Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 20997 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 20997 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 23/07/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 4492-2021, proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE , cf 06363391001, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato –
Ricorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE (cf. NUMERO_DOCUMENTO), in persona dl legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliato in Roma, presso la cancelleria della Corte di cassazione, rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME
Controricorrente
Avverso la sentenza n. 7502/09/2023 della Commissione tributaria regionale della Sicilia, depositata il 11.09.2023;
udita la relazione della causa svolta nell ‘adunanza camerale del 26 marzo 2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
Accertamento –
Oper. ogg. inesistenti
– Inerenza dei costi
FATTI DI CAUSA
All’esito di una verifica condotta da militari della GdF e della consegna del processo verbale di constatazione, l ‘Agenzia delle entrate notificò a lla RAGIONE_SOCIALE gli avvisi d’accertamento relativ i agli anni 2013 e 2014, con cui rideterminò gli imponibili ai fini Ires, Irap ed Iva, recuperando maggiori imposte e comminando sanzioni. Ai fini di un esaustivo inquadramento della vicenda, torna utile evidenziare che la verifica condotta nei confronti della società aveva riguardato gli anni dal 2009 al 2014.
Con gli atti impositivi l’ufficio contestò (i) la contabilizzazione di fatture per costi di servizi di consegna e recapiti effettuati dalla RAGIONE_SOCIALE, (ii) l’indeducibilità di pa rte dei costi sostenuti a titolo di compensi versati ai componenti del consiglio di amministrazione della società, ritenuti sproporzionati rispetto ai ricavi sociali e dunque non inerenti, (iii ) l’indebita deduzione di costi per l’acquisto di carburant e, con schede carburanti prive dei requisiti essenziali, (iiii) le spese p er fitti passivi non inerenti l’attività sociale per entrambe le annualità.
La società propose ricorso avverso l’atto impositivo dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Palermo, che con sentenza n. 2005/06/2018 accolse parzialmente le ragioni della contribuente, annullando l’atto in riferimento ai costi fatturati per servizi affidati a società terza, ai costi per compensi agli amministratori, alle spese per i fitti sostenuti per un magazzino rimasto inutilizzato, e ritenuti non inerenti.
La pronuncia fu impugnata da entrambe le parti, ciascuna per quanto soccombente, dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Sicilia. Questa, con sentenza n. 7502/09/2023, rigettò l’appello erariale e accolse quello della società, annullando integralmente l’avviso d’accertamento.
Il giudice regionale ha ritenuto che la contribuente avesse fornito valide argomentazioni a sostegno dell’utilizzo dei servizi prestati dalla SE.RAGIONE_SOCIALE ; ha parimenti ritenuto infondata la contestazione della non inerenza parziale dei compensi erogati agli amministratori, non potendo valutare arbitrariamente la congruità del corrispettivo loro versato, trattandosi di scelta legata ‘anche ai profili professionali e imprenditoriali dei componenti medesimi; in ordine ai fitti passivi ha considerato che rientrasse nella libera scelta della società acquisire la disponibilità di beni strumentali, anche in vista della partecipazione a gare d’appalto, scelte rispetto alle quali non
assumeva rilevanza la temporanea inutilizzazione; ha infine accolto l’appello incidentale della società con riguardo ai costi per carburante, ritenendo irrilevante che nelle schede mancasse l’indicazione del chilometraggio , mentre ha rigettato le ulteriori doglianze della società.
L’Agenzia delle entrate ha chiesto la cassazione della sentenza, affidandosi a quattro motivi, cui ha resistito la società con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria.
All’esito dell’adunanza camerale del 2 6 marzo 2025 la causa è stata riservata e decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denuncia la «violazione e falsa applicazione degli artt. 132 c.p.c. e 36 D.L.gs. n. 546/92», in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. La sentenza, con riguardo al la ripresa dell’ufficio relativa all’utilizzo d ei servizi prestati da una società terza (la RAGIONE_SOCIALE, avrebbe reso una motivazione apparente.
Con il secondo motivo ha denunciato la «violazione e falsa applicazione degli artt. 39 DPR 600/73, 109 TUIR, 21 DPR 633/72 e 2697 c.c.», in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.
Il primo motivo è fondato.
Questa Corte ha chiarito che sussiste l’apparente motivazione della sentenza ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonché quando, pur indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sul piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sulla correttezza del suo ragionamento (Sez. U, 3 novembre 2016, n. 22232; cfr. anche 23 maggio 2019, n. 13977; 1 marzo 2022, n. 6758). In sede di gravame, non è viziata la decisione quando motivata per relationem ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purché il rinvio sia operato così da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata. Essa va invece cassata quando il
giudice si sia limitato ad aderire alla pronuncia di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass., 19 luglio 2016, n. 14786; 7 aprile 2017, n. 9105). La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione è apparente anche quando, ancorché graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass., 1 marzo 2022, n. 6758; 30 giugno 2020, n. 13248; cfr. anche 5 agosto 2019, n. 20921). È altrettanto apparente ogni qual volta evidenzi una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio (Cass., 14 febbraio 2020, n. 3819), oppure quando carente nel giudizio di fatto, così che la motivazione sia basata su un giudizio generale e astratto (Cass., 15 febbraio 2024, n. 4166).
