Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 32128 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 32128 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 12/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1492/2017 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587) che la rappresenta e difende -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. DELLA CAMPAGNIA n. 5159/2016 depositata il 03/06/2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 11/09/2024 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
La RAGIONE_SOCIALE impugnava l’avviso di accertamento notificato il 14 novembre 2013, mediante il quale l’Agenzia delle Entrate aveva rideterminato induttivamente il reddito d’impresa, liquidando i diversi importi dovuti a titolo di imposte. Il recupero fiscale s’incentrava, infatti, sull’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi ai fini della tassazione Ires e Irap, per l’anno d’imposta 2008, da parte della società, dichiarata fallita nel 2009. La CTP di Avellino rigettava il ricorso della contribuente. La CTR della Campania ha respinto l’appello della contribuente. Quest’ultima ha affidato il proprio ricorso per cassazione a quattro motivi. L’Agenzia resiste con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si profila la censura ex art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione o falsa applicazione degli artt. 36 D.Lgs. n. 546 del 1992 e 5, co. 4, d.P.R. n. 322 del 1998, per avere la CTR erroneamente ritenuto il curatore gravato dell’onere di presentazione della dichiarazione reddituale relativa all’impresa fallita per l’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento.
Il motivo è infondato.
Nella sostanza viene criticata l’impugnata sentenza ove reputa la sussistenza in capo all’organo concorsuale dell’obbligo di presentare la dichiarazione dei redditi per il periodo di imposta anteriore alla dichiarazione di fallimento, non essendogli imposto da alcuna norma specifica.
Mette in conto evidenziare, in principalità, che il motivo non coglie nel segno. Invero, la CTR non si limita ad affermare che in capo al curatore consta l’obbligo di presentazione della dichiarazione anche in relazione alle imposte dirette. Per converso, il giudice regionale
evidenzia pure che il punto concernente la sussistenza e la titolarità dell’obbligo di presentazione della dichiarazione reddituale è marginale e recessivo rispetto al nucleo reale della controversia, racchiuso nell’affermazione essenziale secondo cui all’accertamento induttivo si è fatto, nella specie, ricorso perché comunque mancava la dichiarazione dei redditi, poco interessando chi dovesse poi essere obbligato alla sua presentazione, imprenditore fallito o curatore.
Ad ogni buon conto detto obbligo faceva astrattamente capo proprio all’organo concorsuale. Infatti, se per quanto attiene la dichiarazione IVA esiste una precisa disposizione normativa – l’art. 8, comma quarto, d.P.R. n. 322/1998 ponga a carico del curatore la dichiarazione IVA -che impone al curatore l’obbligo di presentare la dichiarazione ove il fallimento si sia aperto prima della scadenza del termine, non diversamente detto obbligo viene in apice per le Imposte dirette, in ragione di una lettura sistematica e costituzionalmente adeguata dell’ordinamento.
In questo senso, l’art. 1 d.P.R. n. 600/1973 pone il dovere di dichiarazione in capo alla generalità dei soggetti passivi, anche di coloro che non abbiano prodotto reddito in quell’anno di imposta. Per le persone giuridiche, il dovere si intende in capo al legale rappresentante e, per il fallimento, in capo al curatore che ne prende la guida al momento di pubblicazione della sentenza che dichiara lo stato di decozione. Non vi può essere soluzione di continuità nella conduzione d’impresa, almeno a fini fiscali (che qui interessano), sicché il curatore si trova nella posizione di potere/dovere propria dell’imprenditore, seppur senza l’alea che quello caratterizza, bensì con i limiti propri che la legge prevede a garanzia dei creditori, tra cui quel creditore privilegiato che è lo Stato. Se all’imprenditore fallito non può essere imputata la mancata esposizione dei redditi prima della sua scadenza, al contrario, al curatore compete presentare la dichiarazione la cui
scadenza sia successiva alla sua nomina nell’ufficio. Infatti, questo adempimento incombe – per la citata generale disposizione di legge – in capo a chi sia al governo della persona giuridica al momento della scadenza del termine per adempiere: nel caso all’esame, il fallito non era più in bonis dal 21 luglio 2009, nel mentre da quel giorno era in carica il curatore, cui spettava -fra l’altro -l’assolvimento degli obblighi tributari della società, in primo luogo la dichiarazione dei redditi per l’anno precedente la dichiarazione di fallimento, da presentarsi entro il 30 settembre 2009. In questo senso si è già espressa condivisibilmente questa Corte (cfr. Cass. n. 5623 del 2021).
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione dell’art. 115 c.p.c., in ragione della mancata valutazione delle prove dell’assenza di antieconomicità da parte dei giudici d’appello.
