Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 6725 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 6725 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 08/01/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Perugia nel procedimento nei confronti di NOME COGNOME
NOMECOGNOME nato in Marocco il 12/8/1984
avverso la sentenza del 5/3/2024 della Corte di appello di Perugia
Visti gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di dichiarare l’inammissibilità del ricorso della Parte pubblica e di rigettare il ricorso dell’imputato.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 5 marzo 2024 la Corte di appello di Perugia, decidendo a seguito di annullamento con rinvio, disposta da questa Sezione, in parziale
riforma della pronuncia emessa il 4 marzo 2021 dal Tribunale di Teramo, con cui NOME COGNOME era stato condannato per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali, ha ridotto la pena applicata all’imputato, previa disapplicazione della recidiva contestata.
Secondo la ricostruzione effettuata in modo conforme da entrambe le sentenze di merito, l’imputato, al fine di opporsi al compimento di un atto di ufficio, aveva opposto resistenza ai carabinieri, che stavano procedendo alle operazioni utili all’esecuzione nei suoi confronti del provvedimento di sostituzione della misura cautelare degli arresti domiciliari con quella della custodia in carcere, e aveva procurato lesioni personali a uno degli agenti.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Perugia, il quale ha dedotto che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe apparente, poiché, dopo aver richiamato le argomentazioni del Giudice di primo grado, si sarebbe limitata ad affermare apoditticamente l’assenza di incongruenze e contraddizioni nelle versioni rese dai carabinieri, senza scendere nel dettaglio e neppure riportare le specifiche censure formulate in proposito nell’appello, liquidate in sole quattro righe. L’appello, invece, avrebbe ben evidenziato le contraddizioni tra le deposizioni dei testimoni d’accusa: difatti, i carabinieri NOME COGNOME e NOME COGNOME dapprima, si erano attenuti alla versione riportata nel verbale di arresto, che menzionava una spinta ricevuta da entrambi, uno scatto dell’imputato verso il vicebrigadiere NOME COGNOME con calcio mirato verso la sua mano destra per guadagnare la porta di uscita, nonostante fosse chiusa a chiave, e poi la congiunta immobilizzazione dell’imputato, senza che fosse stato per nulla necessario colpirlo, dal momento che lui non aveva colpito nessuno, a parte il calcio alla mano del vicebrigadiere (tanto che nel verbale di arresto nemmeno compariva la parola colluttazione). Il teste COGNOME poi, dopo avere negato che l’imputato aveva dato pugni, oltre la spinta e il calcio alla mano del vicebrigadiere, aveva aggiunto di ricordare genericamente che, invece, aveva dato dei calci, senza riferire a chi, e poi che aveva dato anche dei pugni, sempre senza riferire a chi. I due carabinieri, però, erano rimasti concordi nel negare che qualcuno dei militari avesse colpito l’imputato, avendo entrambi spiegato che lo avevano solo immobilizzato, sia pure a fatica, buttandosi insieme addosso a lui per gettarlo a terra, per poi riportandolo seduto sulla sedia, ma senza fargli assolutamente del male. A fronte della domanda sul perché l’imputato si fosse procurato le pesanti lesioni refertate al volto in ingresso al carcere, NOME aveva prima introdotto il riferimento ad un termosifone di ghisa, contro cui Corte di Cassazione – copia non ufficiale
l’imputato avrebbe sbattuto, rotolando a terra con lui che l’aveva abbracciato da solo, ma, in seguito, aveva finito per ammettere di aver colpito l’imputato per rispondere ai colpi del privato, sia pure senza offrire altri dettagli. Il tes COGNOME aveva pure smentito la versione del verbale, secondo la quale l’imputato aveva intenzionalmente colpito con un calcio alla mano destra, poiché aveva concluso riferendo di essersi, invece, procurato quella lesione nel parare volontariamente con la mano destra due calci sferrati dall’imputato evidentemente verso bersagli diversi.
Ad avviso del Pubblico Ministero ricorrente, la sentenza era, dunque, errata anche laddove ha affermato che le lesioni al volto dell’imputato erano state prodotte dalla colluttazione: ciò a fronte delle deposizioni dei tre pubblici agenti che non erano affatto collimanti su tali aspetti. Né la sentenza aveva spiegato come mai l’attacco dell’imputato, violento ed irruente, non avesse lasciato conseguenza lesiva alcuna sui tre carabinieri, se si eccettua la frattura della mano destra di COGNOME, che risultava compatibile con un colpo inferto dal miliare. Inoltre, la Corte di appello non aveva chiarito come mai, a fronte delle pesanti lesioni patite dall’imputato, repertate dal medico all’arrivo nel carcere, la versione del prevenuto non fosse affatto credibile, pur in presenza del narrato dei carabinieri le cui deposizioni erano apparse, in più punti, incompatibili tra loro.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione anche il difensore di NOME COGNOME che ha dedotto i motivi di seguito indicati.