Nel caso di specie tutta la motivazione del giudice regionale si condensa in un unico periodo, nel quale si afferma che «Per quanto attiene il motivo di appello relativo ai costi dei servizi effettuati da RAGIONE_SOCIALE (sub punto 1) il Collegio ritiene che l’odierna appellata abbia fornito valide argomentazioni a sostegno dell’utilizzo, in outsourcing dei servizi prestati da quest’ultima i cui compensi sono stati regolarmente fatturati a nulla valendo la mancata formalizzazione in un contratto scritto atteso che nessuna norma civilistica impone la forma scritta per i contratti di appalto di servizi. Il costo sostenuto va pertanto ritenuto deducibile così come detraibile è l’IVA corrisposta in fattura».
Sennonché tale motivazione si rivela del tutto inadeguata a comprendere lo stesso senso delle ragioni poste alla base della statuizione di rigetto, e ciò anche semplicemente richiamando le contestazioni contenute nell’atto d’appello erariale, così come rip ortate in sentenza.
In questa infatti, pur riassumendo sinteticamente l’appello avverso l’annullamento della ripresa ad imponibile dei corrispettivi versati alla società di servizi, si riporta che l’Agenzia delle entrate aveva lamentato « per quanto riguarda i costi di cui al punto 1 ribadisce che la RAGIONE_SOCIALE la cui
compagine sociale coincide con quella della RAGIONE_SOCIALE, avrebbe prestato non meglio precisati servizi di consegna e recapito per centinaia di migliaia di euro senza tuttavia riuscire a fornire la benché minima prova documentale. Stante l’estrema delicatezza del servizio svolto dalla RAGIONE_SOCIALE (notifica delle cartelle esattoriali per conto di Riscossione Sicilia S.p.A.) appare singolare che il conferimento dell’incarico a RAGIONE_SOCIALE sia avvenuto in forza di un accordo verbale e non sia stato invece formalizzato in un contratto scritto da cui potere evincere in cosa siano effettivamente consistiti i servizi prestati da quest’ultima e le modalità di determinazione del corrispettivo. In mancanza di qualsivoglia documentazione i costi in questione sono stati pertanto recuperati a tassazione poiché privi dei necessari requisiti della certezza e della determinabilità».
Già rispetto alle doglianze erariali riprodotte in sentenza, la decisione sul punto della stessa (fondata sulla asserita regolarità della fatturazione dei compensi e sulla irrilevanza della mancata formalizzazione del rapporto negoziale in un contratto scritto) si rivela meramente apparente, perché incapace di confrontarsi con le ragioni d’appello.
Se poi si considerano le critiche articolate che l’appellante agenzia aveva esposto dinanzi alla commissione regionale, è manifesta l’apparenza della motivazione, che di fatto mostra di ignorare le ragioni ed i fatti allegati dalla difesa erariale.
Deve dunque dichiararsi la nullità della sentenza per la parte riferita alla prima delle riprese ad imponibile pretesa dell’ufficio.
Ne discende l’assorbimento del secondo motivo, con cui sotto il profilo dell’errore di diritto la ricorrente ha inteso censurare la medesima statuizione della sentenza d’appello.
Con il terzo motivo l’ufficio ha denunciato la «violazione e falsa applicazione degli artt. 39 DPR 600/73, 109 TUIR, 19 DPR 633/72 e 2697 c.c. », in relazione all’art. 360, primo co mma, n. 3, cod. proc. civ. La sentenza sarebbe erronea nella parte in cui ha annullato l’avviso d’accertamento con riferimento alla ripresa dei costi per compensi corrisposti agli amministratori. La critica, in particolare, si sofferma sulla sproporzione tra i compensi riconosciuti agli amministratori e gli utili sociali. Pone in evidenza come tale sproporzione sia tanto più evidente, quando si raffrontino i compensi della società, consorziata del RAGIONE_SOCIALE, ed i compensi versati agli
amministratori di quest’ultima, il cui fatturato era ben superiore e la cui struttura più complessa.
La censura è infondata.
Va premesso che gli approdi interpretativi sul concetto di inerenza hanno avvertito l’assenza di una nozione giuridica. Come evidenziato in dottrina, si tratta piuttosto di un principio per taluni aspetti immanente nella Costituzione, un ‘corollario’ del co ncetto di reddito, ma tuttavia oggetto di dibattito, per il quale il richiamo all’art. 109, comma 5 del TUIR rappresenta un mero “contenitore”, in cui è semplicemente prevista l’indeducibilità dei costi che dovessero risultare estranei all’attività svolta.
