimo codice di rito per motivazione apodittica della sentenza in scrutinio.
Più specificamente i ricorrenti eccepiscono il difetto di motivazione dell’atto che si rifà al processo verbale di constatazione, non allegato all’atto impositivo della società contribuente oltre a criticare la sentenza perché non congruamente motivata.
Con il terzo motivo si prospetta censura i sensi dell’articolo 360, primo comma, n. 3 del codice di procedura civile per violazione falsa applicazione degli articoli 41 del DPR n. 600 del 1973, 55 del DPR n. 633 del 1972, 2727 e seguenti del codice civile, art. 6 della legge n. 212 del 2000. Si prospetta, altresì, censura ai sensi dell’articolo 360, primo comma, n. 5 del codice di procedura civile, per violazione e falsa applicazione degli artt. 111 della Costituzione repubblicana, 36 del decreto legislativo 546 del 1992, 112 del codice di procedura civile per motivazione apodittica della sentenza.
Nello specifico viene contestata la sentenza in scrutinio con riguardo alle disposizioni sull’accertamento induttivo puro e sul mancato riconoscimento dei costi, in particolare evidenziando errori commessi dal giudice di merito nel non aver considerato la deduzione di una plusvalenza derivante dalla vendita di un’azienda e che tale plusvalenza era comprensiva di Iva che andava scorporata.
Con il quarto motivo si prospetta censura ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 del codice di procedura civile per violazione e falsa applicazione dell’art. 2313 del codice civile ovverosia difetto di legittimazione passiva del socio NOME COGNOME in quanto socio accomandante, che può rispondere unicamente intra vires . Nello specifico si critica la gravata sentenza perché individua la responsabilità del socio accomandante in ragione dell’istituto della trasparenza reddituale, cosa assai diversa dalla responsabilità debitoria.
Il primo motivo ed il quarto motivo possono essere trattati congiuntamente, riguardando la responsabilità dei soci post mortem societatis e del socio accomandante in generale. I motivi sono infondati.
Si afferma il difetto di legittimazione passiva dei contribuenti per i debiti tributari maturati dalla società in accomandita semplice che è stata cancellata prima della notifica dell’atto impositivo e, più precisamente, il 9 novembre 2010.
Va rilevato che le indagini riguardano l’anno d’imposta 2006, quando la società era pienamente operativa. Tuttavia, proprio perché alla data di emissione dell’atto impositivo la società risultava cancellata, legittimamente l’Ufficio ha notificato l’avviso di accertamento relativo alla società ai soci, quali successori della società di persone estinta, peraltro in assenza di liquidazione.
Ed infatti, in materia di contenzioso tributario, e con specifico riferimento all’accertamento del reddito da partecipazione in una società di persone, in caso di estinzione dell’ente per cancellazione
dal registro delle imprese, la qualità di successore universale dello stesso si radica in capo al socio per il fatto stesso dell’imputazione al medesimo del reddito della società in forza del principio di trasparenza ex art. 5 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, implicante una presunzione di effettiva percezione del precisato reddito. Ne consegue che, in queste controversie, i soci assumono la legittimazione attiva e passiva alla lite instaurata nei confronti della società – con o senza la partecipazione originaria anche dei soci – per effetto della mera estinzione della società, senza che si ponga alcun problema di integrazione del contraddittorio nei confronti dell’ente ormai estinto (cfr. Cass. V, n. 21773/2012; n. 24322/2014; Cass. VI-5, n. 10980/2017).
Ciò è conforme all’orientamento generale fissato dall’arresto delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con le sentenze ‘gemelle’ n. 6070 e 6071 del 2013. Ed infatti, dopo la riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. n. 6 del 2003, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l’obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, “pendente societate”, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia
rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo (cfr. Cass. S.U., n. 6070/2013).
Nel caso concreto, i soci rispondono sia per trasparenza che per successione, illimitatamente l’accomandatario e, limitatamente alla quota versata, l’accomandante. A tali principi si è uniformata la sentenza in oggetto.