Il motivo è inammissibile.
Sotto le mentite spoglie del vizio di violazione di legge, la parte ricorrente mira ad ottenere una rivisitazione del merito della controversia, aspirando ad una diversa valutazione del materiale probatorio destinata a soppiantare quella compiuta dal giudice d’appello nell’esercizio libero del proprio sindacato.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno evidenziato che ‘ In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.’ (Cass., Sez. Un., n. 20867 del 2020).
Di recente è stato soggiunto dal giudice nomofilattico che ‘ In tema di ricorso per cassazione, può essere dedotta la violazione dell’art. 115 c.p.c. qualora il giudice, in contraddizione con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove inesistenti e, cioè, sia quando la motivazione si basi su mezzi di prova mai acquisiti al giudizio, sia quando da una fonte di prova sia stata tratta un’informazione che è impossibile ricondurre a tale mezzo (ipotesi diversa dall’errore nella valutazione dei mezzi di prova – non censurabile in sede di legittimità – che attiene alla selezione da parte del giudice di merito di una specifica informazione tra quelle astrattamente ricavabili dal mezzo assunto), a condizione che il ricorrente assolva al duplice onere di prospettare l’assoluta impossibilità logica di ricavare dagli elementi probatori acquisiti i contenuti informativi individuati dal giudice e di specificare come la sottrazione al giudizio di detti contenuti avrebbe condotto a una decisione diversa, non già in termini di mera probabilità, bensì di assoluta certezza ‘ (Cass. n. 12971 del 2022).
Con il terzo motivo di ricorso si censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., degli artt. 7 e 10 L. n. 212 del 2000 e dell’art. 39, co. 2, d.P.R. n. 600 del 1973, per avere la CTR contestato l’antieconomicità dell’operazione sulla base di parametri incongrui.
Il motivo è infondato.
La CTR ha osservato la contrarietà ‘ ad ogni canone di ragionevolezza ‘ che la contribuente sopportasse ‘ un costo di oltre 10 milioni di euro per poi ricavare dalla vendita dei prodotti acquistati meno della metà del capitale impiegato ‘, soggiungendo che ‘ la società nulla ha dedotto se non lo stato di decozione prefallimentare’ .
In buona sostanza, il giudice d’appello ha compiuto un accertamento di fatto in ordine all’entità del ‘costo del venduto’,
sulla scorta di una percentuale di ricarico mutuata dallo studio di settore reputato applicabile e non contestato in costanza di giudizio, da lì evincendo la percentuale di redditività del 3%.
In tal senso, la CTR si è posta nel solco tracciato dalla giurisprudenza di legittimità, alla cui stregua ‘L’accertamento analiticoinduttivo, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973, di maggiori ricavi non dichiarati da un’impresa commerciale, operata attraverso l’applicazione di una percentuale di ricarico medio ponderato, si effettua: a) applicando detta percentuale sul costo del venduto quale accertato nei confronti dell’impresa; b) sommando l’importo cosi ottenuto (margine di guadagno) al predetto costo del venduto accertato; c) detraendo dall'importo cosi ottenuto (ricavi accertati) i ricavi dichiarati dall’impresa o comunque accertati sulla base della sua contabilità ‘ (Cass. n. 19213 del 2017).
Con il quarto motivo di ricorso si assume la violazione degli artt. 7 e 10 L n. 212 del 2000, avuto riguardo agli artt. 36 D.Lgs. n. 546 del 1992 e 360 n. 3 c.p.c., nonché la violazione dell’art. 39, co. 2, d.P.R. n. 600 del 1973, per la mancata instaurazione del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Il motivo è infondato.
Mette in conto evidenziare che ‘ In materia di garanzie del contribuente, la violazione del diritto di difesa, ed in particolare del diritto di essere sentiti, determina l’invalidità del provvedimento conclusivo solo se in mancanza di tale irregolarità il procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso, come si desume dalle sentenze della Corte di giustizia del 3 luglio 2014 in C-129/13 e del 22 ottobre 2013 in C-276/12. (Principio applicato in relazione ad un accertamento induttivo originato dall’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, di cui è stata confermata la legittimità, nonostante l’omessa attivazione del contradditorio
preventivo, non avendo il ricorrente neppure prospettato un risultato diverso) ‘ (Cass. n. 16036 del 2015; Cass. n. 24823 del 2015). Nella specie il contribuente non ha assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere.
Il ricorso va, in ultima analisi, rigettato. Le spese sono regolate dalla soccombenza nella misura esposta in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.800,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 11/09/2024.