Nella giurisprudenza, secondo l’interpretazione tradizionale, ess a trova allocazione nell’art. 109, comma 5, del d.P.R. n. 917 del 1986, e in particolare è ricondotta al rapporto tra costo ed impresa. Si è affermato che, con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, l’inerenza all’attività d’impresa delle singole spese e dei costi affrontati, indispensabile per ottenerne la deduzione ex art. 109 (già 75) del d.P.R. n. 917 del 1986, va definita come una relazione tra due concetti – la spesa (o il costo) e l’impresa – sicché il costo (o la spesa) assume rilevanza ai fini della qualificazione della base imponibile non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili (cfr. Cass, 11 agosto 2017, n. 20049; 9 maggio 2017, n. 11241; 27 febbraio 2015, n. 4041). Anche l’ampiezza dello spettro entro cui riconoscere un rapporto di inerenza è stata scrutinata dalla giurisprudenza, sensibile a non ridurre la relazione entro criteri meramente formali, ampliandone invece la portata mediante la valorizzazione del rapporto e delle ricadute concrete tra spesa e coerenza economica con l’attività di impresa. Per un verso dunque si è negato c he il rapporto trovi conforto nella mera contabilizzazione del costo ( ex multis , Cass., 8 ottobre 2014, n. 21184) e che al contrario incomba sul contribuente l’onere di allegazione della documentazione di supporto da cui ricavare l’importo, nonché la ragio ne e la coerenza economica della spesa al fine della prova dell’inerenza (anche qui, ex multis, Cass., 26 maggio 2017, n. 13300; 30 maggio 2018, n. 13596; con specifico riferimento all’Iva cfr. 27 settembre 2013, n. 22130; 7 giugno 2018, n. 14858).
Sotto altro aspetto tuttavia è stato opportunamente e condivisibilmente avvertito come ai fini della deducibilità dei costi per la determinazione del reddito d’impresa non è sufficiente che l’attività svolta rientri tra quelle previste nello statuto sociale, circostanza che ha un valore meramente indiziario circa la sua inerenza all’effettivo esercizio dell’impresa, incombendo sul contribuente l’onere di dimostrare che un’operazione, anche apparentemente isolata e non diretta al mercato, sia inserita in una specifica attività imprenditoriale e destinata, almeno in prospettiva, a generare un lucro in proprio favore (Cass., 25 febbraio 2015, n. 3746). Il che introduce un criterio interpretativo non solo utilizzabile per negare inerenza a spese finalizzate esclusivamente al conseguimento di vantaggi fiscali (come per la fattispecie analizzata nella pronuncia da ultimo citata), ma anche, al contrario, per valorizzare spese che concretamente, in prospettive di ampia visione, si rivelino utili al progetto imprenditoriale, pur rivelando -ma solo in apparenzaun rapporto debole tra costo e attività d’impresa.
Tale ultimo rilievo torna utile quando la Corte, abbandonando il tradizionale criterio del rapporto tra costo e requisiti di congruità e vantaggiosità dello stesso, e prendendo le distanze dall’art. 109 Tuir quale fondamento del concetto di inerenza, ha affermato che, in tema di imposte sui redditi delle società, il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa, non dall’art. 109 comma 5 (già art. 75) del d.P.R. n. 917 del 1986, riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili. Si è in particolare sostenuto che l’inerenza deve esprimere la necessità di riferire i costi sosten uti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza necessità di compiere valutazioni in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta. È infatti configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico, né deve assumere rilevanza la congruità delle spese, perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo (Cass., 11 gennaio 2018, n. 450).
L’impostazione da ultimo riferita assume tuttavia solo apparentemente una posizione di rottura con il passato, perché -ad una piana lettura- è meno lontana di quanto sembri dalla tradizionale interpretazione. Infatti, quando si consideri che per un verso viene valorizzato il rapporto, caldeggiato da autorevole dottrina, tra spesa e sua riferibilità, immediata o mediata, alla
produzione del reddito (con esclusione dunque di quelle spese afferenti la cd. disposizione del reddito), e per altro verso si instaura il rapporto tra spesa e reddito di impresa, l’abbandono dei requisiti della vantaggiosità e congruità del costo non vuol significare che essi siano del tutto esclusi dal giudizio di valore, cui resta comunque sottoposta la spesa al fine del riconoscimento della sua inerenza e dei presupposti per la sua deducibilità. Qualunque sia il concetto di impresa, anche nelle teorie più socialmente orientate a svilirne finalità di utile economico, e, per le società, lo scopo del conseguimento di utili (ai fini del fisco elemento di manifestazione di ricchezza e dunque presupposto stesso della tassazione), e qualunque finalità voglia pe rseguirsi con l’impresa, non può certo negarsi l’esigenza di applicazione di buone regole di gestione dell’attività, che contrastano assiomaticamente con spese svantaggiose, incongrue e sproporzionate -tali ovviamente non in rapporto all’esito del costo ma secondo un giudizio prognostico a monte, dovendosi altrimenti negare il rischio d’impresa -. Ciò perché è agevole ipotizzare che spese incongrue o svantaggiose conducano alla mala gestione dell’impresa -e da ultimo alla sua crisi e cessazione-, sicché i criteri, apparentemente estromessi, tornano ad assumere indirettamente rilevanza, come d’altronde evidenzia quello stesso richiamato evolutivo orientamento, nella parte conclusiva delle argomentazioni, affermando che « l’antieconomicità e l’incongruità della spesa sono indici rivelativi della mancanza di inerenza, pur non identificandosi con essa ».