Non di meno, successivamente alla celebrazione dell’adunanza e nelle more della pubblicazione del presente provvedimento, è stata pronunciata la sentenza n. 3625/2025 resa a Sezioni Unite di questa Corte, che ha affrontato nuovamente ex professo il tema della successione dei soci nelle posizioni attive e passive (già) societarie, sentenza di cui occorre tenere conto in questa sede.
Il recente arresto a Sezioni Unite non ha innovato la posizione dei soci di società di persone illimitatamente responsabili, trattandosi di posizione connessa alla trasparenza prevista dall’art. 5 del d.P.R. n. 917/1986. Per converso, è stata affinata la posizione del socio limitatamente responsabile, vuoi nei limiti di quanto percepito in sede di liquidazione o extraliquidazione, nonché -parallelamente- del socio limitatamente responsabile in società di persone, ove si può parlare di trasparenza imperfetta. Argomentando dal nuovo art. 2495 c.c. e dell’ effetto costitutivo della cancellazione della società, ove comunque restano ferme ‘le maggiori responsabilità’ dei soci, in combinato disposto con l’art. 36 del d.P.R . n 602/1973 in tema di riscossione dei tributi, si è pervenuti alla ‘n ecessità -in ogni caso in cui venga invocata, a titolo vuoi successorio vuoi sussidiario, la responsabilità dell’ex socio per il de bito di imposta della società- di attivazione nei suoi confronti di un autonomo ed originario procedimento amministrativo di accertamento’ (Cfr. Cass. S.U. n. 3625/2025, fine di §3.1. e principio di §3.2.).
Sicché, se è infondato il primo motivo essendo entrambi i soci successori ai soli fini processuali, il quarto motivo è fondato con riguardo alla posizione dell’accomandate per i debiti tributari della
società, donde dev’essere avviato nuovo procedimento impositivo verso detto socio accomandante, a garanzia della sua situazione giuridica soggettiva (cfr. Cass. S.U. n. 3625/2025, 3.2.).
Con il secondo motivo si prospetta difetto di motivazione dell’atto impositivo, che si rifà ai contenuti del processo verbale di constatazione, non allegato, e si lamenta motivazione apodittica della sentenza, in parametro ai n. 3 e 5 dell’art. 360 del cod ice di procedura civile.
Occorre premettere che per questa Corte è ammissibile il ricorso per cassazione il quale cumuli in un unico motivo le censure di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, n. 4 e n. 5, c.p.c., allorché esso comunque evidenzi specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass. V, 11 aprile 2018, n. 8915), essendo sufficiente che la formulazione del motivo consenta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, sì da consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se essere fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (Cass., S.U., 6 maggio 2015, n. 9100, in linea Cass. V. n. 14756/2020).
Venendo al profilo di motivazione dell’atto impositivo, a pagina tre, quarto capoverso, la sentenza gravata richiama correttamente l’orientamento di questa Suprema Corte di legittimità in tema di motivazione dell’atto impositivo ‘per relationem’.
Ed infatti, in tema di atto amministrativo finale di imposizione tributaria, nella specie avviso di rettifica di modello unico, la motivazione “per relationem”, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza dell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima, per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’Ufficio stesso, condividendone le
conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio. (Sez. V, n. 30560 del 2017 (Rv. 646303 – 01; in termini analoghi Sez. V, n. 28060 del 2017, Rv. 646225).
In ordine al difetto di motivazione, è appena il caso di rammentare che il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione (tra le tante: Cass. 11 gennaio 2016 n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26610).
Come è noto, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente la prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011 n. 27197; Cass. 6 aprile 2011 n. 7921; Cass. 21 settembre 2006 n. 20455; Cass. 4 aprile 2006 n. 7846; Cass. 9 settembre 2004 n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004 n. 2357).