4.1. Erronea applicazione della legge processuale, per avere la Corte di appello di Perugia trattato l’udienza senza la partecipazione delle parti e la presenza dell’imputato, detenuto per altra causa, pur se il difensore avesse chiesto la trattazione orale.
4.2. Erronea applicazione della legge, per avere ritenuto che l’imputato avesse commesso più condotte di resistenza e non un’unica, con conseguente aumento della pena a titolo di continuazione.
4.3. Omesso avviso, da parte della Corte di appello, sulla facoltà difensiva di chiedere una pena sostitutiva.
4.4. Mancata risposta alle deduzioni sollevate con l’atto di appello, con cui si erano evidenziate le incongruenze delle deposizioni dei tre carabinieri sulla dinamica dei fatti e sulle cause della lesione, riportata alla mano di uno di loro, e la mancata esposizione delle ragioni delle tumefazioni al viso dell’imputato, riscontrate all’ingresso in carcere, dopo essere stato trattenuto in caserma. Secondo il ricorrente, la Corte di appello non aveva approfondito aspetti decisivi, quali, ad es., l’innplausibilità del tentativo di fuga dell’imputato in caserma e
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dell’affermazione secondo cui il “calcio in aria”, dato dall’imputato, aveva prodotto la frattura di un osso della mano del vicebrigadiere.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Entrambi i ricorsi vanno accolti, per le ragioni di seguito precisate.
Il primo motivo del ricorso di NOME COGNOME da cui occorre prendere le mosse per ragioni di ordine logico, è infondato.
È pacifico che, in relazione all’udienza fissata dinanzi alla Corte di appello di Perugia dopo l’annullamento della sentenza della Corte di appello di L’Aquila, l’odierno ricorrente non aveva presentato richiesta di trattazione orale.
Secondo il ricorrente, la Corte perugina non poteva trattare il procedimento con rito cartolare, dovendo valere la richiesta di trattazione orale formulata con apposito atto nel “primo” procedimento dinanzi alla Corte di appello di L’Aquila.
L’assunto è errato.
L’art. 23-bis d.l. n. 137/2020, conv. in L. 176/2020 (Disposizioni per la decisione dei giudizi penali di appello nel periodo di emergenza epidemiologica da COVID-19), prevede al comma 4 che “la richiesta di discussione orale è formulata per iscritto dal pubblico ministero o dal difensore entro il termine perentorio di quindici giorni liberi prima dell’udienza ed è trasmessa alla cancelleria della Corte di appello attraverso i canali di comunicazione, notificazione e deposito rispettivamente previsti dal comma 2”.
Al riguardo, questa Corte ha puntualizzato che, proprio perché l’art. 23 cit. prevede che l’istanza di discussione orale deve essere presentata entro “il termine perentorio di quindici giorni liberi prima dell’udienza”, il termine a ritroso deve essere calcolato dalla udienza; e, dunque, stante il chiaro tenore della disposizione, occorre che l’udienza sia fissata ai sensi dell’art. 601 cod. proc. pen. Poiché dalla data di fissazione dell’udienza decorrono a ritroso i termini per la richiesta di discussione orale, ne consegue che non può ritenersi validamente presentata una istanza di trattazione orale contenuta nell’atto di impugnazione (Sez. 3, n. 20575 del 22/03/2024, COGNOME, Rv. 286435 – 01).
Non ignora il Collegio che si è anche ritenuto che nel giudizio di appello, in mancanza di una specifica previsione da parte dell’art. 23-bis d.l. 22 ottobre 2020, n. 137, o di uno specifico divieto espresso o implicito, il “timing” della domanda di trattazione orale può essere lasciato alla libera scelta della parte, così che è rituale anche la richiesta di discussione orale formulata, pur inusualmente, in calce all’atto di appello (Sez. 2, n. 33310 del 28/04/2023, COGNOME, Rv. 285310 – 01).
Tuttavia, nel caso in esame, la richiesta di trattazione orale, formulata con apposito atto, era correlata all’udienza di appello fissata dalla Corte abruzzese e, in relazione proprio ad essa, la parte appellante aveva manifestato la sua scelta sul rito. La stessa richiesta non poteva valere in relazione al procedimento rescissorio, fissato a seguito della sentenza rescindente, sia pure concernente le stesse parti e la stessa vicenda sostanziale.