La convergenza tra due percorsi interpretativi, in apparente contraddizione, trova conferma anche considerando il tradizionale orientamento sul concetto di inerenza, atteso che la valorizzazione della congruenza e vantaggiosità, o della antieconomicità, del costo rapportato all’impresa già prima, a ben vedere, implicava un giudizio di valore qualitativo della stessa spesa. E ciò, in maniera più o meno esplicita, viene ribadito anche nelle decisioni più recenti di questa Corte (Cass., 12 luglio 2024, n. 19232; 15 novembre 2022, n. 33568; 2 febbraio 2021, n. 2224; 17 gennaio 2020, n. 902; 21 novembre 2019, n. 30366; 23 maggio 2018, n, 12738; 17 luglio 2018, n. 18904).
Gli approdi ermeneutici più recenti hanno dunque stimolato indagini volte ad avvicinare il concetto giuridico di inerenza dei costi alla complessa realtà economica ed al modo concreto dell’operare dell’impresa.
Illustrato allora il significato attribuito alla inerenza, nel caso di specie, non solo la difesa erariale sembra ancorata ad un concetto meramente economico, non più adeguato alla evoluzione giurisprudenziale e dottrinale, ma, soprattutto non si confronta con la motivazione del giudice d’appello.
Questi, sia pur sinteticamente, ha motivato il rigetto dell’appello erariale rilevando che gli amministratori della società erano retribuiti non solo per l’espletamento delle mansioni proprie del consiglio, ma anche per «scelte che attengono alla ‘governance’ la cui retribuzione è legata anche ai profili professionali ed imprenditoriali dei componenti medesimi».
Emerge con evidenza che la decisione del giudice regionale è corretta perché richiama un concetto di inerenza volto all’apprezzamento dei profili qualitativi del rapporto tra costo e sua determinazione. Rispetto ad esso la obiezione dell’Agenzia delle entr ate, secondo cui le ulteriori attività svolte dai componenti del consiglio non potevano comunque giustificare compensi così elevati, lungi dal rivelarsi efficace, involge ancora una volta una valutazione del concetto di inerenza solo economica (o, meglio, antieconomica), che ignora l’evoluzione interpretativa in materia.
Pertanto, il motivo di ricorso non coglie nel segno nel pur lungo sviluppo delle ragioni erariali.
Esso va in definitiva rigettato.
Le ragioni appena sviluppate con riferimento al terzo motivo sul concetto di inerenza permettono di rigettare il quarto motivo di ricorso con cui l’ufficio ha denunciato «violazione e falsa applicazione degli artt. 39 DPR 600/73, 109 TUIR, 19 DPR 633/72 e 2697 c.c.», in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. La sentenza avrebbe erroneamente annullato la ripresa a tassazione dell’ufficio relativamente ai fitti passivi.
Senza reiterare le argomentazioni già esposte, il giudice regionale ha considerato legittima e inerente una spesa sostenuta per la locazione di un magazzino, in vista della implementazione delle capacità di partecipazione della società ad ulteriori gare d’appalto per l’assegnazione di ulteriori servizi. Si tratta di una motivazione in linea con i principi di diritto enunciati in tema di inerenza, così che tale statuizione risulta indenne dalle censure erariali.
RGN 4492/2024 In definitiva la sentenza va cassata con riferimento al primo motivo, assorbito il secondo. Il terzo e quarto motivo vanno rigettati. Il giudizio va rinviato alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Sicilia, che in diversa
composizione, oltre che provvedere alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, provvederà all’esame dell’appello della Agenzia delle entrate, nei limiti e secondo i principi enunciati da questa Corte.
P.Q.M.
La Corte, accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, rigetta il terzo ed il quarto. Cassa la sentenza nei limiti del motivo accolto e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Sicilia, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese di legittimità.
Così deciso in Roma, il giorno 26 marzo 2025