Né il giudice del merito, che attinga il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, è tenuto ad un’esplicita
confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (ad es.: Cass. 7 gennaio 2009 n. 42; Cass. 17 luglio 2001 n. 9662).
Per completezza argomentativa, quanto alla denuncia di vizio di motivazione, poiché è qui in esame un provvedimento pubblicato dopo il giorno 11 settembre 2012, resta applicabile ratione temporis il nuovo testo dell’art. 360, comma primo, n. 5) c.p.c. la cui riformulazione, disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, secondo le Sezioni Unite deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez.Un. 7 aprile 2014 n. 8053).
La sentenza in esame si pone molto al disopra del predetto ‘minimo costituzionale’ solo entro il quale si inscrive il sindacato di questa Suprema Corte di legittimità.
Neppure il secondo motivo può dunque essere accolto.
Con il terzo motivo si contestano le modalità di ricostruzione induttiva del reddito e, segnatamente, si lamenta la mancata considerazione dei costi.
Nemmeno questo motivo può essere accolto. È incontroverso che per l’anno di imposta 2006 la società RAGIONE_SOCIALE di COGNOME RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE. non abbia esposto denuncia dei redditi, circostanza che autorizza l’Ufficio alla ricostruzione dell’imponibile con metodo induttivo e ricorrendo ad elementi comunque acquisiti. Nel caso in esame, risulta che siasi fatto riferimento ai pubblici registri immobiliari, aventi fede privilegiata. Relativamente ai costi da dedurre, la sentenza in esame ha fatto motivatamente riferimento solo a quelli dimostrati, e nei limiti della prova, attenendosi ai criteri espressi dalla Corte costituzionale, come risulta dall’ultimo capoverso di pagina 3 ed a seguire, dove vengono analizzate le singole poste, ammettendo le une ed espungendo le altre, secondo criteri di valutazione della prova che esulano dal sindacato di questa Corte, salvo il dovuto -e rispettato- principio di prevalenza delle prove privilegiate (cfr. Cass. V, 24679/2013). Sono quindi considerati in sentenza i costi documentati, come il mutuo, e non altri.
Essendo infondato il terzo motivo, il ricorso principale deve essere accolto, limitatamente alla posizione del socio accomandante, per le ragioni attinte dal quarto motivo.
Si deve ora esaminare il ricorso incidentale.
Con l’unico motivo di ricorso incidentale si prospetta censura ai sensi dell’articolo 360, primo comma, numero 3 del codice di procedura civile per violazione falsa applicazione dell’articolo 55 del DPR numero 633 del 1972.
Nella sostanza si critica il capo di sentenza in cui il collegio di secondo grado ha consentito alla parte contribuente di portare in deduzione un credito Iva maturato nell’anno d’imposta 2005 e che viene quindi compensato con la ripresa a tassazione sull’anno 2006, come ricostruita nell’atto impositivo del dicembre del 2012.
Se, in linea di principio, l’argomento sembra corretto, tuttavia contrasta con le espresse disposizioni di legge soprarichiamate. Devesi ricordare che per l’anno d’imposta 2006, qui in esame la società contribuente non ha presentato dichiarazione dei redditi nella
quale avrebbe potuto e dovuto portare a credito quanto maturato nel precedente anno 2005. Il credito Iva, infatti, non può restare sospeso ed essere compensato ad libitum del contribuente, ma segue delle scansioni ben precise. Nel caso in cui nell’anno successivo a quello in cui è maturato, dove dovrebbe essere portato in compensazione, non sia stata presentata dichiarazione dei redditi oppure risulti tardiva per presentazione oltre i 90 giorni, allora il credito deve essere portato in deduzione nella dichiarazione dei due anni successivi a quella in cui è maturato. Ed infatti, la neutralità dell’imposizione armonizzata sul valore aggiunto comporta che, pur in mancanza di dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, l’eccedenza d’imposta, che risulti da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti per un anno e sia dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, deve essere riconosciuta dal giudice tributario qualora il contribuente abbia rispettato tutti i requisiti sostanziali per la detrazione, sicché, in tal caso, nel giudizio di impugnazione della cartella emessa dal fisco a seguito di controllo formale automatizzato, non può essere negato il diritto alla detrazione se sia dimostrato in concreto, ovvero non sia controverso, che si tratti di acquisti compiuti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili (Cass.VI- 5, n. 8131/2018, ma già Cass. S.U. n. 17757/2016).
