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Interposizione di persona: Cassazione e onere probatorio

Un contribuente, ritenuto amministratore di fatto e beneficiario effettivo degli utili di una società fittizia, ha impugnato gli avvisi di accertamento che gli attribuivano i redditi della stessa. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la validità degli accertamenti basati sul principio di interposizione di persona. La Corte ha ribadito che l’Amministrazione finanziaria può provare, anche tramite presunzioni gravi, precise e concordanti, che il contribuente è il possessore effettivo dei redditi, superando la titolarità formale della società. L’assoluzione in sede penale non è stata ritenuta vincolante per il giudizio tributario.

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Pubblicato il 7 dicembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Interposizione di persona: quando l’amministratore di fatto risponde dei debiti della società?

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 20778/2024, è tornata a pronunciarsi sul delicato tema dell’interposizione di persona nel diritto tributario, chiarendo i confini della responsabilità dell’amministratore di fatto e l’onere probatorio a carico dell’Amministrazione Finanziaria. La decisione sottolinea come, ai fini fiscali, la sostanza economica prevalga sulla forma giuridica, permettendo di tassare il reddito direttamente in capo a colui che ne risulta l’effettivo possessore, anche se formalmente intestato a una società.

I Fatti del Caso

La vicenda trae origine da due avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate. Il primo, notificato a una società agricola, contestava costi non documentati e operazioni soggettivamente inesistenti per IRES, IRAP e IVA. Il secondo, indirizzato a una persona fisica, accertava un maggior reddito IRPEF, qualificando il soggetto come amministratore di fatto e beneficiario esclusivo dell’attività della predetta società. Secondo la ricostruzione del Fisco, la società era una mera fictio, creata artificiosamente per fini illeciti nell’esclusivo interesse del suo gestore occulto.

La Commissione Tributaria Regionale, riunendo gli appelli, aveva dato ragione all’Agenzia delle Entrate. I giudici di secondo grado avevano ritenuto provato il ruolo di amministratore di fatto del contribuente sulla base di plurimi elementi: la detenzione di tutta la documentazione fiscale, il contenuto di fatture e documenti bancari, e le dichiarazioni di clienti e fornitori. Era emerso, inoltre, che lo stesso soggetto gestiva di fatto anche le società che avevano emesso le fatture per operazioni inesistenti. Di conseguenza, il reddito d’impresa accertato in capo alla società fittizia veniva imputato direttamente alla persona fisica quale effettivo possessore.

Le censure e la disciplina della interposizione di persona

Il contribuente ha presentato ricorso per cassazione affidandosi a cinque motivi, lamentando, tra le altre cose:

1. La tardività della notifica dell’atto impositivo.
2. L’errata applicazione del raddoppio dei termini di accertamento.
3. La mancata considerazione della sua assoluzione in sede penale per i medesimi fatti.
4. La violazione delle norme sull’onere della prova, sostenendo che l’Ufficio non avesse dimostrato che egli fosse l’effettivo possessore del reddito della società.
5. La violazione del principio del divieto di doppia imposizione.

Il fulcro della decisione della Suprema Corte ruota attorno all’applicazione dell’art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600/1973. Questa norma stabilisce che, in sede di accertamento, i redditi formalmente intestati ad altri soggetti sono imputati al contribuente quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposizione di persona.

La Corte chiarisce che la funzione di questa norma è evitare che il contribuente si sottragga al prelievo fiscale occultando la propria identità dietro uno schermo societario o un prestanome. La prova che l’Amministrazione Finanziaria deve fornire non riguarda gli elementi costitutivi dell’interposizione, ma direttamente il fatto che il soggetto terzo sia l’effettivo possessore del reddito. Si tratta di far prevalere la realtà economica sulla forma giuridica.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato inammissibili o infondati tutti i motivi di ricorso. In primo luogo, ha ritenuto inammissibili le censure procedurali sulla notifica per difetto di autosufficienza, poiché il ricorrente non aveva trascritto integralmente i documenti necessari a valutare la sua doglianza.

Sul punto centrale, quello dell’interposizione di persona, la Corte ha confermato la correttezza del ragionamento dei giudici di merito. Essi avevano accertato, sulla base di solidi elementi presuntivi, non solo che il contribuente fosse l’amministratore di fatto, ma anche che la società fosse stata creata ‘artificiosamente, a fini illeciti’ e ‘nel suo esclusivo interesse’. Questo totale asservimento della società all’interponente è la chiave per dimostrare che quest’ultimo disponeva delle risorse societarie uti dominus, cioè come se fossero proprie.

La Corte ha inoltre ribadito il principio dell’autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale. L’assoluzione in sede penale non ha un effetto vincolante automatico nel processo tributario, dove vigono regole probatorie diverse e criteri di imputazione differenti. Pertanto, i giudici tributari hanno correttamente fondato la loro decisione su parametri e prove proprie dell’ambito fiscale.

Infine, sono state respinte anche le altre censure, inclusa quella sulla doppia imposizione, ritenuta generica e non adeguatamente provata, e quella sull’applicazione di una norma specifica (art. 7 del d.l. n. 269/2003), in quanto sollevata per la prima volta in sede di legittimità.

Conclusioni

L’ordinanza in commento consolida un principio fondamentale del diritto tributario: la prevalenza della sostanza sulla forma. Quando l’Amministrazione Finanziaria riesce a dimostrare con un quadro probatorio solido, anche basato su presunzioni, che una persona fisica è il dominus e l’unico beneficiario di un’entità societaria, i redditi di quest’ultima possono essere a lui direttamente imputati. Il ruolo di amministratore di fatto assume una ‘particolare pregnanza’ in questo contesto, diventando un elemento cruciale per integrare la presunzione del possesso effettivo del reddito. La decisione ricorda ai contribuenti che l’utilizzo di schermi societari per occultare redditi è una pratica che l’ordinamento contrasta efficacemente, attribuendo rilevanza alla realtà economica dei rapporti.

Cos’è il principio di interposizione di persona in ambito fiscale?
È un principio, sancito dall’art. 37, comma 3, del d.P.R. 600/1973, che consente all’Amministrazione Finanziaria di imputare i redditi a un contribuente anche se formalmente risultano intestati ad un altro soggetto (l’interposto). Ciò è possibile quando viene dimostrato, anche tramite presunzioni gravi, precise e concordanti, che il primo è l’effettivo possessore di tali redditi.

L’assoluzione in un processo penale ha valore nel processo tributario per gli stessi fatti?
No, non necessariamente. La Corte di Cassazione ha ribadito il principio dell’autonomia tra i due giudizi. A causa delle diverse regole probatorie e finalità, una sentenza penale di assoluzione non impedisce al giudice tributario di ritenere fondata la pretesa fiscale sulla base delle prove e dei parametri specifici del diritto tributario.

Chi deve provare che l’amministratore di fatto è l’effettivo possessore dei redditi di una società?
L’onere della prova grava sull’Amministrazione Finanziaria. Quest’ultima deve dimostrare, attraverso un quadro probatorio solido (inclusi elementi presuntivi), il totale asservimento della società interposta all’interponente, provando che quest’ultimo è l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società e che ne dispone come se fossero propri.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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