La diversa conclusione, infatti, pretenderebbe di assegnare alla richiesta, presentata per un procedimento ormai definito, una ultrattività dissonante con la stessa volontà della parte espressa nell’anzidetta richiesta, la quale, per l’appunto, aveva optato per la discussione orale con riguardo specifico al procedimento già instaurato e non anche con riguardo a un procedimento all’epoca del tutto eventuale e futuro.
Nel nuovo procedimento instaurato a seguito della sentenza rescindente, il ricorrente avrebbe dovuto manifestare una apposita “nuova” scelta sul rito, con la conseguenza che, in difetto di essa e non potendo supplire l’istanza, formulata in relazione ad un’altra fase del procedimento, correttamente la Corte di appello di Perugia ha trattato il procedimento con rito cartolare.
Sono, invece, fondate le censure formulate nel ricorso della Parte pubblica e nell’ultimo motivo di quello di NOME COGNOME
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo cui, se l’appellante si limita alla riproposizione di questioni di fatto o di diritto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate, il giudice dell’impugnazione ben può motivare per relationem; quando, invece, sono formulate censure o contestazioni specifiche, introduttive di rilievi non sviluppati nel giudizio anteriore o contenenti argomenti che pongano in discussione le valutazioni in esso compiute, è affetta da vizio di motivazione la decisione d’appello che si limita a respingere le deduzioni proposte con formule di stile o in base ad assunti meramente assertivi o distonici dalle risultanze istruttorie GLYPH (così, GLYPH ex multis, GLYPH Sez. 2, n. 56395 del 23/11/2017, GLYPH COGNOME, Rv. 271700 – 01; Sez. 4, n. 6779 del 18/12/2013, COGNOME, Rv. 259316 – 01).
A fronte di motivi di appello specifici, con i quali si propongono motivate argomentazioni critiche alla ricostruzione del giudice di primo grado in ordine, ad esempio, all’affermazione della responsabilità, il giudice di appello, quindi, pena il difetto di motivazione sul punto, deve rispondere a ciascuna delle contestazioni adeguatamente mosse dalla difesa con l’atto di impugnazione. Tra specificità dei motivi di gravame e specificità della motivazione di secondo grado vi è un
evidente necessario parallelismo, poiché all’adeguatezza dei primi a proporre censure alla sentenza di primo grado deve, necessariamente, corrispondere una motivata risposta da parte del giudice di appello.
Per altro verso, va precisato che – come affermato da questa Corte di cassazione – anche i motivi di appello devono risultare rispettosi delle previsioni di cui al combinato disposto degli artt. 581, comma 1, lett. c), 591, comma 1, lett. c), e 597, comma 1, cod. proc. pen., funzionali alla tutela di esigenze sistematiche che assumono rilievo costituzionale e secondo i quali, quindi, l’appellante deve indicare “specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta” (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, COGNOME, Rv. 268822 – 01).
Si è, così, rimarcato che, sul piano sistematico, la necessità della specificità estrinseca dei motivi di appello trova fondamento nella considerazione che essi non sono diretti all’introduzione di un nuovo giudizio, del tutto sganciato da quello di primo grado, ma sono, invece, diretti ad attivare uno strumento di controllo, su specifici punti e per specifiche ragioni, della decisione impugnata. E in un processo accusatorio, basato sulla centralità del dibattimento di primo grado e sull’esigenza di un diretto apprezzamento della prova da parte del momento della sua formazione, il giudizio di appello non può e non deve essere inteso come un giudizio a tutto campo; con la conseguenza che le proposizioni argomentative sottoposte a censura devono essere, in relazione al punto richiesto, enucleate dalla decisione impugnata. L’impugnazione deve, in altri termini, esplicarsi attraverso una critica specifica, mirata e necessariamente puntuale della decisione impugnata e da essa deve trarre gli spazi argomentativi della domanda di una decisione corretta in diritto ed in fatto.
Nel caso in esame, i rilievi formulati dall’imputato con l’atto di gravame erano molto specifici.
La giustificazione di tale epilogo presuppone, necessariamente e innanzitutto, l’esposizione delle argomentazioni poste dal Tribunale a fondamento della sentenza di condanna di NOME COGNOME e delle censure sollevate dall’appellante.