Nel caso in esame, il credito Iva avrebbe dovuto essere portato in compensazione nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2007. Scaduta inutilmente questa possibilità, rimaneva la norma generale sussidiaria di cui all’articolo 21, secondo comma, ultimo periodo, del decreto legislativo numero 546 del 1992. In altri termini, il rimborso avrebbe dovuto essere chiesto entro i due anni dal versamento, quindi -ancora una volta- entro il 2007, spirato il quale termine il credito si estingue. Donde è illegittima la compensazione operata dal collegio di merito. Non si tratta, come si afferma nella sentenza in
scrutinio, di evitare un indebito arricchimento erariale, ma si tratta di prendere atto della decadenza dal diritto al rimborso che crea, sì, un arricchimento all’Erario, ma non indebito, in quanto derivante dall’inazione della parte contribuente entro il periodo di decadenza, secondo i generali principi della durata del credito e della certezza dei rapporti. Tale principio resta confermato anche dalle nuove diposizioni in materia, configurandosi elemento costitutivo del sistema, giusto quanto è stato affermato, cioè che in tema di IVA, l’istanza di rimborso dell’imposta, indebitamente pagata dal cedente di beni (o prestatore di servizi) poiché versata successivamente anche dal cessionario (o committente), va presentata nel termine di decadenza di cui all’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, decorrente dal pagamento indebito, non rilevando la data del secondo versamento, neanche alla luce di una lettura evolutiva della predetta norma, che tenga conto delle ragioni della successiva introduzione dell’art. 30-ter del decr. IVA, ad opera della l. n. 167 del 2017, poiché, anche per la nuova normativa, il superamento del termine biennale è consentito a condizione dell’avvenuta restituzione al cessionario (o committente) dell’importo pagato a titolo di rivalsa (cfr. Cass. T., n. 34429/2023).
Il ricorso incidentale è quindi fondato e merita accoglimento.
In definitiva, il ricorso principale dev’essere accolto, limitatamente alla posizione del socio accomandante per le ragioni attinte dal quarto motivo, ed il ricorso incidentale integralmente accolto. La sentenza in scrutinio dev’essere cassata limitatamente ai profili di cui al ricorso incidentale, con rinvio -anche per la regolazione delle spese- al giudice di merito perché si attenga ai principi sopra enunciati.
3.Possono essere, quindi, esaminati i motivi dei ricorsi rgn. 16021/2016 e rgn. 16030/2016 proposti dai soci relativamente agli avvisi di accertamento a loro notificati ex art.5 TUIR, retti da identici argomenti.
Vengono proposti quattro motivi di ricorso:
Con il primo motivo si prospetta censura ai sensi dell’articolo 360, primo comma, numero 3 del codice di procedura civile per violazione e falsa applicazione dell’articolo 43, terzo comma, del DPR numero 600 del 1973, nonché dell’articolo 1, comma 131, della legge numero 208 del 2015.
Nella sostanza si critica l’applicazione del raddoppio dei termini per l’adozione dell’atto impositivo laddove non ci sia stata denuncia penale, considerando che il provvedimento di ripresa a tassazione non conteneva una motivazione riferita alla fattispecie di reato, né la denuncia era allegata allo stesso, ed il reato contestato risultava comunque prescritto, non potendosi applicare retroattivamente l’istituto a termini per l’accertamento già spirati.
Con il secondo motivo si prospetta censura ai sensi dell’articolo 360 numero 3 del codice di procedura civile per violazione e falsa applicazione dell’articolo 57 del decreto legislativo numero 546 del 1992, dell’articolo 2697 del codice civile e dell’articolo 24 della Costituzione repubblicana.
Nello specifico si lamenta che l’Ufficio abbia introdotto la questione della decadenza dalla potestà impositiva e del raddoppio dei termini solo nel grado d’appello non avendone fatto cenno in primo grado, di talché doveva trattarsi di elemento nuovo non proponibile in secondo grado, pena la violazione del doppio grado di giudizio.
Con il terzo motivo si profila censura ai sensi dell’articolo 360 numero 3 del codice di procedura civile per violazione falsa applicazione degli articoli 2272, 2274, 2275, 2278, 2310, 2312 e 2495 del codice civile, protestando il difetto di legittimazione passiva del socio.
In altri termini i contribuenti deducono il proprio difetto di legittimazione passiva evidenziando che la società RAGIONE_SOCIALE di COGNOME Michele fosse stata cancellata dal registro delle imprese già in data 9 novembre 2010, cancellazione che determina
l’estinzione della società senza possibilità di rivalersi sui soci, sia accomandanti che accomandatari.
Con il quarto motivo si prospetta censura ai sensi dell’articolo 360 numero 3 del codice di procedura civile per violazione e falsa applicazione dell’articolo 42 del DPR numero 600 del 1973, dell’articolo 3 della legge numero 241 del 1990, dell’articolo 7 della legge numero 212 del 2000, nonché violazione e falsa applicazione degli articoli 111 della Costituzione, dell’articolo 36 del decreto legislativo 546 del 1992 e dell’articolo 112 del codice di procedura civile in relazione all’articolo 360 numero 5 del medesimo codice di rito per motivazione apodittica della sentenza in scrutinio.
Più specificamente i contribuenti eccepiscono il difetto di motivazione dell’atto che si rifà al processo verbale di constatazione, non allegato all’atto impositivo del contribuente, né a quello della società, oltre a lamentare la carenza di motivazione della sentenza in scrutinio.
I primi due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente in ragione della loro stretta connessione e sono infondati.
Correttamente il giudice di appello ha rilevato che la mancata esposizione dei redditi costituisce fattispecie astrattamente costituente reato.
Per giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte di legittimità, nel caso in esame, non è necessario che la denuncia sia stata presentata, né che il reato sia stato perseguito: infatti, il tenore testuale della norma prevede il raddoppio dei termini per l’adozione dell’atto impositivo al semplice verificarsi di circostanze che astrattamente integrino una fattispecie penale fra quelle previste e punite dal decreto legislativo numero 74 del 2000 e per la quale sia obbligatoria la denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale.
In tema di accertamento tributario, per il raddoppio dei termini ex artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, è sufficiente l’emersione di elementi da cui
derivi l’obbligo di presentazione di denuncia penale e non rilevano i successivi esiti dell’accertamento né il fatto che gli atti impositivi siano fondati su elementi privi di rilevanza penale, salvo che non emerga un uso pretestuoso o strumentale della disposizione, al solo fine di fruire, ingiustificatamente, di un più ampio termine (cfr. Cass. T, n. 20409/2023).
Più radicalmente, è stato affermato che in materia tributaria, la soglia di rilevanza penale di cui all’artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo vigente “ratione temporis”, relativo al raddoppio dei termini per l’accertamento, va valutata con riferimento al momento in cui è stata commessa la violazione ed effettuato l’accertamento, non rilevando che, successivamente, a seguito dell’annullamento di una parte della pretesa tributaria, sia venuta meno la soglia di punibilità e conseguentemente l’obbligo di denuncia penale, salvo che, in linea con quanto affermato dalla sentenza n. 247 del 2011 della Corte costituzionale, l’Amministrazione finanziaria abbia fatto un uso pretestuoso o strumentale della disposizione, al solo fine di fruire, ingiustificatamente, di un più ampio termine (cfr. Cass. V, n. 13483/2016).