Il Giudice di primo grado aveva affermato che l’imputato, dopo che i Carabinieri NOME COGNOME e NOME COGNOME lo avevano fermato nei pressi del lungomare di Martinsicuro perché oggetto di un’ordinanza sostitutiva di custodia cautelare in carcere, giunto in caserma e liberato dalle manette, che aveva chiesto gli venissero apposte alle braccia avanti al corpo al fine di fuggire, aveva spintonato con violenza i suddetti agenti, facendoli cadere a terra; direttosi, quindi, verso la porta, aveva colpito con un calcio il carabiniere NOME
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COGNOME, pure fratturandogli un osso della mano. Ne era seguita una violenta colluttazione, in esito alla quale i tre militari, poi aiutati da un quar sopraggiunto, erano riusciti ad immobilizzare NOMECOGNOME che aveva continuato ad opporsi con pugni e calci e che, così, all’esito di quella colluttazione, aveva subito tumefazioni ed ematomi al volto.
Sulla base delle deposizioni testimoniali dei tre carabinieri, ritenute tra loro conformi e riscontrate anche dal referto del pronto soccorso, il Giudice di primo grado era pervenuto al giudizio di colpevolezza dell’imputato.
Con l’atto di appello la difesa del COGNOME, nel censurare la ricostruzione dei fatti e le valutazioni delle prove effettuate dal Tribunale, aveva dedotto l’esistenza di una serie di discordanze e contraddizioni nelle versioni dei tre carabinieri, in particolare con riferimento ai tempi e ai modi della reazione dell’imputato; alla esistenza di una effettiva colluttazione tra gli agenti e il privato, ovvero di un calcio sferrato da quest’ultimo ad uno dei carabinieri; alla causa delle pesanti lesioni al volto con le quali il COGNOME era stato presentato in carcere; nonché alle peculiari lesioni alla mano patite da uno dei militari, caratterizzate dalla “lesione ad un ossicino” tipico delle conseguenze di un pugno sferrato contro un corpo duro.
Si trattava, pertanto, di censure difensive molto specifiche e circostanziate che non si risolvevano nella mera riproposizione di questioni già adeguatamente valutate e decise, bensì di doglianze afferenti a profili decisivi su cui sarebbe stato necessario un attento ed accurato controllo da parte della Corte territoriale.
Il Collegio di appello si è, invece, limitato genericamente a sostenere che le dichiarazioni dei carabinieri erano concordi «nel riferire la stessa sostanziale versione dei fatti» e che doveva «ribadirsi che non vi sono reali contraddizioni tra di esse e nemmeno la critica puntigliosa e cavillosa dell’atto di appello ha saputo indicare precisi e incolmabili contrasti in ordine e i punti focali degl avvenimenti».
Così argomentando, il Collegio di secondo grado ha dato una risposta priva della necessaria specificità rispetto alle precise doglianze sollevate con l’appello, che erano state significativamente condivise anche dal Pubblico Ministero in sede di discussione di udienza. I Giudici dell’appello hanno, in pratica, assertivamente ripetuto che le dichiarazioni dei tre carabinieri erano concordi nella sostanza, senza, però, realmente confrontarsi con i precisi dati convincentemente segnalati dalla difesa dell’imputato, che aveva sottolineato l’esistenza di numerose contraddizioni del narrato dei testi d’accusa, incidenti non su aspetti marginali della vicenda ma su punti focali degli avvenimenti: in tal modo i Giudici di merito si sono sottratti ad un onere motivazionale che le particolarità della vicenda imponevano dovesse essere assolto con speciale cura e attenzione.
In dettaglio, la Corte di appello ha affermato che le tumefazioni al volto dell’imputato erano frutto della colluttazione verificatasi ma, benché sollecitata al riguardo, non ha illustrato le ragioni per cui – a fronte della dedotta discordanza delle deposizioni dei testi – potesse ritenersi raggiunta la prova sulla effettiva esistenza di quella colluttazione: onere di motivazione che, in parte qua, doveva essere tanto più stringente, tenuto conto che il teste COGNOME aveva riferito che l’imputato aveva battuto la testa contro un termosifone in ghisa (circostanza di cui gli altri due testimoni non avevano parlato), e che, nonostante quella asserita colluttazione, nessuno dei militari aveva avuto conseguenze lesive, se si eccettua la peculiare frattura composta della testa del metacarpo della mano destra di COGNOME.
Alla luce di quanto precede, fondatamente sia il ricorrente privato sia quello pubblico hanno lamentato l’esistenza di un evidente vizio di motivazione in ordine all’affermazione della responsabilità dell’imputato.
Restando assorbito l’esame delle ulteriori doglianze di cui al secondo e terzo motivo del ricorso dell’imputato, la sentenza impugnata va annullata con rinvio alla Corte di appello di Firenze che, nel nuovo giudizio, porrà rimedio alle indicate lacune motivazionali.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Firenze.
Così deciso 1’8 gennaio 2025
Il Consigliere estensore