Per completezza, va ricordato che, in tema di accertamento tributario, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale nei confronti degli organi societari di una società in accomandita semplice determina il raddoppio dei termini per l’accertamento, previsto dall’art. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, vigente ratione temporis, anche del reddito imputato “per trasparenza” ai soci accomandanti (cfr. Cass. T, n. 15999/2024).
Inoltre, per quanto riguarda specificamente il secondo motivo, va ricordato che la questione della decadenza sia stata introdotta dalla parte contribuente in sede di ricorso di primo grado, cui l’Ufficio ha replicato con richiesta di rigetto integrale delle ragioni del ricorrente. Un tanto non preclude la proposizione di motivi d’appello che
aggrediscano la pronuncia di primo grado su aspetti non fatti valere dall’appellante in primo grado.
Ed infatti, in tema di contenzioso tributario, il fatto che nel giudizio di primo grado l’Amministrazione finanziaria non abbia preso posizione anche su motivi avversari logicamente subordinati non equivale ad ammissione delle affermazioni che li sostanziano, né determina il restringimento del “thema decidendum” ai soli motivi contestati, posto che la richiesta di rigetto dell’intera domanda del contribuente consente all’Ufficio impositore di scegliere nel prosieguo del giudizio le diverse argomentazioni difensive da opporre alle domande subordinate avversarie, allorché le questioni dedotte in via principale siano state rigettate (Cass. V, n. 7789/2006)
Il processo tributario, in quanto rivolto a sollecitare il sindacato giurisdizionale sulla legittimità dell’atto impositivo, è strutturato come un giudizio d’impugnazione del provvedimento, in cui l’oggetto del dibattito è circoscritto alla pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso indicati, ed entro i limiti delle contestazioni sollevate dal contribuente. Pertanto, si ha domanda nuova per modificazione della “causa petendi”, inammissibile in appello, quando i nuovi elementi dedotti dinanzi al giudice di secondo grado comportino il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, modificando l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia, in modo da porre in essere, in definitiva, una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado, e sulla quale non si è svolto in quella sede il contraddittorio. In particolare, non configura la proposizione di una nuova domanda la contestazione da parte dell’Ufficio appellante dei fatti dedotti dall’appellato in primo grado, la quale non incide sull’individuazione dell’oggetto della domanda giudiziale o dei suoi elementi costitutivi, ma solo sulla prova di tali elementi. Né tale contestazione è preclusa della circostanza che l’Ufficio non si sia costituito in primo grado,
atteso che la tardività della costituzione in giudizio del resistente (art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1992, richiamato per l’appello dell’art. 54) non comporta alcun tipo di nullità (cfr. Cass. V, n. 22010/2006). Più precisamente, nel processo tributario, qualora il giudice di primo grado abbia accolto l’eccezione proposta dal contribuente di decadenza dell’azione accertatrice, è validamente proposto l’appello da parte dell’Amministrazione fondato sulla sola contestazione delle ragioni della declaratoria della decadenza e sulla generica richiesta di conferma dell’accertamento atteso che il precedente grado di giudizio si è concluso con l’accertamento, di un vizio del procedimento amministrativo e non di quello giudiziale mentre è onere del contribuente, vincitore in primo grado, eventualmente riproporre specifici motivi di gravame in ordine al merito dell’accertamento medesimo, motivi ritenuti assorbiti, in primo grado, nella pronuncia di decadenza (Cfr. Cass. V, n. 18559/2010).
I primi due motivi non possono quindi essere accolti.
Con il terzo motivo si afferma il difetto di legittimazione passiva del contribuente per i debiti tributari maturati dalla società in accomandita semplice che è stata cancellata prima della notifica dell’atto impositivo e, più precisamente, il 9 novembre 2010.
Va rilevato che le indagini riguardano l’anno d’imposta 2006, quando la società era pienamente operativa. Tuttavia, proprio perché alla data di emissione dell’atto impositivo la società risultava cancellata, legittimamente l’Ufficio ha notificato la pretesa tributaria nei confronti dei soci, quali successori della società di persone estinta, peraltro in assenza di liquidazione.
Ed infatti, in materia di contenzioso tributario, e con specifico riferimento all’accertamento del reddito da partecipazione in una società di persone, in caso di estinzione dell’ente per cancellazione dal registro delle imprese, la qualità di successore dello stesso si radica in capo al socio per il fatto stesso dell’imputazione al medesimo del reddito della società in forza del principio di
trasparenza ex art. 5 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, implicante una presunzione di effettiva percezione del precisato reddito. Ne consegue che, in queste controversie, i soci assumono la legittimazione attiva e passiva alla lite instaurata nei confronti della società – con o senza la partecipazione originaria anche dei soci – per effetto della mera estinzione della società, senza che si ponga alcun problema di integrazione del contraddittorio nei confronti dell’ente ormai estinto (cfr. Cass. V, n. 21773/2012; n. 24322/2014; Cass. VI-5, n. 10980/2017).
Neppure il terzo motivo può essere accolto.
Con il quarto e ultimo motivo si eccepisce il difetto di motivazione dell’atto impositivo, che si rifà ai contenuti del processo verbale di constatazione, non allegato.
A pagina quattro, terzo capoverso, le sentenze gravate richiamano correttamente l’orientamento di questa Suprema Corte di legittimità in tema di motivazione dell’atto impositivo ‘per relationem’.
Ed infatti, in tema di atto amministrativo finale di imposizione tributaria, nella specie avviso di rettifica di modello unico, la motivazione “per relationem”, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza dell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima, per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio. (Sez. V, n. 30560 del 2017 (Rv. 646303 – 01; in termini analoghi Sez. V, n. 28060 del 2017, Rv. 646225).
In ordine al difetto di motivazione, è appena il caso di rammentare che il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un
problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione (tra le tante: Cass. 11 gennaio 2016 n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26610).
Come è noto, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente la prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011 n. 27197; Cass. 6 aprile 2011 n. 7921; Cass. 21 settembre 2006 n. 20455; Cass. 4 aprile 2006 n. 7846; Cass. 9 settembre 2004 n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004 n. 2357).
Né il giudice del merito, che attinga il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, è tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (ad es.: Cass. 7 gennaio 2009 n. 42; Cass. 17 luglio 2001 n. 9662).
Per completezza argomentativa, quanto alla denuncia di vizio di motivazione, poiché è qui in esame un provvedimento pubblicato dopo il giorno 11 settembre 2012, resta applicabile ratione temporis il nuovo testo dell’art. 360, comma primo, n. 5) c.p.c. la cui riformulazione, disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, secondo le Sezioni
Unite deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez.Un. 7 aprile 2014 n. 8053).
La sentenza in esame si pone bene al di sopra del detto minimo costituzionale, donde esce dal perimetro di scrutinio di questa Suprema Corte di legittimità.
Neppure il quarto motivo può quindi essere accolto.
In conclusione, in accoglimento del quarto motivo del ricorso principale e del ricorso incidentale sub rgn. 16021/2016, la sentenza in scrutinio dev’essere cassata nei limiti di cui in motivazione, con rinvio -anche per la regolazione delle spese- al giudice di merito perché si attenga ai principi sopra enunciati.
P.Q.M.
La Corte riunisce al ricorso rgn. 16021/2016 i ricorsi rgn.16027/2016 e rgn. 16030/2016;
Accoglie il quarto motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale del ricorso rgn. 16021/2016, rigettati i restanti e, per l’effetto, cassa le sentenze impugnate , nei limiti di cui in motivazione, e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado per la Campania -Napoli, in diversa composizione, cui
demanda altresì di pronunciare sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 14/11/2024 e il 5.3.2025